antica
A PROPOSITO DEL BASILICO
LE “FANCIULLE DAL PIEDE LEGGERO” E IL
PESTO GENOVESE
di Raffaella Di Vincenzo
“(…)
M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina (…)”.
(G. Gozzano, I Colloqui. La signora
Felicita, ovvero della felicità)
La cura delle nostre nonne nei riguardi
delle preziose piantine e il suo
profumo, sono senz’altro le cose che più
amiamo del basilico: sono odori e gesti
che ci ricordano l’estate e la felicità,
per dirla alla Gozzano, odori e gesti
forieri di sogni e di speranza, quella
stessa speranza che emanano gli occhi
della signora Felicita “azzurri come le
stoviglie”.
Ma non è sempre stato così: elemento
peculiare delle superstizioni diffuse
tra le popolazioni dell’Asia, del Medio
Oriente e del Mediterraneo, terre presso
le quali è originario, il basilico aveva
un significato senza dubbio ambiguo.
Ambigua è anche la sua etimologia: Il
termine latino ocimum, nome
scientifico del basilico, deriva dal
verbo greco
ozw
che significa emanare odore intenso.
È con Galeno, medico del IV secolo, che
compare per la prima volta il termine
basilikon come nome di un collirio
nella cui preparazione entrano diversi
componenti, nessuno dei quali, però, è
la nostra erba (De simplicium
medicamentorum temperamentis ac
facultatibus, XII, 782) e per questo
motivo appare piuttosto evidente che
l’origine del nome del moderno
“basilico” non sia ancora del tutto
certa, anche se, come termine botanico,
essa sia da riferirsi a un’attestazione
all’interno della Suida (o Suda; gr.
Σουίδα
o
Σοῦδα),
il maggiore dei lessici greci giunti
sino a noi, risalente all’epoca
bizantina (X secolo circa).
Qualunque sia il passaggio dal verbo
ozw
al più recente basilikon, è
chiaro il riferimento alla grande
considerazione di cui questa pianta
aromatica ha sempre goduto, quasi fosse
la regina delle erbe o erba da
re e forse proprio in virtù del suo
profumo.
Ma allora, perché una piantina tanto
amata da tutti e tanto utilizzata nelle
ricette delle nostre nonne deve far
fronte alla bugia, secondo la quale, per
le fanciulle sarebbe dannosa?
Ci sono diverse considerazioni da fare:
innanzi tutto, tra gli antichi egizi, il
basilico conservò per lungo tempo una
simbologia legata alla morte. I cinesi e
gli arabi ne conoscevano le proprietà
medicinali ma i romani lo consideravano
un simbolo diabolico di sfortuna e di
odio.
La tradizione (per così dire)
antifemminista inizia in Grecia dove la
nostra “erbetta” era definita come un
“cibo nemico delle donne e degli
schiavi”. Questa definizione si trova
nei Geoponica il solo trattato
completo e metodico che la letteratura
greca ci abbia lasciato
sull’agricoltura; la qual cosa è di per
sé sufficiente per dare a tale raccolta
l’importanza e l’interesse che merita,
visto che grazie a essa è possibile
ricostruire un capitolo della storia
letteraria agricola altrimenti perduta.
I Geoponica sono dunque una sorta
di enciclopedia agricola e orticola
ante litteram che rappresenta
l’unico superstite di una lunga e ricca
tradizione. Come detto poc’anzi è
proprio in quest’opera che, a proposito
del basilico, compare la curiosa
circonlocuzione misòdulos botàne
cioè erba nemica degli schiavi e un
altrettanto curioso riferimento al
rapporto tra la pianta e la salute delle
fanciulle, ed è bene sottolineare anche
il fatto che il termine misodulos
si pone probabilmente all’origine della
gergale espressione ‘cantare i basilichi’,
ovvero ‘mandare al diavolo’, citata da
Persio Flacco nelle satire (Satyrae,
IV, 22-23: Dum
ne deterius sapiat pannucia Baucis/quum
bene discincto cantaverit ocima vernae),
proprio in virtù della proverbiale
antipatia schiavi/basilico:
“Il basilico [òkimon]
altrimenti detto nemico degli schiavi [misòdulos]
so che è assolutamente dannoso. Infatti
rende pazzi, letargici e ammalati di
fegato coloro che se ne cibano. […] È
dannoso inoltre soprattutto alle donne
avendo contro di loro una tale naturale
ostilità che se qualcuno, senza che la
donna lo sappia, sotto il piatto
contenente la vivanda mette una pianta
di basilico con tutta la radice, la
donna non ha il coraggio di toccare la
vivanda prima che esso sia tolto”.
Queste parole non rendono merito alle
nostre nonne, né a Giudo Gozzano, né ai
nostri ricordi e per comprenderne bene
il significato dobbiamo andare, nel
tempo e nello spazio, molto più lontano
dei nostri cugini Greci.
La storia del basilico inizia (per
quanto ne sappiamo) in India, alle
pendici dell’Himalaja: è infatti grazie
ad Alessandro Magno che il prezioso
“odore” fu importato in occidente
all’inizio del IV secolo a.C., e, legato
alla sua origine, c’è una delle divinità
più importanti del panteon autoctono
indiano, Vishnu.
La leggenda è più o meno questa: in un
tempo molto lontano una giovane donna,
di nome Vrinda, era la sposa del
potente demone Jalandhara, che
aveva ottenuto da Brahma
l’invincibilità a patto che sua moglie
gli restasse sempre fedele. La fedeltà
di Vrinda era nota a tutti e
Jalandhara, sentendosi sicuro di
questa benedizione e della sua
conseguente invincibilità, chiese per sé
il gioiello di Indra. Costui non
voleva cedere il gioiello e chiese aiuto
a Shiva, il quale apparve a
Vrinda assumendo le sembianze di un
giovane dall’aspetto irresistibile, ma
ella lo cacciò. Allora intervenne
Vishnu che prese le sembianze dello
stesso Jalandhara. A questo
punto, presa dall’inganno, Vrinda
cedette e Jalandhara perse la sua
invincibilità e fu ucciso. La donna
disperata maledì Vishnu, che fu
trasformato in pietra di ammonite e
Vishnu, a sua volta, maledì
Vrinda che si tramutò nella pianta
del basilico sacro, la Tulsi.
Questo racconto del mito indiano ci fa
comprendere che, per quanto il profumo
del basilico, cui siamo così
affezionati, abbia una valenza positiva
nella distensione degli animi e nella
protezione delle dimore, la sua origine
suggerisce tuttavia un tradimento (anche
se involontario) da parte di una moglie
nei confronti del proprio marito e
questo fatto, per la maggior parte delle
popolazioni dell’antichità, era
inaccettabile.
Probabilmente il mondo greco, realtà
nella quale la posizione sociale della
donna era di fatto molto simile a quella
indiana, conosceva questa tradizione e
non poteva che trasformarla nella
fantomatica “antipatia fisiologica”
delle donne nei confronti dell’ignara
pianticella. La sostanziale ambiguità
alimentum/venenum che traspare dalle
descrizioni delle qualità organolettiche
del basilico nella letteratura romana
(cfr. Plinio N.H., liber XX, 48),
si rifà proprio a questa tradizione che,
come sempre accade, travalica il tempo e
i luoghi, e arriva a epoche più recenti
trasformata dalle narrazioni popolari.
Un esempio autorevole di come la storia
di Vrinda si ritrovi trasformata
in occidente confermando il leggendario
legame tra la donna e il basilico e
trovando, altresì, una nuova linfa in
epoca medievale, si trova nel
Decameron di Giovanni Boccaccio.
La V novella della IV giornata racconta
infatti di Lisabetta, una nobile e
benestante fanciulla che viveva a
Messina con i suoi tre fratelli. Nella
storia d’amore e di morte di questa
fanciulla, c’è il tradimento della sua
famiglia che fa uccidere Lorenzo, il
ragazzo pisano di cui è innamorata, per
mera gelosia e dabbenaggine. Debole è
anche la giustificazione che i suoi
fratelli danno alla ragazza, in merito
alla sparizione del suo innamorato (la
classica scusa dell’impegno lavorativo
fuori città). Ma l’amore vince su tutto
e Lorenzo, come una sorta di deus ex
machina, le compare in sogno
facendole vedere il luogo dove giace il
suo corpo senza vita.
Il seguito della storia è facilmente
intuibile: Lisabetta si reca nel luogo
indicatole da Lorenzo, scopre il corpo,
lo disseppellisce e, sorpresa, ne recide
la testa per portarla con sé. Arrivata a
casa la depone in un vaso (e qui entra
in ballo la tradizione favolistica di
Vrinda), la ricopre di terra fertile
e vi pianta del basilico salernitano.
Ogni giorno l’ignara piantina viene
annaffiata da null’altro che da acqua di
fiori d’arancio e dalle sue lacrime e
questo bizzarro comportamento fa
insospettire le comari del vicinato che
ne informano prontamente i fratelli.
Crudeli fino al midollo, i parenti di
Lisabetta le rubano il vaso e la fanno
morire di dolore.
La leggenda fin qui narrata ha, in
realtà, origini ben più antiche e risale
al tempo degli scambi commerciali con le
popolazioni arabe e poi muta fino a
ricordare la dominazione normanna
dell’Italia meridionale e, in
particolare della Sicilia. È proprio in
Sicilia, infatti, che il racconto ha tre
versioni diverse: c’è la versione
palermitana (che risale circa all’anno
1000) in cui la fanciulla viene sedotta
da un Moro che, dopo averla convinta
all’amplesso, vuole abbandonarla per
tornare al suo paese e alla sua
famiglia. In questa versione la
fanciulla si vendica tagliandogli la
testa e seppellendola in un vaso nel
quale pianta il basilico. C’è poi la
versione vulgata in cui la
ragazza appartiene alla nobiltà
siciliana e il Moro è un forestiero non
alla sua altezza. È questo il racconto
dove l’amore dei due ragazzi viene
punito con la decapitazione di entrambi
e la trasformazione in vaso da balcone
delle due teste, come monito per le
future generazioni.
Vi è poi un’ultima versione, quella che
servirebbe a dare radici storiche alle
botteghe dei ceramisti di Caltagirone, e
che sposterebbe gli eventi all’epoca
della conquista normanna della città
(1190). In questo racconto, forse il più
interessante anche se certamente il più
leggendario, la fanciulla e il Moro
hanno le fattezze di Emma D’Altavilla e
del suo amante guerriero saraceno. Nella
narrazione il re Ruggero, su ordine
della sua sposa, va a svegliare nel
cuore della notte, il più famoso dei
vasai di Caltagirone per commissionargli
un vaso a forma di testa di moro.
Nessuno, ovviamente, è a conoscenza del
fatto che, proprio all’interno di questo
vaso, la bella Emma ha intenzione di
seppellirvi la testa del suo amato (un
guerriero saraceno ucciso durante
l’assedio normanno della città). A
questo punto vi è però un colpo di
scena: spontaneamente dalle spoglie
mortali del povero guerriero, custodite
nel vaso di terracotta, spunta una
piantina molto profumata che la
principessa, prontamente, chiama
Basiricò in ricordo del suo amato dalla
pelle scura.
Ecco dunque come la tradizione continua
a collegare la figura della donna alla
piantina di basilico, e come le storie
cruente di vendette “al femminile”
possono trasformare nella sostanza le
qualità di una pianta innocente.
In base a quanto sopra raccontato, il
concetto che i Geoponica
riportano (la fisiologica avversione
delle donne nei confronti del basilico)
e che si è trasformato, complici altre
tradizioni, in un teatrale dramma
amoroso; non è dunque altro che una
tradizione che parte dall’Oriente,
dall’India, e attraverso l’Oriente (in
particolare la Persia e l’Arabia),
secolo dopo secolo, giunge alle nostre
rive, e si modifica e s’imbelletta e s’involgarizza
fino a perdersi nella memoria
collettiva. Ma quello che più ci
colpisce, in riferimento alla leggenda
della fanciulla e del Moro, è l’utilizzo
della pianta di basilico: il basilico ha
un profumo intenso, il suo olio conserva
e serve a non far alterare le carni e la
fanciulla ne è consapevole: lo usa per
nascondere la testa di un morto e per
conservarne intatta la bellezza.
La qualità di conservare e profumare
sembra essere, dunque, una delle
caratteristiche essenziali del basilico
e quella che più di ogni altra gli
consentì di entrare, a pieno titolo,
nella rosa delle erbe aromatiche più
utilizzate in cucina, motivo questo che
potrebbe aver fatto dimenticare alle
donne del nostro tempo quella
“originaria” antipatia.
Arrivati a questo punto, è abbastanza
chiaro che a conoscere e a trasmettere
le qualità del gustoso basilico, furono
proprio gli arabi. Popolo amante dei
sapori decisi, se lo portava in giro,
tra i mercanti del Mediterraneo e del
Tirreno, sotto forma di salsa mescolata
ad aglio e olio; una testimonianza di
questi intingoli è certamente l’aggiadda,
agliata (risalente al XII secolo)
e tipica delle regioni costiere della
nostra penisola dalla Liguria fino alla
Puglia, la cui ricetta originaria fa
macerare spicchi di aglio nell’olio
d’oliva cui vengono aggiunte erbe
aromatiche varie: prezzemolo, basilico,
menta e origano.
Dovendo trascorrere gran parte del loro
tempo in mare è verosimile pensare che
il nutrimento principale dei mercanti
arabi fosse il pesce, assieme a pane
secco cotto in focacce da mollare
nell’acqua salata. È dunque piuttosto
naturale pensare che condimenti a base
di aglio ed “erbette” rendessero più
gustoso un’altrimenti monotono regime
alimentare.
La storia, inoltre, ci dice che fin
dalle civiltà più antiche il
Mediterraneo è solcato da marinai
predatori, fenici, greci e che,
successivamente, dal VII secolo d.C. e
con un apice nel XVI, marinai musulmani,
nordafricani (da Tunisi, Tripoli,
Algeri) e ottomani esercitavano
stabilmente i commerci delle spezie,
delle erbe aromatiche, delle pietre
preziose e della seta con i villaggi
delle coste dirimpettaie.
Baghdad, dalla sua fondazione nel 762, è
il centro e l’incrocio di tutte le rotte
commerciali dell’oriente. Sede della
corte abbaside, questa città attira
verso di sé le spezie i profumi
dell’India e le sete della Cina. I
protagonisti sono i porti del Golfo
Persico (Bassora, Fars, Siraf, Sohars e
Mascate) che conducono in India
attraverso due vie: una che segue le
coste della Persia e della stessa India
(Daybul alle foci dell’Indo); l’altra
che punta direttamente all’Oman verso il
sud dell’India. Da Koulan le navi
passano lo stretto di Palk (davanti a
Cylon) e quindi, attraversando il Golfo
del Bengala, arrivano in Cina.
Dopo aver attraversato l’Oriente
musulmano le mercanzie del Levante e le
produzioni dei paesi dell’Islam
raggiungono un mercato molto importante,
quello di Costantinopoli. I Bizantini
importano la seta cinese, i broccati, le
pietre preziose d’Arabia e le spezie; in
cambio esportano verso il mondo
musulmano prodotti di tintoria, il
mastice, il vetro colorato per mosaico,
il corallo rosso (destinato al commercio
con l’Estremo Oriente) e le stoffe
preziose. Le grandi piazze di scambio
con Costantinopoli sono Antiochia,
Alessandria e soprattutto Trebisonda
sulla costa meridionale del Mar Nero. A
partire da quest’ultima i prodotti sono
trasportati con navi bizantine fino a
Costantinopoli e, a questo punto,
entrano in gioco le nostre Repubbliche
Marinare e il traffico verso l’Occidente
diventa un affare significativo dei
mercanti italiani di Amalfi, di Venezia
e di Genova.
Tra il X e il XII secolo la prima a
elaborare un codice marittimo e
commerciale fu Amalfi (con le famose
Tavole Amalfitane). Tale promettente
sviluppo delle città rivierasche del
Mezzogiorno, fu però stroncato nel corso
del XII secolo dall’affermazione del
regno normanno, le cui tendenze
accentratrici non lasciarono alle forze
cittadine quel margine di autonomia che
era condizione imprescindibile della
loro prosperità. L’asse dell’economia
marittima del Tirreno si spostò allora
sulle coste più settentrionali della
penisola, dove da più di un secolo Pisa
e Genova guidavano una vivace attività
di riscossa contro il mondo arabo.
Tra il 1015 e il 1022 le due città,
alleate, avevano scacciato gli arabi
dalla Sardegna; nel 1091 avevano
strappato loro anche la Corsica. Tra il
1114 e il 1115 Pisa concluse una
vittoriosa spedizione contro l’ultimo
residuo della dominazione araba sulle
grandi isole del Mediterraneo, cioè
contro Maiorca nelle Baleari e, nel
1137, saccheggia la concorrente Amalfi,
già sulla via del tramonto, e le assesta
il colpo mortale.
I buoni rapporti tra Pisa e Genova, già
guastatisi nel XII secolo per una
contesa che era nata intorno alla
divisione della Sardegna, andarono
ulteriormente peggiorando per motivi di
concorrenza commerciale; nel Duecento le
due repubbliche si scontreranno in una
guerra aperta, fino a quando Pisa verrà
definitivamente sconfitta presso lo
scoglio della Melora (1284).
Soltanto Genova resterà allora a
contendere efficacemente il primato
della più potente delle Repubbliche
Marinare (Venezia) e a Genova in
particolare resteranno le usanze tutte ‘saracine’
di mescolare le pietanze con salse a
base di aglio.
Ex oriente Lux
si era soliti dire tra gli storici del
XIX secolo e non senza una ragione. Ogni
materia prima della nostra cucina
proviene dall’Oriente; dall’Oriente
proviene ogni tecnica di lavorazione di
queste materie prime e ogni coltura (mutadis
mutandis). Gli arabi, o più
popolarmente detti saracini,
hanno una grande responsabilità in
questa trasmissione: l’influenza
arabo-persiana, ad esempio, dominò
incontrastata la preparazione delle
salse genovesi dal medioevo fino a tutto
il XIX secolo e, proprio a questo
periodo, risale la prima attestazione
(codificata e inserita in un testo di
ricette) del celeberrimo Pesto alla
genovese:
“Prendete uno spicchio d’aglio,
basilico (baxaicò) o in mancanza di
questo maggiorana e prezzemolo,
formaggio olandese e parmigiano
grattugiati e mescolati insieme a dei
pignoli e pestate il tutto in un mortaio
con poco burro finché sia ridotto in
pasta. Scioglietelo quindi con olio fine
in abbondanza. Con questo battuto si
condiscono le lasagne e i gnocchi (troffie),
unendovi un po’ di acqua calda senza
sale per renderlo più liquido”.
La Cucinera Genovese,
fortunatissimo
manuale di cucina (la prima edizione è
del 1887) che fece conoscere agli
Italiani le singole tradizioni
regionali, venne scritto da Giovanni
Battista Ratto, un esperto gastronomo
che denunciava l’assenza nelle
biblioteche italiane di un compendio di
quella che era considerata la più
tradizionale delle “cucine” nostrane. In
quest’opera, e in particolare nella III
edizione, vi è una nutrita descrizione
di salse a base delle più disparate erbe
aromatiche in ricordo, se così si può
dire, di coloro che ne furono gli
ispiratori.
In conclusione, lontana dall’essere
stata storicamente esaustiva per quanto
concerne i difficili rapporti tra le
Repubbliche Marinare e l’Oriente, una
raccomandazione sento di dare al lettore
paziente: se non avete nulla da fare e
amate capire da dove arrivano le cose,
seguite una spezia o un’erba aromatica;
vi ritroverete davanti agli occhi la
storia del mondo.
Riferimenti bibliografici:
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proibiti, Feltrinelli, Milano 2013.
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Rubettino, Soveria Mannelli (CZ)
2010.
Boccaccio, G., Decameron,
nell’edizione BUR, Milano 2013, IV
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Ratto, G.B., La cuciniera Genovese,
nell’edizione Frilli, Genova 2015. |