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N. 42 - Giugno 2011 (LXXIII)

la storia della banda della Magliana

Tra realtà storica e fantasia
di Giuseppe Formisano

 

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescente interesse verso quella che fu la banda della Magliana. Nel 2002 il giudice Giancarlo De Cataldo pubblicò Romanzo criminale, una storia romanzata della cricca criminale romana.

 

Cinque anni più tardi, Michele Placido portò al cinema un ottimo film ispirato dall’omonimo romanzo di De Cataldo con Pierfrancesco Favino e Tim Rossi Stuward nel cast, mentre tra il 2008 e il 2010 sulla piattaforma satellitare Sky sono andate in onda ben due serie che raccontavano, con tanto di fantasia, le gesta dell’organizzazione che dalla seconda metà degli anni ‘70 fino all’inizio dei ‘90 insanguinò le strade di Roma tenendo il controllo su tutte le attività illecite della capitale.

 

Con il presente articolo cercheremo di trovare un punto di demarcazione tra ciò che realmente accadde e ciò che le varie ricostruzioni letterarie-cinematografiche hanno condito con diversi episodi inventati, inseriti in un contesto reale.


Il Libanese, il Dandi, il Freddo, Bufalo, Ricotta, Scrocchiazzeppi, non sono altro i soprannomi che hanno i personaggi delle vicende narrate nelle pagine del romanzo e nelle scene delle serie televisive, ma corrispondono, grosso modo, ai veri membri della banda. Il libanese, il capo incontrastato della banda, non è altro che Franco Giusepucci, detto “er nero” per via della carnagione scura, l’uomo che ideò il sequestro del barone Grazioli nel 1977 con il quale di fatto stipulò l’alleanza tra la sua batteria (cioè un gruppo formato da poche persone che operano per qualche “lavoro” – rapina, sequestro, furto – ma che non formano un’associazione a delinquere permanente); e quella di Maurizio Abbatino.


Nella batteria di “er nero” c’erano Enrico De Pedis (il Dandi nelle ricostruzioni) Danilo Abbruciati (Nembo Kind, ma il vero soprannome nella realtà era “Camaleonte”), Renzo Danesi, che con gli uomini di Abbatino formarono il gruppo originario della banda. Nel corso degli anni questi giovani cresciuti nella borgata romana e provenienti principalmente dal quartiere Magliana, trovarono altri aderenti, come Edoardo Toscano detto “l’operaietto” (Scrocchiazeppi), Antonio Mancini (Ricotta) e Nicolino Selis di Ostia, detto “il sardo”, per le sue origini. Essendo quest’ultimo il luogotenente a Roma del potentissimo boss Raffaele Cutolo nella NCO, la nuova camorra organizzata, divenne l’anello di congiunzione tra la banda di Roma e la camorra napoletana.


Il sequestro del barone Grazioli ebbe un tragico epilogo. Pur se la ricca famiglia pagò il riscatto richiesto dai sequestratori, il barone non tornò mai a casa: durante il sequestro il prigioniero riconobbe uno dei sequestratori, e cosi fu ammazzato ma nonostante fosse ormai privo di vita, i sequestratori scattarono una foto al barone con un quotidiano del giorno in mano, così da poter mostrare che era vivo. Dalla foto nessuno riuscì a capire che quanto ritratto era solo il cadavere del sequestrato e la famiglia, ignara che stava già vedendo il corpo senza vita del proprio congiunto, pagò il riscatto.


Con quei soldi la banda investì il primo capitale per ogni attività illecita: spaccio di droga, gioco d’azzardo, prostituzione, fino a ottenere il dominio assoluto su tutto e diventare padrone della capitale. La banda strinse forti legami con l’ambiente eversivo della destra estrema e neofascista come l’organizzazione NAR, i nuclei armati rivoluzionari, di cui fa parte Massimo Carminati (“Il Nero”), amico di Giuseppucci che il 9 aprile del 1978 uccise a Roma il tabaccaio Teodoro Pugliese.


Quella primavera del 1978 l’Italia la visse con il fiato sospeso per il sequestro di Aldo Moro, rapito a Roma il 16 marzo. Il presidente democristiano fu tenuto prigioniero dalle Brigate rosse fino al 9 maggio, giorno in cui venne assassinato. Nonostante ancora oggi sul caso Moro ci siano delle zone d’ombra, possiamo affermare con certezza che la banda della Magliana, così come la camorra, la ‘ndrangheta e la mafia, fu coinvolta per trovare la prigione del presidente Moro, ma poco dopo la richiesta d’aiuto da parte di alcuni apparati statali, la richiesta venne ritirata.

 

Cutolo ha dichiarato nel corso del procedimento penale contro Maurizio Abbatino: «Nicolino Selis mi fece sapere che aveva grande urgenza di vedermi: nell’incontro che ne seguì, il Selis mi riferì che, del tutto casualmente, era venuto a conoscere la collocazione del covo nel quale era tenuto sequestrato Aldo Moro. A dire di Nicolino Selis, la prigione del parlamentare si trovava nei pressi di un appartamento che egli teneva come nascondiglio per eventuali latitanze. Appresa tale circostanza, la quale costituiva la premessa perché potessi utilmente attivarmi, ne informai l’avvocato Francesco Gangemi, al quale chiesi, tuttavia, di procurarmi il contatto con qualche autorevole personalità politica, ponendo, per l’appunto, questa condizione per il mio interessamento. L’avvocato Gangemi, da parte sua, mi fece sapere che la condizione da me posta non era stata accettata, sicché, per me, la questione poteva considerarsi chiusa. Nello stesso torno di tempo (…) venne a trovarmi Enzo Casillo [uomo di Cutolo], questi, che come ho detto che in stretto rapporto con vari politici di fama nazionale, mi parve molto preoccupato, allorché mi chiese se mi stavo interessando ancora al sequestro dell’on. Moro. Capii la ragione della sua preoccupazione allorché mi disse che i suoi referenti politici gli avevano chiaramente detto che mi dovevo fare gli affari miei a non mettere il naso in quella faccenda».

 

La banda fu chiamata in causa anche quando uno dei comitati di crisi istituiti dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga ideò un falso comunicato delle BR, quello numero sette del 18 aprile: Tony Chichiarelli, un falsario di arte contemporanea legato alla banda, realizzò il comunicato secondo il quale Moro sarebbe morto «mediante suicidio» e il suo cadavere gettato nel lago delle Duchessa, in provincia di Viterbo al confine con l’Abruzzo. Chichiarelli fu ritrovato morto nel settembre del 1984, ma le dinamiche della sua uccisione non sono mai state chiarite.

 

Il leader della banda Franco Giuseppucci sa che nell’ascesa al potere deve fronteggiare chi già nella capitale detiene il monopolio dell’illegalità. Franco Nicolini, emblematicamente soprannominato “er teribbile”, il terribile, allora gestiva le attività del gioco d’azzardo e delle corse dei cavalli. Dopo un accordo con questi, “er nero” riesce a conquistare la gestione di una parte significativa di Roma, ma la gloria per il Giuseppucci non durerà molto. Il 13 settembre 1980 rimase vittima di un agguato dei fratelli Proietti, uomini di Nicolini, mentre in Romanzo criminale – la serie viene ucciso da Dembo Kind e “Il nero”.

 

Abbatino assunse l’eredità di Giuseppucci nella guida della banda e i “pesciaroli”, questo era il soprannome degli assassini di Giuseppucci, apparentemente semplici commercianti ittici, diventarono l’obiettivo fisso per Abbatino e i suoi, intenzionati più che mai a vendicare il loro capo.


La vendetta contro i “pesciaroli”, però, fu rimandata. Abbatino, più conosciuto come “Crispino” per via dei suoi capelli crespi, dovette prima provvedere sistemare dei problemi interni ala banda nati dopo l’uccisione de “er nero”. Nicolino Selis, forte dell’appoggio di Cutolo, pretese il posto del vecchio capo.

 

Dopo qualche mese dalla morte di Giusepucci, Selis si ritrovò di nuovo in galera ma nonostante ciò riuscì a impartire ordini al resto della banda fuori, ma ormai i rapporti sono incrinati. Quando il Selis esce dal carcere, ci fu un incontro a Ostia il 3 febbraio 1981 per tentare di trovare un accordo ma “er sardo” non è a conoscenza che la banda ha già deciso la sua morte. La scintilla che fa traboccare il vaso fu quando Selis tagliò una partita d cocaina senza dividere i proventi equamente con gli altri. Da quel incontro Selis non ne uscirà vivo. La banda riuscirà anche a non entrare in guerra con la camorra di Cutolo, ma il suo corpo non sarà mai ritrovato.


Risolta la faccenda da sardo, la banda ora può tornare a concentrarsi solo sulla vendetta. Uccidere i fratelli Proietti per loro era diventato un’ossessione. Il 16 marzo 1981, in via Donna Olimpia, due membri della banda, Antonio Mancini, detto “accattone” e Marcello Colafigli (Bufalo), tennero un agguato ai fratelli Mario e Maurizio Proietti. Mancini e Colafigli riuscirono a uccidere uno solo dei due “pesciaroli” perché proprio in quegli istanti passò una volante della polizia. Nonostante la tentata fuga sui tetti del palazzo dove i Proietti abitavano, i due furono arrestati. L’altro Proietti rimane ferito, così come i figli e le mogli.


Senza il leader carismatico che era “er nero” la banda non riuscì più a trovare la compattezza che precedentemente le era propria. Danilo Abbruciati, il “Camaleonte” ed Enrico De Pedis, detto “Renatino”, entrambi gestori del quartiere Testaccio, mirarono ad altri obiettivi. Più in funzione dei tempi e sul modello imprenditoriale di mafia e camorra, il gruppo dei testaccini cercò nuovi affari, abbandonando quelli che erano prerogative del gruppo originale della banda.

 

Secondo il pentito Renzo Danesi «Testaccio aveva una mentalità più imprenditoriale, Abbatino commerciava ancora con gli stupefacenti». Grazie allo stretto legame tra De Pedis e Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra a Roma, i testaccini riciclano il denaro sporco e avviano altri affari tenendo allo scuro il resto della banda.


Il livello di tensione, ma anche di ostilità, tra i due gruppi della banda diventò sempre più alto, così come grande e ramificato era il potere delle due fazioni, tanto vasto da tenere il proprio arsenale di armi in un deposito del Ministero della Sanità.

 

Il 4 dicembre 1981 l’arsenale fu scoperto e Biagio Alesse, custode dello stabile, arrestato, così come quasi tutti i membri ma dopo le ritrattazioni di Alesse, secondo le quali i depositari erano i membri della banda già in galera, Abbatino e gli altri ritrovano la libertà.


Abbruciati il 27 aprile 1982, a Milano, venne ucciso per mano di una guardia giurata che reagì ai colpi che “Camaleonte” sparò contro il vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone. L’attentato, a cui Rosone riuscì a scampare, era un interesse della mafia.

 

Che c’entra allora la banda? Pippo Calò era interessato a recuperare i soldi che aveva affidato al presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, coinvolto nelle faccende giudiziarie riguardanti il fallimento della banca e lo scandalo della loggia massonica P2. Il fatto che l’uccisione di Rosone venne affidata ad Abbruciati indica che nella fitta rete di potere tenuta dalla mafia, Banco e IOR (Istituto per le Opere Religiose, la banca del Vaticano), anche la banda era presente ricoprendo un ruolo importante.


Ciò che più colpisce il gruppo originario di Abbatino nella faccenda di Rosone è che ancora una volta furono tenuti all'oscuro di tutto.


Il 15 dicembre 1983 scattò l’operazione Lucioli: le forze dell’ordine arrestano sessantaquattro persone tra boss, seconde linee e fiancheggiatori della banda. Fu un colpo micidiale. L’operazione prese il nome da Fulvio Lucioli detto “er Socio”, uomo molto vicino a Selis, il primo grande pentito della banda.

 

Nel giugno 1986, dopo tre anni e tre mesi dal blitz, arrivò la sentenza di primo grado: dei sessantaquattro imputati, trentasette furono condannati per spaccio di droga. De Pedis venne assolto, Abbatino si fece trasferire nella clinica “Villa Gina” grazie a una falsa diagnosi, Toscano, “l’operaietto”, condannato a vent’anni.

 

Che Abbatino abbia usufruito di una falsa diagnosi venne raccontato dal pentito Claudio Sicilia detto “er vesuviano” perchè napoletano di nascita. Dopo l’Operazione Lucioli, Sicilia continuò a gestire le attività lasciate dai compagni incarcerati, arricchendosi anche alle spalle di questi. Dopo il pentimento de “er vesuviano”, avvenuto nell’autunno del 1986, Abbatino fuggì da “Villa Gina” il 23 dicembre 1986.

 

Nelle sue rivelazioni, Sicilia, che il 17 novembre 1991 trovò la morte nel quartiere Eur, accusò anche il tribunale di esseri fatto corrompere in alcune sentenze emesse contro la banda. In Cassazione, nel giugno del 1988, vennero tutti assolti.

 

Il giudice di Cassazione di quella sentenza era Carnevale, soprannominato il giudice”ammazzasentenze” per le sue continue annullazioni dei gradi di giudizio precedenti.


Il potere della banda finì il 2 febbraio 1990, quando in Via del Pellegrino il potentissimo boss De Pedis rimase ucciso dai suoi ex compagni. Da quel momento in poi ebbe inizio un periodo di pentimenti a catena. “Renatino” De Pedis, nonostante fosse un criminale riconosciuto, ottenne la sepoltura in una chiesa del territorio vaticano, la basilica di Sant’Apollinare.


Nel marzo del 1991 Roberto Abbatino, fratello di “Crispino” rimase vittima nella faida in corso all’interno della banda. La latitanza di Maurizio Abbatino si fermò a Caracas, in Venezuela. L’ultimo giorno del 1991 venne arrestato grazie all’intercettazione della telefonata che Abbatino fece alla madre che viveva nella Magliana.

 

Quando tornò in Italia ebbe inizio la sua collaborazione con la giustizia, così come fecero anche Antonio Mancini e la compagna di Danilo Abbruciati, Fabiola Moretti dopo “L’Operazione Colosseo” del 16 aprile 1993 che portò all’arresto di cinquantatré persone una confisca di ottanta miliardi di lire.


È corretto parlare al passato scrivendo della banda della Magliana?

 

Il pentito Antonio Mancini, in un’intervista per un’inchiesta rilasciata all’”Espresso”, ha affermato che la banda «esiste ancora», muovendosi meno alla luce del sole perché spara di meno, ma esistono soprattutto i soldi della banda che sarebbero finiti anche nelle mani di Danilo Coppola, l’imprenditore conosciuto alle cronache nell’estate del per la scalata, con altri “furbetti”, alla BNL e l’Antonveneta.

 

Quanto c’è di vero nelle parole di Mancini? Egli parla anche della scomparsa della cittadina vaticana Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983. Ancora oggi della ragazza non si hanno tracce, ma stando a quanto detto da Mancini e Sabrina Minardi, per molti anni donna di De Pedis, la ragazza sarebbe stata rapita dal boss di Testaccio per una questione di denaro. De Pedis avrebbe affidato alla banca di Calvi dei soldi, ma di questi non fu fatto un uso desiderato dal boss ma sarebbero invece andati nella casse del Vaticano. L’attentato a Rosone rientrerebbe in questa situazione di ricatto, non riuscendo Calvi, per via dell’opposizione di Rosone, a gestire al meglio quel denaro sporco.

 

Ancora una volta nella storia dell’Italia repubblicana ci sono dei fatti criminali caratterizzati da punti interrogativi irrisolti e vergognosi, vergognosi come i rapporti appurati che la banda ebbe con alcuni apparati dei Servizi segreti.

 

La criminalità organizzata, purtroppo, è stata una protagonista importante degli ultimi sessant’anni, almeno, e sembra forse esserlo ancora.



 

 

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