N. 35 - Novembre 2010
(LXVI)
i GERMOGLI RECISI
bambini vittime di mafia
di Giuseppe Tramontana
Quella che sto per raccontarvi
non
è
una
storia
come
le
altre.
E
temo
anche
che
sia
una
di
quelle
storie
difficilmente
sentite
o
lette.
Della mafia se n’è parlato
e
fortunatamente
se
ne
continua
a
parlare
in
tutte
le
salse
ed
in
tutte
le
svariate,
possibili,
barocche
declinazioni.
Bisogna
farlo.
È un
dovere.
È
una
questione
di
dignità,
di
umanità,
di
resistenza.
Se si è siciliani o meridionali-
a
rischio
di
apparire
monomaniacali
o
fissati
- il
compito
e
dovere
diventano
più
ponderosi,
più
impellenti.
Senza
deroghe
o
scusanti.
Proprio il 26 ottobre la
piccola
Denise
Pipitone
ha
compiuto
10
anni.
Ricordate?
Denise
scomparve
(rapita?)
il 1
settembre
2004.
Da
allora,
tante
voci,
qualche
insinuazione,
inchieste
aperte,
chiuse
e
riaperte,
ma
nessuna
certezza.
Ci piace pensare ostinatamente
che
Denise
sia
viva.
E lo
è
senz’altro.
Con
i
suoi
begli
occhioni
neri,
più
alta,
magari
meno
paffutella
e
con
un
enigma
nel
cuore.
Ma
non
è di
lei
che
voglio
parlare.
Denise
mi
ha
rimandato
ad
altre
storie,
storie
di
bambini.
Di
bambini
e di
mafia.
Non è di Denise che voglio
parlare.
Ma
degli
altri.
Di
quelli
che
hanno
guardato
in
faccia,
anche
se
per
un
momento
soltanto,
l’inenarrabile.
Siamo al pomeriggio del
7
ottobre
1986,
24
anni
fa.
Un
bambino
di
nome
Claudio,
Claudio
Domino,
sta
passeggiando
con
un
amichetto
in
via
Fattori,
quartiere
di
san
Lorenzo,
a
Palermo.
Si
trova
lì
non
per
caso,
visto
che
ad
un
paio
di
metri
c’è
la
cartolibreria
della
madre.
Una moto accosta. Il
motociclista,
un
giovane,
lo
chiama
per
nome.
Claudio
lascia
l’amichetto
e si
avvicina.
Non
ha
nemmeno
il
tempo
di
chiedere
cosa
voglia.
L’uomo
tira
fuori
una
pistola
e
gli
conficca
un
proiettile
in
fronte.
Così,
a
bruciapelo,
lasciando
sul
volto
del
bimbo
un’espressione
incredula,
perplessa,
come
di
chi
non
capisce
il
perché
di
un
rimprovero,
la
promessa
non
mantenuta,
l’errore
che
non
ti
aspetti
nel
compito
in
classe.
Oggi Claudio avrebbe 35
anni.
Ma
l’orologio
della
sua
vita
e
dei
suoi
sogni
si
infranse
quel
pomeriggio
di
ventiquattro
anni
fa,
su
quel
marciapiedi
di
San
Lorenzo.
Allora,
lui,
di
anni,
ne
aveva
solo
undici.
Undici.
Ripetete:
undici
anni.
Non
vi
si
torcono
le
budella?
Come
farsi
strappare
un
dente
a
carne
viva.
Si parla subito di mafia,
per
quel
delitto.
E
come
non
parlarne,
in
una
città
come
Palermo.
È il
contesto,
amico
bello.
I
boss
rinchiusi
dietro
le
celle
dell’aula
bunker
per
il
maxiprocesso
prendono
le
distanze.
Troppo
squallore,
troppo
rumore
e
sgomento
persino
in
una
città
abituata
a
digerire
di
tutto.
Ma un bambino no, un
bimbo
non
si
può.
Giovanni
Bontade,
fratello
di
Stefano,
chiede
la
parola
e il
Presidente
Giordano
gliela
concede.
“Noi
condanniamo
questo
barbaro
delitto
–
disse
Bontade,
mettendo
mano
ad
una
nota
concordata
con
Pippo
Calò
ed
altri
galantuomini
dietro
le
sbarre
-
che
provoca
accuse
infondate
verso
gli
imputati
di
questo
processo.”
“Noi…” ha detto Bontade.
Noi.
Quel
“noi”,
intanto,
non
è
un’implicita
ammissione
dell’esistenza,
sempre
negata,
dell’organizzazione
mafiosa
siciliana?
Sì, secondo gli esperti.
Una
sorta
di
autogol.
Clamoroso,
storico,
per
certi
versi.
In
base
a
quello
che
racconterà
un
pentito
anni
dopo,
per
quel
“noi”,
Bontade
verrà
ucciso.
Anche
se è
più
probabile
che
avesse
pagato
in
questo
modo
la
sua
affiliazione
alla
cosiddetta
“mafia
perdente”,
quella
di
cui
era
massimo
esponente
il
fratello
Stefano.
Ma torniamo ancora una
volta
al
punto.
Se
non
è
stata
la
mafia,
chi
ha
ucciso
Claudio?
I carabinieri sembrano
brancolare
nel
classico
buio
screziato
di
asfalto.
Poi,
la
svolta.
Qualcuno
racconta
ai
militi
il
motivo
dell’omicidio:
Claudio
avrebbe
assistito,
casualmente,
al
confezionamento
di
eroina
in
un
magazzino
vicino
al
negozio
dei
genitori.
E,
ad
ucciderlo,
sarebbe
stato
un
tossicodipendente
inviato
da
Salvatore
Graffagnino,
entrambi
scovati
e
fatti
fuori
a
tempi
di
record
dagli
uomini
di
Cosa
Nostra.
La conferma avvenne nel
1994
da
Salvatore
Cancemi.
Tra
molti
–
time
out
Ma, purtroppo, Claudio
non
è
stato
l’unico
né
l’ultimo.
Prima
di
lui
altri
bambini,
ragazzini
ci
hanno
rimesso
la
pelle.
Bambini
di
pochi
anni
e
ragazzini
poco
meno
che
adolescenti.
Maschi e femmine. Figli
di
boss
e
pastorelli,
studenti
e
figli
di
gente
normale,
con
genitori
impiegati,
insegnanti,
casalinghe.
Quanti sono? Almeno una
ventina.
Morti, uccisi per vendetta,
per
non
lasciare
testimoni
scomodi
o
morti
semplicemente
per
caso
–
ammesso
che
il
caso
esista.
E
già,
perché
in
alcune
zone
d’Italia
– è
risaputo
– si
può
morire
più
facilmente
per
caso,
per
una
via
del
paese
imboccata
sovrappensiero
o
per
un
bus
che
arriva
in
ritardo.
Tu stai lì ad aspettare,
pensando
ai
fatti
tuoi,
all’interrogazione
andata
così
così
e a
quel
fesso
di
prof.
che
ti
ha
fatto
la
domanda
stronza
e,
zac!,
sei
falciato
da
un
sventagliata
di
kalashnikov
o
colpito
da
un
proiettile
vagante
o ti
piomba
addosso
una
macchina
della
scorta
di
un
magistrato.
In alcuni posti accade.
È
accaduto.
Ma è
accaduto
anche
che
dei
ragazzini
siano
stati
ammazzati
come
cani,
o
come
boss,
solo
per
aver
fatto
lo
scippo
alla
persona
sbagliata.
O
perché
accidentalmente
quello
che
si
spaccia
per
il
geometra
tizio
in
realtà
ha
un’altra
identità
e
questo
cambio
di
nomi
nasconde
una
latitanza…
Insomma, i casi sono
tanti
e,
spesso,
stravaganti.
Colpire
il
figlio
per
educare
il
padre
Di come sia morto Giuseppe
Di
Matteo,
figlio
del
boss
Santino,
si
sa
praticamente
tutto.
Ma
ricordarlo
non
nuoce:
che
non
sia
mai
che
l’oblio
ci
faccia
vincere
l’orrore,
ci
faccia
digerire
queste
schifezze.
Ricordare,
bisogna.
In
ogni
caso.
Giuseppe aveva 12 anni.
Venne
sequestrato
diciotto
mesi
prima
di
essere
ucciso.
Quando
venne
strangolato
era
il
novembre
1995.
Venne
strangolato
e
sciolto
nell’acido.
Di lui non rimase nemmeno
una
ciocca
di
capelli,
quei
capelli
morbidi,
neri,
lucenti,
tenuti
leggermente
a
caschetto
che
accompagnavano
ritmicamente
le
sue
galoppate
in
groppa
al
suo
pony
preferito.
La
sua
unica
colpa
era
quella
di
essere
il
figlio
del
boss
Santino.
Ad ordinarne l’eliminazione
fu
Giovanni
Brusca,
subito
dopo
aver
appreso
di
essere
stato
condannato
all’ergastolo
per
l’omicidio
di
Ignazio
Salvo,
delitto
a
cui
aveva
partecipato
anche
Santo
Di
Matteo.
Almeno,
in
base
alla
ricostruzione
dei
fatti
venne
effettuata,
nel
1996,
da
Giuseppe
Monticciolo,
uomo
di
Brusca,
pentitosi
all’indomani
della
cattura.
Monticciolo
raccontò
di
essere
stato
presente
quando
Brusca
ed
un
complice
strangolarono
il
bambino,
in
un
casolare
vicino
san
Giuseppe
Jato.
Ma Monticciolo non fu
l’unico
a
parlare
di
questa
bestemmia
contro
la
vita
di
un
bimbo.
Ne
parlò
anche
un
altro
pentito,
Pasquale
Di
Filippo,
il
quale
raccontò
come
il
killer
Salvatore
Grigoli
gli
avesse
confidato
di
aver
ucciso
don
Pino
Puglisi
e di
aver
partecipato
al
sequestro
di
Giuseppe.
Lo prelevarono per potere
ricattare
il
padre
che
stava
collaborando
con
la
giustizia.
Andarono
a
prenderlo
al
maneggio
nei
pressi
di
Monreale
dove
era
solito
recarsi
per
cavalcare
il
pony.
Indossavano
dei
giubbetti
della
DIA
e
dissero
al
bambino
che
l’avrebbero
accompagnato
dal
padre,
che
voleva
vederlo.
Il bimbo sorrise e, tutto
contento,
sussurrò:
“Sangue
mio,
sangue
mio….
andiamo
subito…”
E
non
tornò
mai
più.
“Non
è
cinema”
Giovanni La Greca, Riccardo
Cristaldi,
Lorenzo
Pace
e
Benedetto
Zuccaro
vennero
trucidati
come
dei
boss.
Erano
tutti
di
Catania
ed
avevano
fatto
una
cosa
che,
in
quella
città,
non
si
poteva
nemmeno
immaginare:
avevano
scippato
inconsapevolmente
la
madre
di
Nitto
Santapaola.
Era
il
13
aprile
1978.
Giovanni
e
Riccardo
avevano
15
anni,
Lorenzo
14 e
Benedetto,
detto
Nitto
come
il
suo
boia,
appena
13.
Anche di questa strage
si
sa
ormai
tutto.
L’ha
raccontato
il
pentito
Antonino
Calderone.
“La
cosa
più
infame
della
mia
vita”
l’ha
definita.
E ne
ha
ben
donde.
I
quattro
ragazzini
vennero
rapiti
e
portati
in
una
cascina
presso
Riesi,
Caltanissetta,
di
proprietà
del
boss
Giuseppe
Di
Cristina.
Non c’era stato verso di
dissuadere
Santapaola:
dovevano
morire,
punto
e
basta.
E
così
fu.
I
quattro
vennero
portati
nel
casolare.
Uno
era
così
piccolo
–
raccontò
Calderone
ai
magistrati
–
che
quasi
ce
lo
dimenticavamo
tra
i
sedili
della
macchina.
Li
presero
e li
strangolarono.
Dopo,
i
corpi,
li
gettarono
in
un
pozzo.
Pino Marchese, uno dei
killer,
raccontò
a
Calderone,
di
cui
era
anche
cugino,
che,
in
un
caso,
non
aveva
avuto
il
coraggio
di
stringere
fino
in
fondo
il
laccio
attorno
alla
gola
e
così
il
bambino
era
stato
catapultato
ancora
vivo
nel
pozzo.
Ingoiato
vivo.
Tra morti. “Qualcuno –
sbottò
Calderone
davanti
a
Pino
Arlacchi
-
può
dirmi,
ora,
se
ci
sono
giudici
in
grado
di
giudicare
noialtri?
O se
fa
una
cosa
giustissima,
lodevolissima,
chi
mi
spara
e mi
ammazza
non
appena
esco
da
questa
stanza?
Come potevo restare ancora
dentro
quella
congrega
maledetta?
Eppure
ci
sono
rimasto
ancora
diversi
anni.
Con
questa
ferita,
con
questo
macigno
dentro
di
me
che
c’è
ancora
e ci
sarà
sempre.
Ecco
perché
mi
vergogno
ogni
volta
che
entro
in
chiesa:
perché
non
ce
la
faccio
ad
alzare
gli
occhi.
Non
è
cinema
quello
che
racconto.”
Già,
non
è
cinema.
Quel
giorno
a
Pizzolungo
A volte si muore per un
caso
assurdo,
beffardo.
Perché
ci
si
trova
al
posto
sbagliato,
al
momento
sbagliato.
O al
posto
giusto,
ma
nel
momento
sbagliato.
La mattina del 2 aprile
1985
la
signora
Barbara
Asta
uscì
di
casa
assieme
ai
due
gemellini
Giuseppe
e
Salvatore,
di 6
anni.
La
signora,
di
anni,
ne
aveva
38.
Solitamente
a
quell’ora
uscivano
in
quattro
poiché
con
loro
c’era
anche
la
sorella
maggiore,
Margherita,
di
11
anni.
Ma quel giorno Margherita,
che
frequentava
la
prima
media
e
quindi
un’altra
scuola
rispetto
ai
fratelli
minori,
era
stata
affidata
ad
un
vicino
di
casa
proprio
perché
la
mamma
era
in
ritardo
sulla
consueta
tabella
di
marcia.
A
bordo
della
sua
Volkswagen
Scirocco
azzurra
la
signora
Barbara
percorreva
la
strada
di
Pizzolungo,
una
mano
al
volante,
un
occhio
allo
specchietto
retrovisore
a
controllare
i
due
monelli
che
si
agitavano,
come
al
solito.
Era una bella giornata.
Il
cielo
profondo,
azzurro
cobalto.
L’aria
tersa,
corroborante,
invitava
a
riempiersi
i
polmoni,
a
respirare
la
brezza
marina
che
veniva
da
lì
in
fondo,
da
Favignana,
da
Marettimo.
Le
due
isolette
sbucavano
dal
mare.
Sembrava
che
si
potessero
afferrare
in
un
pugno
o
raggiungere
con
due
bracciate.
Il sole caldo, dolcemente
accondiscendente,
si
appoggiava
sulla
nuca
come
per
una
carezza,
una
carezza
e un
incoraggiamento:
non
aver
paura,
sono
con
te e
mi
ritroverai
qui
ad
aspettarti,
qualunque
cosa
tu
stia
per
fare.
Ad un tratto si udirono
le
sirene
di
una
scorta.
Niente
di
straordinario.
La
signora
rallentò
ed
accostò
al
bordo
della
carreggiata
per
lasciarla
passare.
La
manovra
non
riuscì
del
tutto.
Proprio
in
quel
punto,
al
bordo
della
strada,
era
parcheggiata
un’utilitaria.
La
Scirocco
l’affiancò.
Sul
lato
sinistro,
l’auto
del
giudice
Carlo
Palermo
stava
per
superarla
e,
in
quel
momento,
si
aprì
la
bocca
dell’Inferno.
L’utilitaria era un’autobomba.
La
Volkswagen
venne
sventrata,
dilaniata,
facendo
da
scudo
inconsapevole
al
giudice
di
passaggio.
Vennero
raccolti
resti
umani
nel
raggio
di
centocinquanta
metri.
Un
grumo
di
essere
umano
andò
a
macchiare
di
rosso
la
facciata
del
palazzo
di
fronte.
La
mafia
di
Trapani
aveva
condannato
a
morte
il
giudice
Carlo
Palermo
per
le
sue
indagini
sui
trafficanti
di
droga
e di
armi.
Ma
lui
fu
ferito
solo
leggermente.
Aspettando
il
bus
Biagio e Giuditta, invece,
si
trovavano
al
posto
giusto,
ma
al
momento
sbagliato.
Sbagliatissimo.
Il
posto
giusto
era
quello
sotto
la
pensilina
dove
prendevano
il
bus
per
tornare
a
casa,
dopo
la
scuola.
Erano
entrambi
due
studenti
del
Liceo
“G.
Meli”.
Biagio aveva 14 anni,
Giuditta
17.
Non
avevano
nessuna
colpa,
se
non
quella
di
aspettare
l’autobus
alla
solita
ora,
le
13.40.
In
lontananza
si
udì
il
fischio
intermittente
delle
sirene
di
alcune
auto
scorta.
A
bordo
c’erano
i
giudici
Leonardo
Guarnotta
e
Paolo
Borsellino,
del
pool
antimafia.
All’incrocio con piazza
Croci,
il
conducente
di
una
macchina
bianca
non
si
accorse
del
segnale
di
stop
di
un
vigile:
si
arrestò
un
metro
avanti.
La
prima
Alfetta
non
fece
in
tempo:
l’impatto
fu
inevitabile.
La carambola sbalzò l’auto
di
scorta
sulla
piccola
folla
in
attesa
del
bus.
Biagio
Siciliano
morì
sul
colpo,
Giuditta
Milella,
figlia
di
un
dirigente
della
polizia,
spirò
dopo
una
settimana
di
agonia.
Altri
venti
ragazzi
vennero
ricoverati
in
vari
ospedali
e
uno,
Pierluigi
Lo
Monaco,
restò
in
rianimazione
per
parecchie
settimane,
poi
si
salvò.
Il
contesto,
il
cotesto
incise.
E
uccise.
Quando
il
caso
determina
il
destino
E 17 anni
aveva
Graziella
Campagna
quando
venne
ammazzata
a
Forte
Campone,
una
collina
sopra
Messina.
Era il 12
dicembre
1985.
Graziella
lavorava
come
stiratrice
nella
lavanderia
la
“Regina”,
a
Villafranca
Tirrena,
un
paese
poco
distante.
Guadagnava
150mila
lire
al
mese,
al
nero,
e
così
aiutava
la
famiglia:
padre,
madre
e 7
fra
fratelli
e
sorelle.
La sera del
12
dicembre
del
1985,
intorno
alle
20,
mentre
aspettava
l’autobus
che
l’avrebbe
riportata
a
casa,
a
Saponara,
venne
fatta
salire
su
un’auto
e
portata
a
Forte
Campone.
Pochi
chilometri
di
viaggio,
sotto
una
pioggia
battente,
lungo
una
strada
sterrata,
piena
di
buche
come
la
superficie
lunare,
ma
lontana
dalle
luci
del
paese.
Su quel prato,
i
piedi
affogati
nel
fango,
le
spararono
frontalmente,
a
una
distanza
di
meno
di
due
metri:
cinque
colpi
di
fucile
a
canne
mozza.
I
pallettoni
la
colpirono
al
braccio
con
il
quale
tentò
di
ripararsi,
al
viso,
allo
stomaco,
alla
spalla.
Quando
era
già
a
terra
la
finirono
con
un
ultimo
colpo
alla
testa.
Graziella
aveva
indosso
un
giubbotto
rosso,
una
maglia
a
righe,
un
paio
di
pantaloni
neri
e
gli
stivaletti.
Aveva
con
sé
una
borsetta
che
non
fu
mai
ritrovata.
Fu
un’esecuzione.
Nessuno ha
saputo
mai
dire
il
perché
di
quell’accanimento
bestiale.
Il
cadavere
di
Graziella
fu
ritrovato
due
giorni
dopo.
Un
giovane
medico,
durante
una
passeggiata
con
la
famiglia,
scoprì
il
corpo.
Erano
le
quattro
del
pomeriggio
quando,
insieme
con
la
polizia
arrivò
Piero
Campagna,
il
fratello
carabiniere
che
fece
il
riconoscimento.
Graziella
era
distesa
su
un
fianco
con
le
braccia
raccolte
al
petto.
Il
suo
orologio
era
fermo
alle
9 e
12.
A
quell’ora
aveva
lasciato
questo
mondo.
L’autopsia
accertò
che
Graziella
non
era
stata
né
violentata
né
picchiata
e
non
aveva
bevuto
o
ingerito
nessun
tipo
di
sostanza:
era
lucida,
cosciente
e
consapevole.
Dopo 19 anni
da
quel
delitto
la
Corte
di
Assise
di
Messina
condannò
all’ergastolo,
per
quel
delitto,
due
mafiosi,
ex
latitanti:
Gerlando
Alberti
jr.,
nipote
di
Gerlando
Alberti,
detto
“U
paccarè”,
e
Giovanni
Sutera,
con
precedenti
accuse
di
omicidio
e
tentata
rapina
sul
groppone.
Insieme a
loro,
con
l’accusa
di
favoreggiamento,
vennero
condannate
a
due
anni
di
galera
la
titolare
della
lavanderia,
Franca
Federico,
e la
collega
di
lavoro
Agata
Cannistrà.
Resta una
domanda:
perché
uccidere
una
ragazzina
di
17
anni
e in
quel
modo,
poi?
Graziella
Campagna,
qualche
giorno
prima
del
fatidico
12
dicembre,
aveva
tirato
fuori
un’agendina
dalla
camicia
sporca
che
Gerlando
Alberti
jr.
aveva
consegnato
in
lavanderia.
Per lei,
quell’uomo
che
veniva
spesso
in
lavanderia
era
un
ingegnere
e si
chiamava
Eugenio
Cannata.
Insieme
a
lui,
c’era
sempre
il
cugino,
Gianni
Lombardo,
geometra,
in
realtà
Giovanni
Sutera.
Due
latitanti
che
ormai
da
mesi
vivevano
indisturbati
in
quella
zona
della
provincia
messinese,
tra
amici
e
protettori.
La
provincia
“babba”
era
un
ottimo
posto
in
cui
godersi
la
latitanza
come
una
vacanza.
Basta
poco.
Ad
esempio,
una
nuova
identità.
Detto, fatto.
Alberti
divenne
l’ingegner
Cannata
e
Sutera
il
geometra
Lombardo.
Graziella
tutto
questo
non
lo
poteva
sapere.
Per
lei,
quella
era
soltanto
una
camicia
da
lavare
e da
controllare
prima
di
infilarla
in
lavatrice.
Ma
trovò
l’agendina.
Non
sappiamo
neanche
se
l’aprì
e se
si
rese
conto
di
quanto
aveva
scoperto.
Ma,
in
fondo,
questo
non
ha
molta
importanza.
La cosa importante
è
che
i
suoi
assassini
credettero
che
Graziella
li
avesse
scoperti.
E
con
un
fratello
carabiniere….
Quando
Gerlando
Alberti
si
accorse
di
aver
lascato
l’agenda
nella
tasca
della
camicia,
spedì
di
corsa
Sutera
a
recuperarla.
Il
“cugino”
latitante
tornò
soltanto
con
un
portadocumenti
rosso
e
una
foto
di
Giovanni
XXIII.
E l’agendina?
Così
fu
deciso
il
destino
di
Graziella.
Lei
non
lo
sapeva,
ma
aveva
visto
ciò
che
non
doveva
vedere.
“Vi
ho
riconosciuti!”
Ida Castellucci aveva 20
anni.
Venne
uccisa
insieme
al
marito
Antonio
Agostino.
Si
erano
sposati
due
mesi
prima.
Assistette
al
suo
assassinio
mentre
tornava
dal
mare,
il 5
agosto
1989.
Ai
killer
gridò:
“Vi
ho
riconosciuti!”
E così firmò anche la
propria
condanna
a
morte.
Morì
così.
Con
una
mano
allungata
verso
il
corpo
del
marito
e
una
sul
grembo
come
a
proteggerselo:
era
incinta
di
tre
mesi.
La
punizione
Come Claudio Domino,
anche
Angelo
Selvaggio
venne
ucciso
a 11
anni.
“Selvaggio
di
nome
e di
fatto…”
borbottavano
gli
adulti,
guardandolo
e
scuotendo
il
capo.
Eh sì, perché Angelo era
un
demonietto.
Orfano
di
padre,
viveva
con
la
madre
a
Sciara,
il
paese
di
Salvatore
Carnevale.
Era
uno
di
quei
bambini
di
cui
i
maestri
o i
professori
dicono:
“è
intelligente,
è
furbo,
è
perspicace,
ma
ha
l’argento
vivo
addosso!”
La madre Santina Rizzo
ne
aveva
denunciato
la
scomparsa
il
23
gennaio
1990.
Due
giorni
dopo
venne
trovato
sotto
un
cespuglio
all’ingresso
del
paese:
era
stato
ucciso
a
coltellate
per
avere
rubato
due
pecore.
Da
sola
non
ci
sto
Anche Rita Atria è da
annoverare
tra
le
vittime
della
mafia.
Sorella
e
figlia
di
due
uomini
d’onore
ammazzati
a
Partanna,
Trapani,
si
ribellò
alla
sua
condizione
di
donna
passiva,
votata
al
silenzio
ed
alla
rassegnazione.
Conobbe Paolo Borsellino
e
con
lui
si
confidò,
raccontò
il
mondo
in
cui
era
cresciuta
e
dal
quale
voleva
fuggire.
Insieme
alla
cognata
Piera
Aiello
fu
costretta
ad
andare
via
dalla
Sicilia:
a
Roma,
in
un
anonimo
palazzone
dell’Eur.
E
non
era
solo
una
distanza
fisica.
La sua famiglia, la madre
Giovanna
Cannova
non
accettarono
mai
l’idea
che
la
ragazza
si
fosse
confidata
con
gli
‘sbirri’,
i
nemici
del
figlio
e
del
marito
uccisi
(uccisi
da
altri
mafiosi,
però).
Anzi,
nel
Natale
del
1991,
quando
ancora
la
notizia
della
collaborazione
non
era
ufficiale,
la
madre
le
disse,
chiaro
e
tondo:
“se
scopro
che
collabori
con
gli
sbirri,
ti
faccio
fare
la
fine
di
tuo
fratello
Nicola….
Ci
penserò
io
stessa
a
parlare
con
le
persone
conosciute
e
fidate.”
Quando, il 19 luglio
1992,
Rita
seppe
della
morte
del
giudice
Borsellino
venne
risucchiata
dallo
sconforto:
“non
ci
proteggerà
più
nessuno”,
disse
alla
cognata.
E
una
settimana
dopo,
il
26
luglio,
la
fece
finita,
gettandosi
dalla
terrazza
della
casa
romana.
Ai suoi funerali, a Partanna,
non
partecipò
nessuno:
nemmeno
la
madre.
La
quale,
anzi,
qualche
tempo
dopo,
venne
sorpresa
mentre,
a
colpi
di
martello,
cercava
di
distruggere
la
tomba
della
figlia,
al
cimitero
del
paese.
Quando
si
dice
cuore
di
mamma…
Alla
porta
sbagliata
Di tanti altri, invece,
nessuno
sembra
più
ricordarsi.
Uccisi
e
ingombranti.
Bambini,
esseri
umani
poco
più
o
poco
meno
che
adolescenti
di
cui
si è
persa
ogni
traccia
nella
memoria.
Facciamolo
noi
un
piccolo
sforzo.
Giuseppe Letizia aveva
14
anni.
Era
un
pastorello
di
Corleone.
Si
racconta
che
abbia
assistito,
il 2
agosto
1948,
all’omicidio
del
medico
palermitano
Francesco
Russo,
il
quale
aveva
chiesto
un
passaggio
al
dottor
Giuseppe
Navarra,
capomafia
incontrastato
di
Corleone
e
direttore
dell’ospedale
dei
Bianchi
della
stessa
cittadina.
Ad un certo punto, appena
fuori
il
paese,
la
macchina
di
Navarra
si
fermò
e
Russo
venne
ucciso.
Casualmente
assistette
alla
scena
il
piccolo
Giuseppe,
il
quale,
terrorizzato,
corse
in
paese
per
avvertire
qualcuno.
Bussò
ad
alcune
porte
prima
che
qualcuno
gli
desse
retta.
Sfortunatamente
per
lui,
bussò
anche
a
quella
del
dottor
Navarra,
l’assassino
di
Russo.
Per
calmarlo,
il
buon
medico
gli
fece
un’iniezione.
Letale.
Una
fine
così…
Anna Prestigiacomo aveva
15
anni
quando
venne
fulminata
da
diversi
colpi
di
fucile,
nel
rione
San
Lorenzo,
a
Palermo.
Era
il
26
giugno
1959.
La sorellina, Rosetta,
di
11
anni,
riconobbe
in
Michele
Cusimano,
un
vicino
di
casa,
il
killer.
Cusimano
venne
arrestato
con
il
padre
Girolamo.
Al
processo
si
scoprì
che
vari
rancori
dividevano
le
due
famiglie.
Tra l’altro Cusimano
aveva
chiesto
in
moglie
Graziella
Trapani,
zia
materna
di
Anna,
ottenendone
un
rifiuto.
Venne
a
galla
anche
che,
tredici
anni
prima,
il
padre
di
Anna,
Francesco,
aveva
convinto
Cusimano
a
costituirsi
ai
carabinieri
dopo
un
conflitto
a
fuoco.
E
così
era
stato
bollato
come
un
“confidente
dei
carabinieri”.
In primo grado Cusimano
venne
assolto
con
tanto
di
baci
e
abbracci
da
parte
del
suo
avvocato,
il
principe
del
foro
palermitano,
nonché
deputato
alla
camera
e
sottosegretario
alla
Difesa
Giacomo
Bellavista.
Ma in appello le cose
andarono
diversamente.
Cusimano
vene
condannato,
seppur
con
il
riconoscimento
di
alcune
attenuanti.
Perché,
in
Sicilia,
per
chi
non
lo
sapesse,
uccidere
a
freddo
a
colpi
di
pistola
una
ragazzina
di
quindici
anni
può
presentare
delle
attenuanti!
Giocando,
senza
un
perché
Sempre nel 1959, il 19
settembre,
cadde
Giuseppina
Savoca,
di
12
anni.
Stava
giocando
sotto
casa,
in
via
Messina
Marine,
a
Palermo,
quando
venne
raggiunta
da
un
proiettile
vagante.
L’obiettivo
dell’agguato
era
Filippo
Drago,
un
pregiudicato
di
51
anni,
proprietario
di
una
profumeria.
Giuseppina
morì
subito.
Chi
c’entra,
c’entra
Passò un mese ed a cadere
furono
i
fratelli
Antonino
e
Vincenzo
Pecoraro,
rispettivamente
di
10 e
19
anni.
Rimasero
vittime
della
cosiddetta
“strage
di
Godrano”,
il
26
ottobre
1959.
Nell’attacco
vennero
feriti
anche
il
padre
Francesco
e il
compaesano
Demetrio
Pecorino.
I killer – i fratelli
Francesco
e
Salvatore
Maggio
– si
erano
nascosti,
travestiti
da
carabinieri,
nella
casa
disabitata
di
Agostino
Barbaccia,
vicino
dei
Pecoraro.
Fecero
irruzione
a
casa
delle
vittime
e
cominciarono
a
sparare.
In
casa
c’erano
Francesco,
il
padre,
la
moglie
Francesca
ed
il
bambino
Antonio,
oltre
che
Demetrio
Pecorino.
I colpi di fucile e lupara
raggiunsero
Pecorino
alle
gambe
e
Francesco
e
Antonino
al
torace.
Il
bambino
sarebbe
morto
due
giorni
dopo.
Udendo
gli
spari,
l’altro
figlio,
Vincenzo,
che
in
quel
momento
si
trovava
nella
stalla,
accorse,
ma
venne
falciato
pure
lui.
I
killer
avrebbero
fatto
carriera,
portando
a
temine
numerosi
delitti
e
agguati
nel
palermitano
e
nel
trapanese.
Un
destino
segnato
Faceva molto freddo il
19
gennaio
1961
sulle
pendici
del
monte
Billemi,
a
Tommaso
Natale,
borgata
di
Palermo.
Stava
quasi
per
nevicare.
Ma
ciò
non
scoraggiò
i
killer
del
tredicenne
Paolino
Riccobono.
I
primi
due
colpi
lo
raggiunsero
al
petto.
Lui
tentò
di
scappare,
ma
altre
due
fucilate
alle
spalle
lo
stesero
definitivamente.
Era
un
predestinato
Paolino.
Il
padre
era
stato
ucciso
il
16
novembre
1957,
suo
fratello
Giuseppe
era
stato
sequestrato
ed
ucciso
nel
1960.
Uno
sterminio
frutto
della
faida,
che
andava
avanti
dal
1953,
tra
le
famiglie
di
Tommaso
Natale
e di
Cardillo.
Nel ’66, un pentito ante
litteram,
Simone
Mansueto,
dichiarò
di
conoscere
i
nomi
degli
assassini
del
piccolo
Paolino.
Venne
insultato,
vituperato,
emarginato
persino
dalla
moglie
e
dichiarato
pazzo.
Molti anni dopo lo si
vedeva
andare
al
Palazzo
di
Giustizia
per
chiedere
qualche
spicciolo
a
Cesare
Terranova,
uno
dei
pochi
che
aveva
creduto
alla
sua
versione.
Di
lui
si è
persa
ogni
traccia.
Per
l’uccisione
di
Paolino
venne
condannato
a
trent’anni
Giovanni
Chifari,
soprannominato
“crozza
munnata”
(cranio
sbucciato,
spoglio).
Due,
ma
come
se
fossero
mille
A margine, val la pena
ricordare
altri
due
ragazzi.
Anzi
due
giovani
uomini.
Entrambi
ventiseienni,
entrambi
figli
di
piccoli
imprenditori,
entrambi
uccisi
mentre
si
trovavano
in
macchina
con
le
rispettive
fidanzate
ed
entrambi
ammazzati
nel
gennaio
1986,
ad
otto
giorni
di
distanza
l’uno
dall’altro:
prima
Paolo
Bottone
e
poi
Francesco
Alfano.
Paolo venne freddato il
21
gennaio
1986.
Era
figlio
di
un
imprenditore
di
un’azienda
metalmeccanica.
Si
era
appartato
con
la
fidanzata,
Angela
D’Amelio,
in
via
De
Saliba,
vicino
all’ufficio
di
collocamento.
Era
un
posto
noto
perché
frequentato
da
coppiette.
Due uomini armati si
avvicinarono
all’auto,
aprirono
lo
sportello
di
guida
e
puntarono
le
pistole
contro
i
due
fidanzati.
Poi
uno
dei
due
si
rivolse
alla
ragazza:
“tu
non
muoverti
– le
disse
–
voltati
e
non
guardare.”
L’altro sparò un colpo
secco
al
collo
di
Paolo.
Che
morì
immediatamente.
Angela,
illesa,
si
gettò
sul
corpo
del
fidanzato,
poi
scese
in
cerca
di
aiuto,
intanto
le
altre
coppiette
erano
fuggite.
Perché venne ucciso Paolo?
Gli
inquirenti
seguirono
la
pista
degli
appalti:
il
padre
forse
si
era
aggiudicato
qualche
commessa
che
non
avrebbe
dovuto
vincere.
Chissà.
Nei giorni successivi, i
muri
di
Palermo
furono
tappezzati
da
manifesti
con
la
foto
dei
due
fidanzati
abbracciati
e un
messaggio
che
offriva
una
ricompensa
per
chiunque
fornisse
elementi
per
far
luce
sul
delitto.
Erano stati affissi dal
padre,
ma
nessuno
si
fece
vivo.
E
nessuno
ha
mai
pagato
per
quel
delitto.
Stessa dinamica e stessa
tecnica
servirono
per
eliminare
Francesco
Alfano.
Era
il
29
gennaio
dello
stesso
1986.
Francesco
era
andato
a
trovare
la
fidanzata
Germana
Ferreri
all’Addaura,
residenza
estiva
della
famiglia
di
lei.
Aveva appena finito di
allenare
la
sua
squadretta
di
calcio,
la
Virma.
Quando
decisero
di
uscire
per
una
passeggiata
in
centro,
salirono
sulla
Seat
Ibiza
di
Francesco,
parcheggiata
in
via
Gualtiero
da
Caltagirone.
Fu
allora
che
dal
buio
spuntò
un
uomo
che
si
avvicinò
alla
vettura
e
sparò
quattro
colpi
di
pistola
contro
il
finestrino
lato
guida.
Francesco
non
morì
subito.
Il killer infilò una
mano
ed
esplose
altri
colpi
per
finirlo.
Anche
Germana
venne
ferita.
Gli
spari
richiamarono
l’attenzione
del
padre
della
ragazza,
Ippolito,
che
corse
in
strada
e
trovò
la
forza
per
soccorrere
la
figlia
e
trasportarla
in
ospedale.
Francesco
era
già
morto.
Come
Paolo
era
un
ragazzo
normale,
pulito,
attivo.
Il
padre
era
titolare
di
una
piccola
industria
del
ferro.
Francesco
lavorava
in
proprio.
Era
stato
rappresentante
di
vini
e di
articoli
di
cuoio
e
dava
una
mano
come
cameriere
nel
ristorante
del
padre
di
Germana.
E
poi
il
suo
hobby:
il
calcio
e la
squadretta
che
allenava
con
serietà
e
passione.
Anche
per
il
suo
omicidio
non
si
sono
trovati
killer
e
mandanti.
Basta
un
ricordo
Morire è tremendo, ma
l’idea
di
morire
senza
avere
nemmeno
vissuto
dovrebbe
essere
insopportabile.
O
no?
Eppure i vivi dimenticano.
Dimenticano
tutto.
Dimenticano
che
spesso
i
bambini,
i
ragazzi
periti,
uccisi,
massacrati,
erano
solo
innocenti
che
non
temevano
e
vedevano
pericoli
perché
non
conoscevano
peccati
e
malizia.
Oggi, questa umanità
recisa
prematuramente
da
certe
mani
assassine
avrebbe
35,
40,
forse
anche
50
anni.
Ma cosa avrebbe potuto
costruire
nel
corso
di
questa
vita
non
vissuta?
A
quanta
felicità,
amore,
dolore,
a
quanti
patemi,
soddisfazioni,
desideri
hanno
dovuto
rinunciare?
A
quante
persone
avrebbero
potuto
essere
utili,
da
quante
amate,
coccolate,
sognate?
Chissà. Il peggior peccato
contro
i
nostri
simili
non
è
l’odio,
la
gelosia
o la
vendetta,
ma
l’indifferenza.
È questa l’essenza dell’inumanità.
E
noi
non
vogliamo
esserne
complici.