[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

164 / AGOSTO 2021 (CXCV)


moderna

BARTOLOMÉ DE LAS CASAS

IL TEORICO DOMENICANO DELLA NON VIOLENZA

di Enrico Targa

 

Bartolomé de Las Casas (1484-1566) prese l’abito a Española (Santo Domingo) nel 1510 e, divenuto domenicano, ereditò le prime, coraggiose denunce anticoloniali dei confratelli Antonio de Montesinos e Pedro de Córdoba e dedicò il resto della sua vita a difendere i diritti degli indios. Raccolse tutti i documenti che poté sulla storia della conquista (a lui si deve la conservazione del diario di bordo di Colombo del 1492) e condusse una serrata battaglia per separare il Vangelo dall’uso della forza, sostenendo, contro chi riteneva indispensabile usare le armi, che il cristianesimo si doveva invece diffondere attraverso la mitezza e l’esempio.

 

Il suo primo atto di denuncia fu un memoriale presentato al cardinale Cisneros nel 1516; da allora, nominato Protector de los Indios, proseguì instancabilmente per cinquant’anni (tranne la parentesi 1522-1532, dedicata alla riflessione sul noviziato) la sua opera di critica ai metodi della conquista spagnola, stigmatizzando tra l’altro duramente le crudeltà compiute da Francisco Pizarro (1475-1541) nel corso della conquista dell’impero incaico.

 

Alla ferocia dei conquistadores e dei coloni a caccia di ricchezze, donne e schiavi, contrappose l’immagine dolce e ospitale del «buona selvaggio», depositario di una nobiltà morale superiore a quella di chi si fregiava del titolo di cristiano, immagine già diffusa da Colombo e destinata a lunga fortuna nella cultura europea cinqe-settecentesca. I suoi scritti, circolati ampiamente in tutta Europa, soprattutto la Brevissima relazione della distruzione degli Indie (pubblicata nel 1552), marchiarono per sempre la conquista spagnola di un segno negativo; e il suo rifiuto del fondamento religioso del diritto di conquista incrinò un cardine ideologico essenziale dell’impero spagnolo.

 

Grazie ai suoi ripetuti viaggi presso la corte di Carlo V, il problema dell’equiparazione giuridica tra colonizzati e colonizzatori assunse pieno rilievo in Spagna, dove però non mancarono dure reazioni, di cui si fece interprete lo storico di corte, il castigliano Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573, imparentato con Hernán Cortés), che già in una sua opera del 1535, il Democrates primus, sive de convenentia disciplinae militaris cum christiana religione, aveva giustificato il sacco di Roma del 1527 con argomenti avversi agli erasmiani spagnoli e difeso animosamente il cristianesimo guerriero che gli spagnoli avevano sperimentato nella reconquista antimusulmana.

 

Sepúlveda respinse le accuse di Machiavelli che il cristianesimo avesse infiacchito la virtù militare; cercò quindi di dimostrare che l’uso delle armi non era affatto contrario ai precetti evangelici e he anzi il messaggio di Cristo eccitava e non indeboliva la vis bellica. Quando poi, col Democrates secundus, sive de justustis belli causis apud Indios (composto a metà degli anni 40), polemizzò con Las Casas, applicò questi stessi concetti non più solo alle guerre europee tra cristiani o alle crociate, ma alla conquista delle Americhe; e, al pari di Oviedo, sostenne la tesi dell'inferiorità naturale degli indios, natura servi, e la conseguente legittimità della guerra cristiana per sottometterli. Come ben chiarì il suo De regno et regis officio (1571), dedicato a Filippo II, per Sepúlveda gli indigeni americani dovevano essere ricondotti con la forza al «governo civile» perché inculti, inhumani e praticanti «costumi barbari» che violavano le leggi di natura come i turchi, contro cui aveva esortato Carlo V a prendere le armi nella Cohartatio ad Carolorum Vimperatorem invctissimum.

 

Il concetto naturale di schiavitù, che risaliva ad Aristotele, venne rilanciato dal teologo scolastico scozzese John Mair (1469-1550) che legittimando la dominazione europea d’oltreoceano, aveva affermato che la scoperta delle Americhe dimostrava ormai per «esperienza» l’esperienza di popoli che vivevano irrazionalmente, «alla maniera delle bestie» e «per natura schiavi», e che perciò, «la prima persona che li sottomette, a buon diritto li governa». I popoli più progrediti, come gli Aztechi e gli Incas, avevano capacità di autogovernarsi ma avevano delle lacune nei propri costumi, praticavano i sacrifici umani e governavano attraverso la tirannia quindi gli europei erano legittimati a intervenire.

 

Non fu difficile per Las Casas, seguendo la critica mossa dal professore di Salamanca Juan de La Peña (1513-1565) secondo il quale l’assunzione del modello romano per legittimare la dominazione planetaria spagnola era assurdo, segnare punti a suo favore perché la corte spagnola non vide affatto di buon occhio le idee sepulvediane sulla schiavitù naturale che finivano per rafforzare l’autonomia degli encomenderos a scapito delle prerogative della corona.

 

Proprio per limitare questa autonomia Carlo V, spronato da Las Casas, emanò nel 1542 la Leyes Nuevas, con le quali abolì il lavoro non retribuito, proibendo la schiavitù degli indigeni, riconosciuti sudditi della Spagna. La tesi lascasiana favoriva il tentativo del sovrano di contenere la forza locale degli encomenderos, almeno quando si incontrava, assai più delle opinioni di Sepúlveda, col progetto missionario della Chiesa. Cinque anni prima del provvedimento del re spagnolo, il pontefice Paolo III aveva già provveduto a sgombrare ogni dubbio scrivendo a chiare lettere nella bolla Veritas ipsa che gli Amerindi erano «veros homines» da convertire pacificamente, tramite l’esempio e la predicazione. Fu in questo contesto che la discussione tra Sepúlveda e Las Casas crebbe di tono, finché l’imperatore decise di ascoltare personalmente le due tesi in una pubblica disputa tenutasi a Vallalolid nel 1550-1551 per «stabilire se è lecito a Sua Maestà muover guerra agli Indios prima che si predichi loro la fede», come formulava in apertura il sommario appositamente redatto dal teologo Domingo de Soto che presiedette l’incontro.

 

Dal dibattito di Vallalolid non uscì nessun vincitore. L’unico effetto fu la decisione imperiale di abolire la parola «conquista» per indicare gli insediamenti spagnoli nelle Americhe. Ne uscì, tuttavia, un confronto tra la posizione razzista di Sepúlveda, dalla quale scaturiva un disegno oppressivo e tutto sommato semplicistico, e quella di Las Casas che, partendo dall’affermazione dell’eguaglianza del genere umano in ogni parte del mondo, sviluppava un progetto etico-politico più elaborato ed umanitario, contemplante l’infeudazione delle terre alla Chiesa e non al sovrano e la conversione non forzata degli indigeni, come del resto aveva ritenuto anche Colombo, il quale appena sbarcato sull’isola si era reso conto, scrivendo nel suo Giornale di bordo alla data del 12 ottobre 1492, che il nuovo continente era popolato di «gente che meglio si sarebbe affidata e convertita alla nostra santa fede con l’amore che non con la forza».

 

Ciò non gli impedì di invitare i re cattolici a usare la forza per cristianizzare le popolazioni delle terre da lui scoperte, mentre in Las Casas rimase inalterata la certezza che l’evangelica prescrizione compelle intrare dovesse essere intesa come persuasione efficace della ragione, sulla scia di Giovanni Crisostomo e non di Agostino. Era però in fin dei conti anche questo un universalismo, sebbene non violento ed egalitario, in cui l’eguaglianza era pensata solo in termini di similitudini e non di riconoscimento delle diversità: gli Indios vi apparivano eguali ai cristiani europei in quanto potenzialmente cristiani ed europei, in quanto cioè, gli uni e gli altri, uguali in Cristo. Per questo il domenicano poté utilizzare contro Sepúlveda la distinzione tra schiavitù naturale, giudicata inesistente, e schiavitù civile, di origine sempre volontaria e legale, di cui erano responsabili anche gli Amerindi.

 

Carità suprema era dunque condurre quelle popolazioni sotto la tutela della vera religione, autentico cammino di liberazione sia dalla persecuzione spagnola, sia dalla loro stessa cultura, tema che radicherà nei secoli a venire il discorso europeo della perfettibilità dei selvaggi «perfettibilità dei selvaggi», divenuti sempre più familiari in Europa grazie alle ormai dettagliate informazioni di viaggiatori e missionari, ma al contempo oggetto di rappresentazione di alterità basate su differenze di natura, come nel caso di Sepúlveda, o di cultura e religione, come in Las Casas.

 

Sebbene non contestasse la legittimità dei possedimenti spagnoli del Nuovo Mondo, ma solo la loro imposizione violenza, Las Casas, riprendendo nel suo Sul titolo del dominio del Re di Spagna sulle persone e sulle terre degli Indios (1554) alcune considerazioni della vitoriana Relectio de Indis a affermando che solo il consenso degli indigeni avrebbe perfezionato il dominio spagnolo delle Americhe. E, a conferma, non mancò di richiamare il principio romanistico quod omnes targit, ab ominibus approbari debet con cui intanto in Europa le autonomie cetuali rivendicavano i limiti dei poteri regi e il proprio diritto di partecipazione all’esercizio della sovranità.

 

Non stupisce, perciò, che gli scritti lascasiani fossero poi utilizzati per denunciare l’oppressione spagnola durante la rivolta dei Paesi Bassi e, stampati a Venezia nel 1626, servissero a scopi analoghi per la città marciana e per il Ducato di Savoia nel corso della guerra dei Trent’anni., nel quadro di un crescente antispagnolismo alimentato dalle difficoltà incontrate dalla corona iberica nel far convivere realtà eterogenee nel suo sistema imperiale. La visione lascasiana del potere politico si rivelo particolarmente funzionale alle esigenze delle insorgenze cetuali europee, anche se paradossalmente il domenicano non respinse affatto, a differenza dei maestri di Salamanca, la concezione di una “monarchia universale” cristiana, che continuò a ritenere legittimata a governare sul Nuovo quanto sul Vecchio Mondo in base al diritto divino, ossia in virtù del mandato ricevuto da Cristo di evangelizzare ogni popolo.

 

Las Casas tuttavia fondò questo dominio universale sulla lex naturae, giacché, concordando su questo con i teologi della deuteroscolastica, affermò l’esistenza di un originario e intangibile dominium naturale dei sudditi su sé stessi e suoi loro beni. Molto chiaramente scrisse, nel trattato politico De regia potestate, che la libertà era una ovunque e che il principe non poteva appropriarsi di qualcosa che non era in suo possesso: per questo respinse la schiavitù e affermò che la potestà del governo procedeva immediatamente dalle comunità, che ne rimanevano le titolari ultime pur delegandola a un re, il quale pertanto necessitava del consenso di tutti per le questioni di interesse generale.

 

Sussisteva qui, in Las Casas come nei teologi di Salamanca, una radice contrattualistica in merito all’origine del potere politico che anticipava in certa misura il giusnaturalismo moderno; sia i teologi neotomistici sia Las Casas, se ne differenziavano, rimanendo in una prospettiva più tradizionale poiché alla base del pactum subiectionis non ponevano la moltitudo degli individui, bensì la collettività politica, il popolus inteso nella sua accezione di comunità sociale naturale e originaria. Da queste argomentazioni non era comunque difficile dedurre un parallelismo che minacciava di inficiare a un tempo i regi poteri assoluti e gli imperi extraeuropei che questi stessi poteri stavano costruendo; come l'impero universale esteso dal vecchio al novum orbem rischiava infatti di rivelarsi un puro arbitrio in mancanza del consenso dei governati, così i sovrani europei potevano trasformarsi in tiranni se non rispettavano il diritto di autodeterminazione della comunità politica.

 

Las Casas più di ogni altro, logorò il mito della continuità tra la Spagna e la civiltà romana e l’idea stessa che i moderni spagnoli fossero gli eredi dei romani. Se una continuità c’era, ne sottolineò solo i tratti peggiori, comparando l’assoggettamento violento delle popolazioni iberiche da parte di Roma a quello realizzato secoli dopo dalla Spagna in America. In conclusione posso affermare che Las Casa non negò la legalità del dominio spagnolo, ma solo i suoi metodi.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Tzvetan Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'altro, Einaudi, Torino 1992.

Bartolomé de Las Casas, De Regia Potestate, Laterza, Roma-Bari 2007.

Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, a cura di Cesare Acutis, Mondadori, Milano 1987.

Ponz De Leon M., Un uomo di coscienza. Vita e pensiero di Bartolomé de Las Casas, Il Cerchio, Rimini 2009.

Luca Baccelli, Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento, Feltrinelli, Milano 2016. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]