moderna
BARTOLOMÉ DE LAS CASAS
IL TEORICO DOMENICANO DELLA NON VIOLENZA
di Enrico Targa
Bartolomé de Las Casas (1484-1566) prese
l’abito a Española (Santo Domingo) nel
1510 e, divenuto domenicano,
ereditò le prime, coraggiose denunce
anticoloniali dei confratelli Antonio de
Montesinos e Pedro de Córdoba e dedicò
il resto della sua vita a difendere i
diritti degli indios. Raccolse
tutti i documenti che poté sulla storia
della conquista (a lui si deve la
conservazione del diario di bordo di
Colombo del 1492) e condusse una serrata
battaglia per separare il Vangelo
dall’uso della forza, sostenendo, contro
chi riteneva indispensabile usare le
armi, che il cristianesimo si doveva
invece diffondere attraverso la mitezza
e l’esempio.
Il suo primo atto di denuncia fu un
memoriale presentato al cardinale
Cisneros nel 1516; da allora, nominato
Protector de los Indios, proseguì
instancabilmente per cinquant’anni
(tranne la parentesi 1522-1532, dedicata
alla riflessione sul noviziato) la sua
opera di critica ai metodi della
conquista spagnola, stigmatizzando tra
l’altro duramente le crudeltà compiute
da Francisco Pizarro (1475-1541) nel
corso della conquista dell’impero
incaico.
Alla ferocia dei conquistadores e
dei coloni a caccia di ricchezze, donne
e schiavi, contrappose l’immagine dolce
e ospitale del «buona selvaggio»,
depositario di una nobiltà morale
superiore a quella di chi si fregiava
del titolo di cristiano, immagine già
diffusa da Colombo e destinata a lunga
fortuna nella cultura europea
cinqe-settecentesca. I suoi scritti,
circolati ampiamente in tutta Europa,
soprattutto la Brevissima relazione
della distruzione degli Indie
(pubblicata nel 1552), marchiarono per
sempre la conquista spagnola di un segno
negativo; e il suo rifiuto del
fondamento religioso del diritto di
conquista incrinò un cardine ideologico
essenziale dell’impero spagnolo.
Grazie ai suoi ripetuti viaggi presso la
corte di Carlo V, il problema
dell’equiparazione giuridica tra
colonizzati e colonizzatori assunse
pieno rilievo in Spagna, dove però non
mancarono dure reazioni, di cui si fece
interprete lo storico di corte, il
castigliano Juan Ginés de Sepúlveda
(1490-1573, imparentato con Hernán
Cortés), che già in una sua opera del
1535, il Democrates primus, sive de
convenentia disciplinae militaris cum
christiana religione, aveva
giustificato il sacco di Roma del 1527
con argomenti avversi agli erasmiani
spagnoli e difeso animosamente il
cristianesimo guerriero che gli spagnoli
avevano sperimentato nella
reconquista antimusulmana.
Sepúlveda respinse le accuse di
Machiavelli che il cristianesimo avesse
infiacchito la virtù militare; cercò
quindi di dimostrare che l’uso delle
armi non era affatto contrario ai
precetti evangelici e he anzi il
messaggio di Cristo eccitava e non
indeboliva la vis bellica. Quando
poi, col Democrates secundus, sive de
justustis belli causis apud Indios
(composto a metà degli anni 40),
polemizzò con Las Casas, applicò questi
stessi concetti non più solo alle guerre
europee tra cristiani o alle crociate,
ma alla conquista delle Americhe; e, al
pari di Oviedo, sostenne la tesi
dell'inferiorità naturale degli
indios, natura servi, e la
conseguente legittimità della guerra
cristiana per sottometterli. Come ben
chiarì il suo De regno et regis
officio (1571), dedicato a Filippo
II, per Sepúlveda
gli indigeni americani dovevano
essere ricondotti con la forza al
«governo civile» perché inculti,
inhumani e praticanti «costumi
barbari» che violavano le leggi di
natura come i turchi, contro cui aveva
esortato Carlo V a prendere le armi
nella Cohartatio ad Carolorum
Vimperatorem invctissimum.
Il concetto naturale di schiavitù, che
risaliva ad Aristotele, venne rilanciato
dal teologo scolastico scozzese John
Mair (1469-1550) che legittimando la
dominazione europea d’oltreoceano, aveva
affermato che la scoperta delle Americhe
dimostrava ormai per «esperienza»
l’esperienza di popoli che vivevano
irrazionalmente, «alla maniera delle
bestie» e «per natura schiavi», e che
perciò, «la prima persona che li
sottomette, a buon diritto li governa».
I popoli più progrediti, come gli
Aztechi e gli Incas, avevano capacità di
autogovernarsi ma avevano delle lacune
nei propri costumi, praticavano i
sacrifici umani e governavano attraverso
la tirannia quindi gli europei erano
legittimati a intervenire.
Non fu difficile per Las Casas, seguendo
la critica mossa dal professore di
Salamanca Juan de La Peña (1513-1565)
secondo il quale l’assunzione del
modello romano per legittimare la
dominazione planetaria spagnola era
assurdo, segnare punti a suo favore
perché la corte spagnola non vide
affatto di buon occhio le idee
sepulvediane sulla schiavitù naturale
che finivano per rafforzare l’autonomia
degli encomenderos a scapito
delle prerogative della corona.
Proprio per limitare questa autonomia
Carlo V, spronato da Las Casas, emanò
nel 1542 la Leyes Nuevas, con le
quali abolì il lavoro non retribuito,
proibendo la schiavitù degli indigeni,
riconosciuti sudditi della Spagna. La
tesi lascasiana favoriva il tentativo
del sovrano di contenere la forza locale
degli encomenderos, almeno quando
si incontrava, assai più delle opinioni
di Sepúlveda, col progetto missionario
della Chiesa. Cinque anni prima del
provvedimento del re spagnolo, il
pontefice Paolo III aveva già provveduto
a sgombrare ogni dubbio scrivendo a
chiare lettere nella bolla Veritas
ipsa che gli Amerindi erano «veros
homines» da convertire pacificamente,
tramite l’esempio e la predicazione. Fu
in questo contesto che la discussione
tra Sepúlveda e Las Casas crebbe di
tono, finché l’imperatore decise di
ascoltare personalmente le due tesi in
una pubblica disputa tenutasi a
Vallalolid nel 1550-1551 per «stabilire
se è lecito a Sua Maestà muover guerra
agli Indios prima che si predichi loro
la fede», come formulava in apertura il
sommario appositamente redatto dal
teologo Domingo de Soto che presiedette
l’incontro.
Dal dibattito di Vallalolid non uscì
nessun vincitore. L’unico effetto fu la
decisione imperiale di abolire la parola
«conquista» per indicare gli
insediamenti spagnoli nelle Americhe. Ne
uscì, tuttavia, un confronto tra la
posizione razzista di Sepúlveda, dalla
quale scaturiva un disegno oppressivo e
tutto sommato semplicistico, e quella di
Las Casas che, partendo
dall’affermazione dell’eguaglianza del
genere umano in ogni parte del mondo,
sviluppava un progetto etico-politico
più elaborato ed umanitario,
contemplante l’infeudazione delle terre
alla Chiesa e non al sovrano e la
conversione non forzata degli indigeni,
come del resto aveva ritenuto anche
Colombo, il quale appena sbarcato
sull’isola si era reso conto, scrivendo
nel suo Giornale di bordo alla
data del 12 ottobre 1492, che il nuovo
continente era popolato di «gente che
meglio si sarebbe affidata e convertita
alla nostra santa fede con l’amore che
non con la forza».
Ciò non gli impedì di invitare i re
cattolici a usare la forza per
cristianizzare le popolazioni delle
terre da lui scoperte, mentre in Las
Casas rimase inalterata la certezza che
l’evangelica prescrizione compelle
intrare dovesse essere intesa come
persuasione efficace della ragione,
sulla scia di Giovanni Crisostomo e non
di Agostino. Era però in fin dei conti
anche questo un universalismo, sebbene
non violento ed egalitario, in cui
l’eguaglianza era pensata solo in
termini di similitudini e non di
riconoscimento delle diversità: gli
Indios vi apparivano eguali ai
cristiani europei in quanto
potenzialmente cristiani ed europei, in
quanto cioè, gli uni e gli altri, uguali
in Cristo. Per questo il domenicano poté
utilizzare contro Sepúlveda la
distinzione tra schiavitù naturale,
giudicata inesistente, e schiavitù
civile, di origine sempre volontaria e
legale, di cui erano responsabili anche
gli Amerindi.
Carità suprema era dunque condurre
quelle popolazioni sotto la tutela della
vera religione, autentico cammino di
liberazione sia dalla persecuzione
spagnola, sia dalla loro stessa cultura,
tema che radicherà nei secoli a venire
il discorso europeo della perfettibilità
dei selvaggi «perfettibilità dei
selvaggi», divenuti sempre più familiari
in Europa grazie alle ormai dettagliate
informazioni di viaggiatori e
missionari, ma al contempo oggetto di
rappresentazione di alterità basate su
differenze di natura, come nel caso di
Sepúlveda, o di cultura e religione,
come in Las Casas.
Sebbene non contestasse la legittimità
dei possedimenti spagnoli del Nuovo
Mondo, ma solo la loro imposizione
violenza, Las Casas, riprendendo nel suo
Sul titolo del dominio del Re di
Spagna sulle persone e sulle terre degli
Indios (1554) alcune considerazioni
della vitoriana Relectio de Indis
a affermando che solo il consenso degli
indigeni avrebbe perfezionato il dominio
spagnolo delle Americhe. E, a conferma,
non mancò di richiamare il principio
romanistico quod omnes targit, ab
ominibus approbari debet con cui
intanto in Europa le autonomie cetuali
rivendicavano i limiti dei poteri regi e
il proprio diritto di partecipazione
all’esercizio della sovranità.
Non stupisce, perciò, che gli scritti
lascasiani fossero poi utilizzati per
denunciare l’oppressione spagnola
durante la rivolta dei Paesi Bassi e,
stampati a Venezia nel 1626, servissero
a scopi analoghi per la città marciana e
per il Ducato di Savoia nel corso della
guerra dei Trent’anni., nel quadro di un
crescente antispagnolismo alimentato
dalle difficoltà incontrate dalla corona
iberica nel far convivere realtà
eterogenee nel suo sistema imperiale. La
visione lascasiana del potere politico
si rivelo particolarmente funzionale
alle esigenze delle insorgenze cetuali
europee, anche se paradossalmente il
domenicano non respinse affatto, a
differenza dei maestri di Salamanca, la
concezione di una “monarchia universale”
cristiana, che continuò a ritenere
legittimata a governare sul Nuovo quanto
sul Vecchio Mondo in base al diritto
divino, ossia in virtù del mandato
ricevuto da Cristo di evangelizzare ogni
popolo.
Las Casas tuttavia fondò questo dominio
universale sulla lex naturae,
giacché, concordando su questo con i
teologi della deuteroscolastica, affermò
l’esistenza di un originario e
intangibile dominium naturale dei
sudditi su sé stessi e suoi loro beni.
Molto chiaramente scrisse, nel trattato
politico De regia potestate, che
la libertà era una ovunque e che il
principe non poteva appropriarsi di
qualcosa che non era in suo possesso:
per questo respinse la schiavitù e
affermò che la potestà del governo
procedeva immediatamente dalle comunità,
che ne rimanevano le titolari ultime pur
delegandola a un re, il quale pertanto
necessitava del consenso di tutti per le
questioni di interesse generale.
Sussisteva qui, in Las Casas come nei
teologi di Salamanca, una radice
contrattualistica in merito all’origine
del potere politico che anticipava in
certa misura il giusnaturalismo moderno;
sia i teologi neotomistici sia Las Casas,
se ne differenziavano, rimanendo in una
prospettiva più tradizionale poiché alla
base del pactum subiectionis
non ponevano la moltitudo degli
individui, bensì la collettività
politica, il popolus inteso nella
sua accezione di comunità sociale
naturale e originaria. Da queste
argomentazioni non era comunque
difficile dedurre un parallelismo che
minacciava di inficiare a un tempo i
regi poteri assoluti e gli imperi
extraeuropei che questi stessi poteri
stavano costruendo; come l'impero
universale esteso dal vecchio al
novum orbem rischiava infatti di
rivelarsi un puro arbitrio in mancanza
del consenso dei governati, così i
sovrani europei potevano trasformarsi in
tiranni se non rispettavano il diritto
di autodeterminazione della comunità
politica.
Las Casas più di ogni altro, logorò il
mito della continuità tra la Spagna e la
civiltà romana e l’idea stessa che i
moderni spagnoli fossero gli eredi dei
romani. Se una continuità c’era, ne
sottolineò solo i tratti peggiori,
comparando l’assoggettamento violento
delle popolazioni iberiche da parte di
Roma a quello realizzato secoli dopo
dalla Spagna in America. In conclusione
posso affermare che Las Casa non negò la
legalità del dominio spagnolo, ma solo i
suoi metodi.
Riferimenti bibliografici:
Tzvetan
Todorov, La conquista dell'America.
Il problema dell'altro, Einaudi,
Torino 1992.
Bartolomé
de Las Casas, De Regia Potestate,
Laterza, Roma-Bari 2007.
Bartolomé
de Las Casas, Brevissima relazione
della distruzione delle Indie, a
cura di Cesare Acutis, Mondadori, Milano
1987.
Ponz De
Leon M., Un uomo di coscienza. Vita e
pensiero di Bartolomé de Las Casas,
Il Cerchio, Rimini 2009.
Luca Baccelli, Bartolomé de Las Casas.
La conquista senza fondamento,
Feltrinelli, Milano 2016. |