[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

161 / MAGGIO 2021 (CXCII)


antica

A PROPOSITO DEL BASILICO

LE “FANCIULLE DAL PIEDE LEGGERO” E IL PESTO GENOVESE

di Raffaella Di Vincenzo

 

 “(…) M’era più dolce starmene in cucina

tra le stoviglie a vividi colori:

tu tacevi, tacevo, Signorina:

godevo quel silenzio e quegli odori

tanto tanto per me consolatori,

di basilico d’aglio di cedrina (…)”.

(G. Gozzano, I Colloqui. La signora Felicita, ovvero della felicità)

 

La cura delle nostre nonne nei riguardi delle preziose piantine e il suo profumo, sono senz’altro le cose che più amiamo del basilico: sono odori e gesti che ci ricordano l’estate e la felicità, per dirla alla Gozzano, odori e gesti forieri di sogni e di speranza, quella stessa speranza che emanano gli occhi della signora Felicita “azzurri come le stoviglie”.

 

Ma non è sempre stato così: elemento peculiare delle superstizioni diffuse tra le popolazioni dell’Asia, del Medio Oriente e del Mediterraneo, terre presso le quali è originario, il basilico aveva un significato senza dubbio ambiguo. Ambigua è anche la sua etimologia: Il termine latino ocimum, nome scientifico del basilico, deriva dal verbo greco ozw che significa emanare odore intenso.

 

È con Galeno, medico del IV secolo, che compare per la prima volta il termine basilikon come nome di un collirio nella cui preparazione entrano diversi componenti, nessuno dei quali, però, è la nostra erba (De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus, XII, 782) e per questo motivo appare piuttosto evidente che l’origine del nome del moderno “basilico” non sia ancora del tutto certa, anche se, come termine botanico, essa sia da riferirsi a un’attestazione all’interno della Suida (o Suda; gr. Σουίδα o Σοῦδα), il maggiore dei lessici greci giunti sino a noi, risalente all’epoca bizantina (X secolo circa).

 

Qualunque sia il passaggio dal verbo ozw al più recente basilikon, è chiaro il riferimento alla grande considerazione di cui questa pianta aromatica ha sempre goduto, quasi fosse la regina delle erbe o erba da re e forse proprio in virtù del suo profumo.

 

Ma allora, perché una piantina tanto amata da tutti e tanto utilizzata nelle ricette delle nostre nonne deve far fronte alla bugia, secondo la quale, per le fanciulle sarebbe dannosa?

 

Ci sono diverse considerazioni da fare: innanzi tutto, tra gli antichi egizi, il basilico conservò per lungo tempo una simbologia legata alla morte. I cinesi e gli arabi ne conoscevano le proprietà medicinali ma i romani lo consideravano un simbolo diabolico di sfortuna e di odio.

 

La tradizione (per così dire) antifemminista inizia in Grecia dove la nostra “erbetta” era definita come un “cibo nemico delle donne e degli schiavi”. Questa definizione si trova nei Geoponica il solo trattato completo e metodico che la letteratura greca ci abbia lasciato sull’agricoltura; la qual cosa è di per sé sufficiente per dare a tale raccolta l’importanza e l’interesse che merita, visto che grazie a essa è possibile ricostruire un capitolo della storia letteraria agricola altrimenti perduta.

 

I Geoponica sono dunque una sorta di enciclopedia agricola e orticola ante litteram che rappresenta l’unico superstite di una lunga e ricca tradizione. Come detto poc’anzi è proprio in quest’opera che, a proposito del basilico, compare la curiosa circonlocuzione misòdulos botàne cioè erba nemica degli schiavi e un altrettanto curioso riferimento al rapporto tra la pianta e la salute delle fanciulle, ed è bene sottolineare anche il fatto che il termine misodulos si pone probabilmente all’origine della gergale espressione ‘cantare i basilichi’, ovvero ‘mandare al diavolo’, citata da Persio Flacco nelle satire (Satyrae, IV, 22-23: Dum ne deterius sapiat pannucia Baucis/quum bene discincto cantaverit ocima vernae), proprio in virtù della proverbiale antipatia schiavi/basilico: Il basilico [òkimon] altrimenti detto nemico degli schiavi [misòdulos] so che è assolutamente dannoso. Infatti rende pazzi, letargici e ammalati di fegato coloro che se ne cibano. […] È dannoso inoltre soprattutto alle donne avendo contro di loro una tale naturale ostilità che se qualcuno, senza che la donna lo sappia, sotto il piatto contenente la vivanda mette una pianta di basilico con tutta la radice, la donna non ha il coraggio di toccare la vivanda prima che esso sia tolto”.

 

Queste parole non rendono merito alle nostre nonne, né a Giudo Gozzano, né ai nostri ricordi e per comprenderne bene il significato dobbiamo andare, nel tempo e nello spazio, molto più lontano dei nostri cugini Greci.

 

La storia del basilico inizia (per quanto ne sappiamo) in India, alle pendici dell’Himalaja: è infatti grazie ad Alessandro Magno che il prezioso “odore” fu importato in occidente all’inizio del IV secolo a.C., e, legato alla sua origine, c’è una delle divinità più importanti del panteon autoctono indiano, Vishnu.

 

La leggenda è più o meno questa: in un tempo molto lontano una giovane donna, di nome Vrinda, era la sposa del potente demone Jalandhara, che aveva ottenuto da Brahma l’invincibilità a patto che sua moglie gli restasse sempre fedele. La fedeltà di Vrinda era nota a tutti e Jalandhara, sentendosi sicuro di questa benedizione e della sua conseguente invincibilità, chiese per sé il gioiello di Indra. Costui non voleva cedere il gioiello e chiese aiuto a Shiva, il quale apparve a Vrinda assumendo le sembianze di un giovane dall’aspetto irresistibile, ma ella lo cacciò. Allora intervenne Vishnu che prese le sembianze dello stesso Jalandhara. A questo punto, presa dall’inganno, Vrinda cedette e Jalandhara perse la sua invincibilità e fu ucciso. La donna disperata maledì Vishnu, che fu trasformato in pietra di ammonite e Vishnu, a sua volta, maledì Vrinda che si tramutò nella pianta del basilico sacro, la Tulsi.

 

Questo racconto del mito indiano ci fa comprendere che, per quanto il profumo del basilico, cui siamo così affezionati, abbia una valenza positiva nella distensione degli animi e nella protezione delle dimore, la sua origine suggerisce tuttavia un tradimento (anche se involontario) da parte di una moglie nei confronti del proprio marito e questo fatto, per la maggior parte delle popolazioni dell’antichità, era inaccettabile.

 

Probabilmente il mondo greco, realtà nella quale la posizione sociale della donna era di fatto molto simile a quella indiana, conosceva questa tradizione e non poteva che trasformarla nella fantomatica “antipatia fisiologica” delle donne nei confronti dell’ignara pianticella. La sostanziale ambiguità alimentum/venenum che traspare dalle descrizioni delle qualità organolettiche del basilico nella letteratura romana (cfr. Plinio N.H., liber XX, 48), si rifà proprio a questa tradizione che, come sempre accade, travalica il tempo e i luoghi, e arriva a epoche più recenti trasformata dalle narrazioni popolari.

 

Un esempio autorevole di come la storia di Vrinda si ritrovi trasformata in occidente confermando il leggendario legame tra la donna e il basilico e trovando, altresì, una nuova linfa in epoca medievale, si trova nel Decameron di Giovanni Boccaccio.

 

La V novella della IV giornata racconta infatti di Lisabetta, una nobile e benestante fanciulla che viveva a Messina con i suoi tre fratelli. Nella storia d’amore e di morte di questa fanciulla, c’è il tradimento della sua famiglia che fa uccidere Lorenzo, il ragazzo pisano di cui è innamorata, per mera gelosia e dabbenaggine. Debole è anche la giustificazione che i suoi fratelli danno alla ragazza, in merito alla sparizione del suo innamorato (la classica scusa dell’impegno lavorativo fuori città). Ma l’amore vince su tutto e Lorenzo, come una sorta di deus ex machina, le compare in sogno facendole vedere il luogo dove giace il suo corpo senza vita.

 

Il seguito della storia è facilmente intuibile: Lisabetta si reca nel luogo indicatole da Lorenzo, scopre il corpo, lo disseppellisce e, sorpresa, ne recide la testa per portarla con sé. Arrivata a casa la depone in un vaso (e qui entra in ballo la tradizione favolistica di Vrinda), la ricopre di terra fertile e vi pianta del basilico salernitano. Ogni giorno l’ignara piantina viene annaffiata da null’altro che da acqua di fiori d’arancio e dalle sue lacrime e questo bizzarro comportamento fa insospettire le comari del vicinato che ne informano prontamente i fratelli. Crudeli fino al midollo, i parenti di Lisabetta le rubano il vaso e la fanno morire di dolore.

 

La leggenda fin qui narrata ha, in realtà, origini ben più antiche e risale al tempo degli scambi commerciali con le popolazioni arabe e poi muta fino a ricordare la dominazione normanna dell’Italia meridionale e, in particolare della Sicilia. È proprio in Sicilia, infatti, che il racconto ha tre versioni diverse: c’è la versione palermitana (che risale circa all’anno 1000) in cui la fanciulla viene sedotta da un Moro che, dopo averla convinta all’amplesso, vuole abbandonarla per tornare al suo paese e alla sua famiglia. In questa versione la fanciulla si vendica tagliandogli la testa e seppellendola in un vaso nel quale pianta il basilico. C’è poi la versione vulgata in cui la ragazza appartiene alla nobiltà siciliana e il Moro è un forestiero non alla sua altezza. È questo il racconto dove l’amore dei due ragazzi viene punito con la decapitazione di entrambi e la trasformazione in vaso da balcone delle due teste, come monito per le future generazioni.

 

Vi è poi un’ultima versione, quella che servirebbe a dare radici storiche alle botteghe dei ceramisti di Caltagirone, e che sposterebbe gli eventi all’epoca della conquista normanna della città (1190). In questo racconto, forse il più interessante anche se certamente il più leggendario, la fanciulla e il Moro hanno le fattezze di Emma D’Altavilla e del suo amante guerriero saraceno. Nella narrazione il re Ruggero, su ordine della sua sposa, va a svegliare nel cuore della notte, il più famoso dei vasai di Caltagirone per commissionargli un vaso a forma di testa di moro. Nessuno, ovviamente, è a conoscenza del fatto che, proprio all’interno di questo vaso, la bella Emma ha intenzione di seppellirvi la testa del suo amato (un guerriero saraceno ucciso durante l’assedio normanno della città). A questo punto vi è però un colpo di scena: spontaneamente dalle spoglie mortali del povero guerriero, custodite nel vaso di terracotta, spunta una piantina molto profumata che la principessa, prontamente, chiama Basiricò in ricordo del suo amato dalla pelle scura.

 

Ecco dunque come la tradizione continua a collegare la figura della donna alla piantina di basilico, e come le storie cruente di vendette “al femminile” possono trasformare nella sostanza le qualità di una pianta innocente.

 

In base a quanto sopra raccontato, il concetto che i Geoponica riportano (la fisiologica avversione delle donne nei confronti del basilico) e che si è trasformato, complici altre tradizioni, in un teatrale dramma amoroso; non è dunque altro che una tradizione che parte dall’Oriente, dall’India, e attraverso l’Oriente (in particolare la Persia e l’Arabia), secolo dopo secolo, giunge alle nostre rive, e si modifica e s’imbelletta e s’involgarizza fino a perdersi nella memoria collettiva. Ma quello che più ci colpisce, in riferimento alla leggenda della fanciulla e del Moro, è l’utilizzo della pianta di basilico: il basilico ha un profumo intenso, il suo olio conserva e serve a non far alterare le carni e la fanciulla ne è consapevole: lo usa per nascondere la testa di un morto e per conservarne intatta la bellezza.

 

La qualità di conservare e profumare sembra essere, dunque, una delle caratteristiche essenziali del basilico e quella che più di ogni altra gli consentì di entrare, a pieno titolo, nella rosa delle erbe aromatiche più utilizzate in cucina, motivo questo che potrebbe aver fatto dimenticare alle donne del nostro tempo quella “originaria” antipatia.

 

Arrivati a questo punto, è abbastanza chiaro che a conoscere e a trasmettere le qualità del gustoso basilico, furono proprio gli arabi. Popolo amante dei sapori decisi, se lo portava in giro, tra i mercanti del Mediterraneo e del Tirreno, sotto forma di salsa mescolata ad aglio e olio; una testimonianza di questi intingoli è certamente l’aggiadda, agliata (risalente al XII secolo) e tipica delle regioni costiere della nostra penisola dalla Liguria fino alla Puglia, la cui ricetta originaria fa macerare spicchi di aglio nell’olio d’oliva cui vengono aggiunte erbe aromatiche varie: prezzemolo, basilico, menta e origano.

 

Dovendo trascorrere gran parte del loro tempo in mare è verosimile pensare che il nutrimento principale dei mercanti arabi fosse il pesce, assieme a pane secco cotto in focacce da mollare nell’acqua salata. È dunque piuttosto naturale pensare che condimenti a base di aglio ed “erbette” rendessero più gustoso un’altrimenti monotono regime alimentare. La storia, inoltre, ci dice che fin dalle civiltà più antiche il Mediterraneo è solcato da marinai predatori, fenici, greci e che, successivamente, dal VII secolo d.C. e con un apice nel XVI, marinai musulmani, nordafricani (da Tunisi, Tripoli, Algeri) e ottomani esercitavano stabilmente i commerci delle spezie, delle erbe aromatiche, delle pietre preziose e della seta con i villaggi delle coste dirimpettaie.

 

Baghdad, dalla sua fondazione nel 762, è il centro e l’incrocio di tutte le rotte commerciali dell’oriente. Sede della corte abbaside, questa città attira verso di sé le spezie i profumi dell’India e le sete della Cina. I protagonisti sono i porti del Golfo Persico (Bassora, Fars, Siraf, Sohars e Mascate) che conducono in India attraverso due vie: una che segue le coste della Persia e della stessa India (Daybul alle foci dell’Indo); l’altra che punta direttamente all’Oman verso il sud dell’India. Da Koulan le navi passano lo stretto di Palk (davanti a Cylon) e quindi, attraversando il Golfo del Bengala, arrivano in Cina.

 

Dopo aver attraversato l’Oriente musulmano le mercanzie del Levante e le produzioni dei paesi dell’Islam raggiungono un mercato molto importante, quello di Costantinopoli. I Bizantini importano la seta cinese, i broccati, le pietre preziose d’Arabia e le spezie; in cambio esportano verso il mondo musulmano prodotti di tintoria, il mastice, il vetro colorato per mosaico, il corallo rosso (destinato al commercio con l’Estremo Oriente) e le stoffe preziose. Le grandi piazze di scambio con Costantinopoli sono Antiochia, Alessandria e soprattutto Trebisonda sulla costa meridionale del Mar Nero. A partire da quest’ultima i prodotti sono trasportati con navi bizantine fino a Costantinopoli e, a questo punto, entrano in gioco le nostre Repubbliche Marinare e il traffico verso l’Occidente diventa un affare significativo dei mercanti italiani di Amalfi, di Venezia e di Genova.

 

Tra il X e il XII secolo la prima a elaborare un codice marittimo e commerciale fu Amalfi (con le famose Tavole Amalfitane). Tale promettente sviluppo delle città rivierasche del Mezzogiorno, fu però stroncato nel corso del XII secolo dall’affermazione del regno normanno, le cui tendenze accentratrici non lasciarono alle forze cittadine quel margine di autonomia che era condizione imprescindibile della loro prosperità. L’asse dell’economia marittima del Tirreno si spostò allora sulle coste più settentrionali della penisola, dove da più di un secolo Pisa e Genova guidavano una vivace attività di riscossa contro il mondo arabo.

 

Tra il 1015 e il 1022 le due città, alleate, avevano scacciato gli arabi dalla Sardegna; nel 1091 avevano strappato loro anche la Corsica. Tra il 1114 e il 1115 Pisa concluse una vittoriosa spedizione contro l’ultimo residuo della dominazione araba sulle grandi isole del Mediterraneo, cioè contro Maiorca nelle Baleari e, nel 1137, saccheggia la concorrente Amalfi, già sulla via del tramonto, e le assesta il colpo mortale.

 

I buoni rapporti tra Pisa e Genova, già guastatisi nel XII secolo per una contesa che era nata intorno alla divisione della Sardegna, andarono ulteriormente peggiorando per motivi di concorrenza commerciale; nel Duecento le due repubbliche si scontreranno in una guerra aperta, fino a quando Pisa verrà definitivamente sconfitta presso lo scoglio della Melora (1284). Soltanto Genova resterà allora a contendere efficacemente il primato della più potente delle Repubbliche Marinare (Venezia) e a Genova in particolare resteranno le usanze tutte ‘saracine’ di mescolare le pietanze con salse a base di aglio.

 

Ex oriente Lux si era soliti dire tra gli storici del XIX secolo e non senza una ragione. Ogni materia prima della nostra cucina proviene dall’Oriente; dall’Oriente proviene ogni tecnica di lavorazione di queste materie prime e ogni coltura (mutadis mutandis). Gli arabi, o più popolarmente detti saracini, hanno una grande responsabilità in questa trasmissione: l’influenza arabo-persiana, ad esempio, dominò incontrastata la preparazione delle salse genovesi dal medioevo fino a tutto il XIX secolo e, proprio a questo periodo, risale la prima attestazione (codificata e inserita in un testo di ricette) del celeberrimo Pesto alla genovese:

 

Prendete uno spicchio d’aglio, basilico (baxaicò) o in mancanza di questo maggiorana e prezzemolo, formaggio olandese e parmigiano grattugiati e mescolati insieme a dei pignoli e pestate il tutto in un mortaio con poco burro finché sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fine in abbondanza. Con questo battuto si condiscono le lasagne e i gnocchi (troffie), unendovi un po’ di acqua calda senza sale per renderlo più liquido”.

 

La Cucinera Genovese, fortunatissimo manuale di cucina (la prima edizione è del 1887) che fece conoscere agli Italiani le singole tradizioni regionali, venne scritto da Giovanni Battista Ratto, un esperto gastronomo che denunciava l’assenza nelle biblioteche italiane di un compendio di quella che era considerata la più tradizionale delle “cucine” nostrane. In quest’opera, e in particolare nella III edizione, vi è una nutrita descrizione di salse a base delle più disparate erbe aromatiche in ricordo, se così si può dire, di coloro che ne furono gli ispiratori.

 

In conclusione, lontana dall’essere stata storicamente esaustiva per quanto concerne i difficili rapporti tra le Repubbliche Marinare e l’Oriente, una raccomandazione sento di dare al lettore paziente: se non avete nulla da fare e amate capire da dove arrivano le cose, seguite una spezia o un’erba aromatica; vi ritroverete davanti agli occhi la storia del mondo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Stuart Lee, A., Nel giardino del diavolo. Storia lussuriosa dei cibi proibiti, Feltrinelli, Milano 2013.

Berriolo, S., Il libro del basilico. Tutti gli ocimum del mondo, Del Delfino MorO, Albenga (VS) 2003.

Di Giangi, D., Nepal tra terra e cielo, Il Ciliegio ed., Lurago d’Erba (CO) 2015.

Vanoli, A., Sicilia Musulmana, Il Mulino, Bologna 2016.

Gallina, M. Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII), Carrocci, Roma 2008.

Bragadin, M.A., Storia delle Repubbliche Marinare, Odoya, Città di Castello (PG), 2010.

Lelli, E., L’agricoltura antica. I Geoponica di Cassiano Basso, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010.

Boccaccio, G., Decameron, nell’edizione BUR, Milano 2013, IV giornata, 5 novella.

Ratto, G.B., La cuciniera Genovese, nell’edizione Frilli, Genova 2015. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]