Michail Alexandrovič bakunin, dio e
lo stato
(nota: tratto da "Dio e lo Stato",
Edizioni “RL”, Pistoia 1974)
Dio appare, l'uomo si annienta; e più la
Divinità si fa grande, più l'umanità
diventa miserabile. Ecco la storia di
tutte le religioni: ecco l’effetto di
tutte le ispirazioni e di tutte le
legislazioni divine. Nella storia, il
nome di Dio è la terribile vera clava
con la quale tutti gli uomini
divinamente ispirati, i "grandi geni
virtuosi", hanno abbattuto la libertà,
la dignità, la ragione e la prosperità
degli uomini.
Abbiamo avuto prima la caduta di Dio.
Abbiamo ora una caduta che c'interessa
assai più: quella dell’uomo, causata
dalla sola apparizione di Dio o
manifestazione sulla terra. Vedete
dunque in quale orrore profondo si
trovano i nostri cari ed illustri
idealisti. Parlandoci di Dio, essi
credono e vogliono elevarci,
emanciparci, nobilitarci, ed al
contrario ci schiacciano e ci
avviliscono. Col nome di Dio, essi
immaginano di poter edificare la
fratellanza fra gli uomini, ed invece
creano l’orgoglio e il disprezzo,
seminano la discordia, l’odio, la
guerra, fondano la schiavitù.
Perché con Dio vengono necessariamente i
diversi gradi d’ispirazione divina;
l’umanità si divide in uomini
ispiratissimi, meno ispirati, non
ispirati.
Tutti sono egualmente nulla davanti a
Dio, è vero, ma confrontati, gli uni
agli altri, alcuni sono più grandi degli
altri; non solamente di fatto, ciò che
non avrebbe importanza perché una
ineguaglianza di fatto si perde da se
stessa nella collettività quando non può
afferrarsi ad alcuna finzione o
istituzione legale; ma alcuni sono più
grandi degli altri per volere del
diritto divino dell’ispirazione: il che
costituisce subito una in eguaglianza
fissa, costante, pietrificata.
I più ispirati devono essere ascoltati
ed obbediti dai meno ispirati e questi
dai non ispirati.
Ecco il principio di autorità ben
stabilito e con esso le due istituzioni
fondamentali della schiavitù: la Chiesa
e lo Stato.
Io sono veramente libero solo quando
tutti gli esseri umani che mi
circondano, uomini e donne, sono
anch'essi liberi. La libertà degli
altri, lungi dall’essere un limite o la
negazione della mia libertà, ne è invece
la condizione necessaria e la conferma.
Divento veramente libero solo con la
libertà degli altri, di modo che più
numerosi sono gli esseri liberi che mi
circondano e più estesa e più ampia
diventa la mia libertà.
La schiavitù degli uomini, al contrario,
è di ostacolo alla mia libertà, o, ciò
che è la stessa cosa, è la loro
bestialità che è una negazione della mia
umanità perché ancora una volta non
posso dirmi veramente libero se non
quando la mia libertà o, se si vuole,
quando la mia dignità di uomo, il mio
diritto umano (il quale consiste nel non
ubbidire a nessun altro uomo ed a
determinare le mie azioni conformemente
alle mie intime convinzioni) riflessi
dalla coscienza egualmente libera di
tutti, mi ritornano raffermati
dall’approvazione di tutti.
In tal modo la mia libertà personale,
assicurata dalla libertà di tutti, si
estende all’infinito.
E’ facile constatare, dunque, che la
libertà, così come viene concepita dai
materialisti, è una cosa assai positiva,
assai complessa e soprattutto sociale,
perché non può essere realizzata che
dalla società e soltanto nella più
stretta uguaglianza e solidarietà di
ciascuno con tutti. In questa libertà si
possono distinguere tre momenti di
sviluppo, tre elementi, di cui il primo,
che è superlativamente positivo e
sociale, consiste nel pieno sviluppo e
nel pieno godimento, per ciascuno, di
tutte le facoltà e di tutte le
attitudini umane attraverso
l’educazione, l’istruzione scientifica e
la prosperità materiale, beni questi che
possono essere dati solo dal lavoro
collettivo, materiale ed intellettuale,
muscolare e cerebrale, dell’intera
società.
Il secondo elemento o momento della
libertà è negativo.
E’ quello della rivolta dell’individuo
umano contro ogni autorità divina e
umana, collettiva e individuale.
Innanzitutto è la rivolta contro la
tirannia del fantasma supremo della
teologia, contro Dio. E’ evidente che
sino a quando avremo un padrone in
cielo, saremo schiavi sulla terra. La
nostra ragione e la nostra volontà
saranno ugualmente annientate.
Sino a quando crederemo di dovere
obbedienza assoluta a Dio - e non esiste
altra obbedienza di fronte ad un Dio -
dovremo necessariamente ed acriticamente
sottometterci alla santa autorità dei
suoi intermediari e dei suoi eletti:
messia, profeti e legislatori ispirati
da lui; imperatori, re e tutti i loro
funzionari e ministri, rappresentanti e
sacri servitori delle due grandi
istituzioni - la Chiesa e lo Stato -
imposte perché stabilite dallo stesso
Dio per dirigere gli uomini.
Ogni autorità temporale o umana promana
direttamente dall’autorità spirituale o
divina. Ma, poiché l’autorità è la
negazione della libertà, Dio, o
piuttosto, la finzione di Dio, è quindi
la consacrazione e la causa
intellettuale e morale di ogni schiavitù
sulla terra, e la libertà degli uomini
sarà piena solo allorquando essa avrà
completamente distrutto la nefasta
finzione di un padrone celeste.
Successivamente e conseguentemente c’è
la rivolta di ciascuno contro la
tirannia degli uomini, contro l’autorità
sia individuale e sia sociale
rappresentata e legalizzata dallo Stato.
A questo punto, per meglio intendersi, è
bene fare una netta distinzione tra
l’autorità ufficiale e di conseguenza
tirannica, della società organizzata in
Stato, e l’influenza e l’azione naturale
della società non ufficiale, ma naturale
su ciascuno dei suoi membri.
Per l’individuo la rivolta contro questa
influenza naturale della società è molto
più difficile della rivolta contro la
società ufficialmente organizzata,
contro lo Stato, sebbene spesso la prima
rivolta sia tanto inevitabile quanto lo
è la seconda. La tirannia sociale,
spesso opprimente e funesta, non
presenta quel carattere di violenza
imperativa, di dispotismo legalizzato e
formale che distingue l’autorità dello
Stato. Essa non viene imposta come una
legge alla quale ogni individuo deve
obbedire sotto pena d’incorrere in un
castigo; la sua azione è più mite, più
insinuante, più impercettibile, ma tanto
più vigorosa di quella dell’autorità
dello Stato. Essa domina gli uomini con
le consuetudini, le usanze, con
l’insieme dei sentimenti, dei pregiudizi
e delle abitudini della vita materiale,
intellettuale, affettiva e che
costituiscono ciò che viene chiamata la
pubblica opinione.
Essa avviluppa l’uomo dalla sua nascita,
lo ferisce profondamente, lo penetra e
forma la base stessa della sua esistenza
individuale, cosicché ciascuno ne è più
o meno ed in certo qual modo il complice
contro se stesso e, molto spesso, senza
che ne abbia il sospetto.
Ne deriva che, per ribellarsi contro
questa influenza che la società esercita
sopra di lui, l’uomo deve almeno in
parte ribellarsi contro se stesso,
giacché, con tutte le sue tendenze e le
sue aspirazioni materiali, intellettuali
e morali, esso non è altro che il
prodotto della società. L’immenso potere
esercitato sugli uomini dalla società
deriva appunto da ciò. Dal punto di
vista della morale assoluta, cioè da
quello del rispetto umano - e dirò tra
poco che cosa io intenda con questa
espressione - questo potere della
società può essere benefico oppure anche
nocivo. E’ benefico quando tende allo
sviluppo del sapere, della prosperità
materiale, della libertà,
dell’uguaglianza e della fraterna
solidarietà degli uomini; è dannoso
quando ha inclinazioni contrarie.
Un uomo nato in una società di bruti,
resta, salvo rarissime eccezioni, un
bruto; nato in una società governata dai
preti, diventa un idiota, un bigotto;
nato in una banda di ladri diventerà
probabilmente un ladro; nato nella
borghesia, sarà uno sfruttatore del
lavoro altrui; e se ha la sfortuna di
nascere nella società dei semidei che
governano questa terra - nobili,
principi, figli di re - sarà, a seconda
delle sue capacità, dei suoi mezzi e
delle sue forze, uno spregiatore, un
oppressore dell’ umanità, un tiranno.
In tutti questi casi, l’umanizzazione
dell’individuo, la sua ribellione contro
la società che lo ha visto nascere
diviene indispensabile.
Ma, ripeto, la ribellione dell’individuo
contro la società è ben più difficile
della sua ribellione contro lo Stato.
Lo Stato, infatti, è una istituzione
storica, transitoria, una forma effimera
della società - allo stesso modo della
Chiesa, di cui lo Stato è il fratello
primogenito - e non ha il carattere
fatale ed immutabile della società, la
quale è anteriore a tutti gli sviluppi
dell’umanità e che, essendo pienamente
partecipe delle leggi, dell’azione e
delle manifestazioni naturali,
costituisce la base stessa di ogni umana
esistenza. L'uomo, almeno dopo che ha
fatto il primo passo verso l’umanità,
dopo che ha incominciato a divenire un
essere umano, cioè un essere più o meno
parlante e pensante, nasce nella
società, come la formica nasce nel suo
formicaio e l’ape nel suo alveare;
l’uomo non sceglie la società, ne è, al
contrario, il prodotto ed è quindi anche
fatalmente sottoposto alle leggi
naturali che presiedono ai suoi sviluppi
necessari, così come obbedisce a tutte
le altre leggi naturali.
La società, come la natura, è anteriore
e contemporaneamente sopravvive a
ciascun individuo umano; essa è eterna
come la natura; o, meglio, dato che è
nata sulla terra, essa durerà tanto
quanto durerà la nostra terra.
Una rivolta radicale contro la società
sarebbe altrettanto impossibile quanto
una rivolta contro la natura, giacché la
società umana non è altro che l’ultima
grande manifestazione o creazione della
natura su questa terra; e un individuo
che volesse mettere in dubbio la
società, cioè la natura in generale e
specialmente la propria natura, si
porrebbe per ciò stesso al di fuori di
tutte le condizioni di una esistenza
reale, si getterebbe nel nulla, nel
vuoto assoluto, nella morta astrazione,
in Dio.
Non ci si può quindi chiedere se la
società sia un bene o un male, allo
stesso modo come è impossibile chiedere
se la natura, l’essere universale,
materiale, reale, unico, supremo,
assoluto, sia un bene o un male; è più
del bene e del male, è un immenso fatto
positivo e primitivo anteriore ad ogni
coscienza, ad ogni idea, ad ogni
apprezzamento intellettuale e morale, è
la base stessa, è il mondo in cui
fatalmente e successivamente si sviluppa
per noi ciò che chiamano il bene e il
male. Non è così per lo Stato e non
esito a dire che lo Stato è il male, ma
un male storicamente necessario, tanto
necessario nel passato quanto sarà prima
o poi necessaria la sua estinzione,
tanto necessario quanto necessarie sono
state la bestialità primitiva e le
divagazioni teologiche degli uomini.
Lo Stato non è la società, ne è solo una
forma tanto violenta quanto astratta. Lo
Stato è sorto storicamente in tutti i
paesi dal connubio della violenza, della
rapina, del saccheggio, cioè della
guerra e della conquista, con gli Dei
creati successivamente dalla fantasia
teologica delle nazioni.
Sin dalle origini, lo Stato ha
rappresentato, e rappresenta ancora
attualmente, la sanzione divina della
forza brutale e dell’iniquità
trionfante. Ed anche nei paesi più
democratici, come gli Stati Uniti
d’America e la Svizzera è la
consacrazione normale del privilegio
d’una qualsiasi minoranza e del reale
asservimento dell’immensa maggioranza.
La rivolta è molto più facile contro lo
Stato perché c’è nella natura stessa di
esso qualcosa che spinge alla rivolta.
Lo Stato è l’autorità, è la forza, è
l’ostentazione e l’esaltazione della
forza.
Esso non si insinua dolcemente, né cerca
di trasformare: e tutte le volte che
esso tenta di farlo, lo fa con grande
sgarbataggine, giacché la sua natura non
è quella di persuadere, ma d’imporsi, di
usare violenza, e vana risulta la
preoccupazione di mascherare la sua
essenza sia di manomissore legale della
volontà degli uomini e sia di negatore
permanente della loro libertà.
Anche quando comanda il bene, esso lo
deprime e lo guasta, appunto perché lo
impone e perché ogni imposizione provoca
e suscita le legittime ribellioni della
libertà; e perché il bene quando viene
imposto, dal punto di vista della vera
morale umana e non già divina, diventa
il male.
La libertà, la moralità e la dignità
umana sono tali solo in quanto l’uomo fa
il bene non perché gli viene imposto, ma
perché lo sente, perché lo vuole, perché
lo desidera.
La società, invece, non viene imposta
formalmente, ufficialmente,
autoritariamente, ma s’impone
naturalmente ed è appunto per questo
motivo che la sua azione sull’individuo
è incomparabilmente più potente di
quella dello Stato. Essa crea e forma
tutti gli individui che nascono e si
sviluppano nel suo seno. Essa travasa
nei singoli, dal primo giorno della
nascita fino a quello della loro morte,
tutta la sua natura materiale,
intellettuale e morale, e
s’individualizza, per così dire, in
ciascuno di essi.
L’individuo umano reale è così poco un
essere universale ed astratto che
ciascuno, sin dal momento in cui si
forma nel ventre materno, si trova già
determinato e condizionato da una
quantità di cause e di azioni materiali,
geografiche, climatologiche,
etnografiche, igieniche e,
conseguentemente, economiche, che
costituiscono precisamente la natura
materiale esclusiva e particolare della
sua famiglia, della sua classe, della
sua nazione, della sua razza, e, per
quanto le inclinazioni e le attitudini
degli uomini dipendano dall’insieme di
tutte queste influenze esteriori o
fisiche, ciascuno nasce con una natura o
un carattere individuale materialmente
determinato.
Inoltre, a causa dell’organizzazione
relativamente superiore del cervello
umano, ogni uomo, nascendo, possiede
d’altronde gradi diversi, non di idee e
di sentimenti innati come pretendono gli
idealisti, ma di capacità, sia materiale
che formale, di sentire, di parlare e di
volere.
L’uomo porta con sè soltanto la facoltà
di formare e di sviluppare le idee,
nonché, per come dirò, un potere di
attività del tutto formale, senza alcun
contenuto. Ed è precisamente la società
che dà a questa sua attività il primo
contenuto.
Non è questa la sede più opportuna per
ricercare come si siano formate le prime
cognizioni e le prime idee, la maggior
parte delle quali furono naturalmente
assai false nelle società primitive.
Tutto ciò che possiamo dire con piena
certezza è che esse non sono state
generate isolatamente, spontaneamente
dalla mente miracolosamente illuminata
di individui ispirati, bensì dal lavoro
collettivo, il più delle volte
impercettibile, della mente di tutti gli
individui che appartennero a quelle
società; di quelle idee gli individui
più ragguardevoli, gli uomini di genio,
han potuto dare soltanto la più fedele o
la più fortunata espressione, in quanto
gli uomini di genio, hanno fatto sempre
come Molière, cioè “hanno preso il loro
bene dovunque essi lo trovassero”.
E’ quindi il lavoro collettivo delle
società primitive che ha creato le prime
idee. Dapprima, queste idee furono
soltanto semplici constatazioni,
naturalmente assai imperfette, dei fatti
naturali e sociali, e deduzioni ancor
meno esatte derivate da quei fatti. Tale
fu l’inizio di tutte le
rappresentazioni, immaginazioni e
pensieri umani.
Il contenuto di questi pensieri non è
stato creato da un’azione spontanea
dello spirito umano, bensì fu dato
dapprima a quest’ultimo dal mondo reale
sia esteriore che interiore.
Allo spirito dell'uomo, cioè al lavoro o
al funzionamento completamente organico
e, di conseguenza, materiale del suo
cervello, provocato dalle impressioni
tanto esterne che interne trasmessegli
dalle sue fibre, si aggiunse un’azione
del tutto formale, consistente nel
comparare e nel combinare queste
impressioni delle cose e dei fatti in
sistemi esatti o falsi.
Così nacquero le prime idee. Queste idee
o, meglio, queste prime immaginazioni si
precisarono per mezzo della parola e si
fissarono comunicandosi da un individuo
umano all’altro, per modo che le
immaginazioni individuali, di ciascuno
si modificarono, si completarono
scambievolmente e, mescolandosi più o
meno in un sistema unico, finirono col
formare la coscienza comune, il pensiero
collettivo della società.
Questo pensiero, tramandato attraverso
la tradizione da una generazione
all’altra, e sviluppandosi sempre di più
col lavoro intellettuale dei secoli,
costituisce il lavoro intellettuale e
morale d'una società, d'una classe,
d'una nazione.
Ogni generazione nuova trova già nella
sua culla tutto un mondo d'idee,
d’immaginazioni e di sentimenti che essa
riceve in eredità dai secoli passati.
All’uomo novellamente nato, questo mondo
dapprima non si presenta sotto la sua
forma ideale, cioè come sistema di
rappresentazioni e d'idee, come
religione, come dottrina, giacché il
bambino sarebbe incapace di accettarlo e
comprenderlo sotto questa forma; ma
s’impone a lui come un mondo di fatti
incarnato e realizzato sia nelle persone
e sia in tutte le cose che lo circondano
comunicando ai suoi sensi tutto ciò che
egli ode e vede sin dai primi giorni
della sua esistenza. E ciò perché le
idee e le rappresentazioni umane (le
quali dapprima sono soltanto i prodotti
dei fatti reali, sia naturali e sia
sociali, nel senso che ne sono stati il
riflesso o l’eco nel cervello umano e la
riproduzione per così dire ideale e più
o meno esatta di questi fatti a mezzo di
quell’organo assolutamente materiale del
pensiero umano) acquistano nella
coscienza collettiva di una qualsiasi
società solo successivamente, dopo che
sono ben fissate nel modo che sto per
spiegare, la forza per divenire a loro
volta cause produttive di fatti nuovi,
non precisamente naturali, ma sociali.
Esse finiscono per modificare e per
trasformare, sia pure molto lentamente,
l’esistenza, le abitudini e le
istituzioni umane, cioè, in breve, tutti
i rapporti degli uomini nella società e,
con la loro incarnazione nelle cose più
quotidiane della vita di ognuno, esse
diventano sensibili, palpabili per
tutti, anche per i bambini.
Avviene così che ogni nuova generazione
se ne compenetra sin dalla più tenera
infanzia e che, quando perviene all’età
virile, in cui inizia precisamente
l’elaborazione del proprio pensiero,
necessariamente accompagnata da una
nuova critica, questa novella
generazione, trova in se stessa, oltre
che nella società che la circonda, tutto
un mondo di pensieri o di
rappresentazioni consolidate, che le
servono di punto di partenza e che le
danno in certo qual modo la prima
sostanza o il materiale per il proprio
lavoro intellettuale e morale. Di questo
tipo sono le immaginazioni tradizionali
e comuni che i metafisici, ingannati dal
mondo del tutto insensibile ed
impercettibile con cui, provenendo dal
di fuori, esse penetrano e s’imprimono
nel cervello dei bambini, ancor prima
che siano pervenuti alla coscienza di se
stessi, chiamano falsamente idee innate.
Tali sono le idee generali od astratte
sulla divinità e sull'anima, idee
completamente assurde, ma inevitabili,
fatali nello sviluppo storico dello
spirito umano il quale, pervenendo
soltanto molto lentamente ed attraverso
i secoli alla conoscenza razionale e
critica di se e delle proprie
manifestazioni, parte sempre
dall’assurdo per giungere alla verità e
dalla schiavitù per conquistare la
libertà; idee approvate dall’ignoranza
generale e dalla stupidità dei secoli,
oltre che dall’interesse ben calcolato
delle classi privilegiate, al punto che,
ancora attualmente, non ci si saprebbe
pronunciare apertamente e con un
linguaggio contro di esse, senza
provocare lo sdegno di una notevole
parte delle masse popolari e senza
correre il pericolo di essere lapidati
dall’ipocrisia borghese.
Oltre a queste idee del tutto astratte,
con le quali è sempre in contatto molto
stretto, perché le trova nella società,
l’adolescente, in conseguenza
dell’influenza assai massiccia
esercitata da quest’ultima sulla sua
infanzia, trova in se stesso anche una
quantità di altre rappresentazioni od
idee molto più determinate e che
riguardano più da vicino la vita reale e
l’esistenza quotidiana dell’uomo.
Tali sono le rappresentazioni sulla
natura e sull’uomo, sulla giustizia, sui
doveri e sui diritti degli individui e
delle classi, sulle convenienze sociali,
sulla famiglia, sulla proprietà, sullo
Stato e molte altre ancora che regolano
i rapporti degli uomini tra loro. Tutte
queste idee che l'uomo, nascendo, trova
incarnate nelle cose e negli uomini e
che s’imprimono nella sua mente
attraverso l’educazione e l’istruzione
che riceve, ancor prima che sia
pervenuto alla conoscenza di se, esso le
ritrova successivamente consacrate,
spiegate, commentate dalle teorie che
esprimono la coscienza universale o il
pregiudizio collettivo e da tutte le
istituzioni religiose, politiche ed
economiche della società di cui fa
parte. E l'uomo ne è impregnato a tal
punto che, interessato o meno a
difenderle, ne è involontariamente il
complice, con tutte le sue abitudini
materiali, intellettuali e morali.
Ciò di cui bisogna meravigliarsi non è
tanto l'azione assai vigorosa esercitata
sulla massa degli uomini da parte di
queste idee che esprimono la coscienza
collettiva della società, quanto,
invece, che si trovino, in questa massa,
degli individui che hanno il proposito,
la volontà ed il coraggio di
combatterle.
Giacché, essendo la pressione della
società sull’individuo immensa, non c’è
carattere tanto forte, né intelligenza
tanto poderosa che possano dirsi al
riparo dagli assalti di questa influenza
tanto dispotica quanto ineluttabile.
Nulla prova meglio il carattere sociale
dell’uomo quanto la detta influenza. Si
direbbe che la coscienza collettiva di
una qualsiasi società, incarnata sia
nelle grandi istituzioni pubbliche e sia
in tutte le minuzie della sua vita
privata e che serve di base a tutte le
sue teorie, formi una specie di
ambiente, d'atmosfera intellettuale e
morale, nocivo ma assolutamente
necessario all’esistenza di tutti i suoi
membri. Questa coscienza collettiva li
domina e nello stesso tempo li sostiene,
collegandoli tra loro con rapporti
consuetudinari e necessariamente da essa
determinati; infondendo a ciascuno la
sicurezza, la certezza e costituendo per
tutti la condizione suprema
dell’esistenza dell’enorme massa, la
banalità, il luogo comune, la routine.
La maggioranza degli uomini,
appartenenti non soltanto alle masse
popolari, ma alle classi privilegiate
che sono spesso più colte delle masse,
si sentono tranquilli ed in pace con se
stessi solo quando, nei pensieri ed in
tutte le azioni della loro vita, seguono
fedelmente, ciecamente, la tradizione e
la consuetudine. “I nostri padri hanno
pensato ed agito cosi, perché dovremmo
pensare ed agire diversamente da tutti
gli altri?”. Queste parole esprimono la
filosofia, la convinzione e la pratica
del 99% dell’umanità, presa
indifferentemente in tutte le classi
della società. E, per come ho già
rilevato, ciò costituisce il più grande
ostacolo al progresso ed
all’emancipazione più rapida della
specie umana.
Quali sono le cause di questa lentezza
desolante e così vicina alla stasi che
costituisce, a mio giudizio, la più
grande sciagura dell’umanità? Le cause
sono molteplici ed una di esse, tra le
più considerevoli certamente, è
l'ignoranza delle masse. Private
generalmente e sistematicamente di ogni
educazione scientifica, grazie alle
paterne cure di tutti i governi e delle
classi privilegiate le quali traggono
utilità nel mantenerle il più a lungo
possibile nell’ignoranza nella devozione
e nella fede - tre sostantivi che
esprimono all’incirca la stessa cosa -
le masse non conoscono neppure
l’esistenza e l’uso di quello strumento
di emancipazione intellettuale che si
chiama critica, senza la quale è
impossibile una completa rivoluzione
morale e sociale.
Le masse che hanno tutto l’interesse a
ribellarsi contro lo ordine stabilito
delle cose, sono ancora più o meno
legate ad esso a causa della religione
dei loro padri, che è la provvidenza
delle classi privilegiate.
Le classi privilegiate - che non hanno
più oggigiorno né la devozione né la
fede, anche se dicono il contrario -
sono a loro volta, legate a quest’ordine
di cose a causa del loro interesse
politico e sociale. Tuttavia non è
possibile affermare categoricamente che
soltanto il detto interesse sia la
ragione del loro vivo attaccamento alle
idee dominanti.
Quale che sia la mia opinione negativa
circa il valore attuale, intellettuale e
morale, di queste classi, non posso però
ammettere che il solo interesse sia il
movente dei loro pensieri e delle loro
azioni.
In ogni classe ed in ogni partito esiste
indubbiamente un gruppo più o meno
numeroso di profittatori intelligenti,
audaci e scrupolosamente disonesti,
chiamati uomini forti, liberi da ogni
pregiudizio intellettuale e morale,
egualmente indifferenti a tutti i
princìpi, di cui però si servono, all’
occorrenza, per ottenere il loro scopo.
Ma questi uomini forti, sono in seno
alle classi più corrotte, solo una
infima minoranza, giacché la maggioranza
è pecoresca come lo è la maggioranza in
seno al popolo.
Essa subisce naturalmente l’influenza
dei propri interessi che fanno della
reazione una condizione di esistenza. Ma
è impossibile ammettere che, facendo
della reazione, essa obbedisca solamente
ad un sentimento egoistico. Una gran
massa d’uomini, sia pure parzialmente
corrotti, quando agisce collettivamente,
non saprebbe essere così depravata.
In ogni associazione numerosa e, a
maggior ragione, nelle associazioni
tradizionali e storiche come le classi,
sia pure giunte al punto da essere
divenute assolutamente malefiche e
contrarie all’interesse ed al diritto di
tutti, esiste un principio di moralità,
una religione, una credenza qualsiasi,
certamente pochissimo razionali, il più
sovente ridicole e, di conseguenza,
molto grette ma sincere e che
costituiscono la condizione morale
indispensabile della loro esistenza.
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