[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 153 / SETTEMBRE 2020 (CLXXXIV)


antica

SULLA BAGAUDA GALLICA

LA CONSTITUTIO ANTONINIANA E LA POLITICA AGRARIA TETRARCHICA

di Giulio Vescia

 

Il termine della cosiddetta crisi del III secolo viene convenzionalmente fatta coincidere con l’ascesa al potere del generale illirico C. Aurelio Valerio Diocleziano. Tale evento è di straordinaria rilevanza storica in quanto segna il passaggio alla fase tardoantica della storia imperiale, in cui vengono stravolti gli ordinamenti amministrativi e sociali augustei.

 

Il programma politico di Diocleziano si sostanziava principalmente nel rafforzamento e difesa dei confini, oltre che nella stabilità politica all’interno di un impero che durante il III secolo aveva visto susseguirsi innumerevoli imperatori appartenenti al ceto militare: l’instabilità politica insieme alle costanti pressioni barbariche e a un’incipiente crisi demografica ed economica portarono alla frantumazione dell’impero e alla nascita di “imperi regionali” quali l’imperum Galliarum o il regno di Palmira, durante il regno di Gallieno.

 

In questo senso Diocleziano comprese fin dai primi anni di regno che questa politica sarebbe stata inattuabile senza una riorganizzazione interna del governo delle province di frontiera: riorganizzazione che si intravede con l’ideologia tetrarchica, tentativo di regolare la successione interna e di mantenere uno stabile controllo militare in tutto l’impero, grazie alla presenza di quattro figure imperiali. In particolare, furono le province germaniche e galliche a essere teatro delle maggiori azioni militari, sia contro gentes externae sia nei confronti delle popolazioni autoctone.

 

In questi territori si erano susseguite crisi economiche e carestie, conseguenze della distruzione dei campi e dell’incuria causate dalle invasioni barbariche e dalle usurpazioni militari. Il ceto medio-basso dei contadini e piccoli proprietari terrieri fu indubbiamente lo strato sociale più colpito da queste crisi, e nel 285 l’insofferenza popolare fu tale che si arrivò a una rivolta armata.

 

Questa attività di ribellione contadina, in qualche modo simile, anche per contesto geografico, alla Jaquerie trecentesca, è nota con il nome di Bagaudae/Bacaudae, e si verifica in due contesti diversi: prima verso la fine del III secolo, successivamente oltre un secolo dopo, agli inizi del V secolo, sempre in territorio gallico.

 

Le prime testimonianze sono fornite da Aurelio Vittore ed Eutropio. Il nome riportato del movimento è di origine celtica, possiamo ritenerlo per questo motivo un fenomeno della Gallia rurale. Come sostiene Valerio Neri, oggi è grandemente diffusa l’idea che il nome corretto sia Bagaudae dovuto alla radice celtica Bag, attestata anche in contesti irlandesi.

 

Un’altra fonte fondamentale che riflette il pensiero e la visione degli eventi da parte del ceto dominante, è costituita dai panegirici gallici. In particolare, il panegirico scritto da Mamertino in onore di Massimiano, pur non riportando nominando direttamente i bagaudi, fornisce informazioni importanti sul fenomeno. Nella descrizione della rivolta, traspare la caratterizzazione guerriera del movimento, e nel panegirico i contadini si trasformano in cavalieri e fanti, diventando quasi dei mostri per l’autore, mentre nel passo successivo viene riportato che i ribelli devastavano i campi dei barbari, definiti nemici.

 

Data la relativa scarsità delle fonti, risulta difficile comprendere e delineare una tattica esatta all’interno del movimento bagaudico. Valerio Neri sostiene la tattica della terra bruciata attuata dai rivoltosi nell’insieme di una strategia di guerriglia nei confronti di un hostis barbarus, come sembra indicare Mamertino.

 

Luca Montecchio ha, al contrario, sostenuto la tesi del movimento bagaudico come lotta contadina contro i potentes galli, bruciando quindi le terre che essi lavoravano in qualità di coloni, in una chiave di lettura di rivolta sociale. Seguendo questo pensiero, occorre a mio avviso evidenziare la trasformazione sociale in atto nell’impero a partire dal III secolo che segue la Constitutio Antoniniana.

 

Nel 212 l’imperatore Caracalla estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Questa disposizione risulta ancora oggi controversa, poiché da un lato è stata lodata sia da autori antichi che moderni, che vedevano in essa una sorta di livellamento generale delle condizioni dei cives. La constitutio rimane un segno di contraddizione, interpretabile come segno di uguaglianza all’interno dell’impero, ma anche come prototipo giuridico di regime dispotico caratterizzante l’età tardo antica.

 

Legalizzando de facto una situazione già esistente, l’editto ebbe come conseguenza lo sviluppo verticale della società, andando ad accentuare il divario tra honestiores, senatori e grandi proprietari terrieri situati al vertice della scala sociale, e humiliores, la più umile classe contadina e plebe urbana.

 

I termini “honestiores” e “humiliores” sono giuridicamente utilizzati in età tardo antica per indicare le differenze di diritti tra le due classi, differenze che riguardavano ad esempio pene corporali, dalle quali il gruppo di vertice era esentato, mentre ai cittadini di basso rango spettava la damnatio ad bestias, oltre che la crocifissione.

 

Durante il III secolo viene quindi a cessare la differenza tra cives romani e provinciali, mentre si accentua la divisione di classe, anche, come visto, nell’ambito del diritto romano, e, con la constitutio, si intraprende una conquista verticale della società. In poche parole, concedendo universalmente la cittadinanza, in un atto di ipotetica parificazione sociale, si dissolve l’uguaglianza giuridica della civitas che ha caratterizzato il diritto romano fin dall’età repubblicana. Questo fattore, insieme al declino della forza lavoro formata degli schiavi causato dalla fine di guerre di conquista, comportò cambiamenti radicali nella società agricola.

 

A partire dall’età tetrarchica i contadini liberi appartenenti al ceto medio-basso divengono progressivamente coloni dei ricchi possidenti terrieri all’interno delle villae, divise in età tardo antica in una parte gestita dal padrone, e una adibita alle coltivazioni dei coloni, andando ad anticipare la forma di controllo agricolo che fiorirà oltre due secoli dopo in territorio franco, il sistema curtense.

 

Si venne progressivamente a formare un ceto misto, di uomini giuridicamente liberi, tuttavia legati alla terra del padrone per via ereditaria. Assistiamo dunque a una trasformazione della società in età tardo antica, non più in maniera preponderante schiavista, ma composta da contadini e altri humiliores asserviti, e alla nascita quindi del fenomeno del colonato e patronato.

 

Un altro aspetto sociale che trovo particolarmente interessante in relazione all’inasprimento di divario tra i possessores e i ceti più bassi è la legislazione tardo imperiale riguardante gli agri deserti. Se la vita economica e politica in età tardo antica, e soprattutto a partire dall’età tetrarchica, è maggiormente controllata dallo stato, attraverso un inasprimento dell’apparato burocratico e un susseguirsi di riforme monetarie nonché un maggior controllo dei collegia professionali, si verificò in alcuni territori, come ad esempio in Belgica, un ingigantimento dei territori delle villae, nelle quali è possibile ipotizzare una qualche sorta di economia domestica di sussistenza o di autarchia.

 

 I possessores non erano altro che alti funzionari statali, che nel corso del IV secolo costruirono grandi patrimoni nei territori in cui espletavano le proprie funzioni, e tenendo in conto l’importanza di una città come Treviri nel IV secolo, non è casuale che nei territori sulla riva sinistra del Reno si abbiano testimonianze di numerose villae. Ma come potevano ottenere terreni per ampliare i propri territori?

 

Si è brevemente accennato al fenomeno degli agri deserti. Questo fenomeno, trattato recentemente da Simona Tarozzi, corrisponde con l’abbandono e la fuga dei coloni e dei proprietari più poveri dai terreni, sia pubblici, quindi appartenenti al patrimonio dell’imperatore, sia privati, abbandonati per non pagare le imposte che il ceto medio-basso non riusciva a sostenere, provocando gravi perdite per le casse statali.

 

La fuga era una disperata reazione alla profonda crisi sociale, e comportava la trasformazione dei medio-piccoli proprietari terrieri a coloni, sotto la protezione di un patronus. I contadini preferivano abbandonare, o in altri casi cederei propri terreni al patronus, in rari casi lavorandole sotto contratto di affitto, per non dover pagare le imposte, che erano coperte dai possessores, ai quali viene conferita un’aura di protettori del ceto contadino. Per ovviare a questo problema, lo stato dovette provvedere tramite incentivi ed esenzioni, e talvolta cercando di obbligare i vecchi proprietari a pagare le imposte.

 

Un’ampia sezione del libro undicesimo del Codex Giustinianeo contiene costituzioni appartenenti al IV secolo, dalle quali si denota la volontà dell’impero di riassegnare la cura dei territori abbandonati, concedendo anche incentivi di imposte. Era possibile ottenere un terreno tramite gestione volontaria, oppure tramite aste. Nel caso di gestione volontaria, un editto di Teodosio prevedeva che se gli antichi proprietari non fossero tornati ai propri fondi entro il maggio successivo all’emanazione dell’editto, i territori sarebbero stati affidati automaticamente ai coltivatori volontari. In assenza invece di questi ultimi, si sarebbe proceduto con un’asta per la concessione.

 

Quando tuttavia i fundi fossero stati abbandonati da tempo, e necessitassero di una messa a coltura, difficilmente si sarebbero presentate offerte. Secondo una costituzione di Valentiniano, in questi casi veniva concessa l’immunità dai tributi per almeno tre anni, al fine di incentivare la ridistribuzione di terre.

 

Sarebbe superfluo citare ogni caso giuridico riguardante la concessione di terreni abbandonati: basterà sottolineare che con i privilegi nei confronti dei volontari, lo stato sperava di fissare i proprietari terrieri alla terra, evitando l’abbandono. Nelle legislazioni imperiali non è ben chiaro chi fossero coloro che ottenevano in concessione i fundi abbandonati, ma è comunque verosimile che fossero proprietari ricchi ad essere incentivati a ottenere i territori, vista la necessità di investimento economico sugli stessi. Potevano esserci divergenze territoriali riguardo questo processo, come ad esempio il ripopolamento degli agri deserti attuato da Massimiano in Gallia tramite l’utilizzo di laeti, prigionieri di guerra di origine gallo-romana liberati in seguito a vittoriose campagne militari, e di prigionieri franchi, testimoniata nei panegirici.

 

Sicuramente le legislazioni sono la più nitida testimonianza di un malessere sociale diffuso, che comportava l’abbandono di proprietà e la nascita del colonato, il quale è allo stesso modo un fenomeno non solo fiscale, ma sociale, in cui si denotava l’arricchimento dei potentes a discapito dell’asservimento della classe medio-bassa. In questa chiave di lettura, potremmo considerare i bagaudae come reazione classista nei confronti del ceto di vertice.

 

Le fonti ci forniscono due nomi come leader del movimento, Amando ed Eliano. Non ci è dato sapere nulla, tuttavia, né della loro estrazione sociale, né dello scopo che avrebbero voluto perseguire con la rivolta. Le stesse fonti evidenziano maggior interesse nei confronti dell’insieme del movimento bagaudico, piuttosto che nei singoli. Questo fattore potrebbe confutare le ipotesi di tentativi di usurpazione da parte almeno di Amando.

 

Abbiamo invece più elementi per provare a definire con maggior chiarezza l’origine etnica dei ribelli. Salviano di Marsiglia, nel De gubernatione Dei, trattando le guerre bagaudiche del V secolo, tenta di descrivere l’identità della Gallia, suddividendola in tre tipologie: Gallo-romani, barbari e bagaudi.

 

È verosimile che l’identità bagaudica corrisponda a quella celtica, oltretutto identità etnica autoctona di Gallia e Britannia, e si sia mantenuta e preservata in quei territori rurali, in cui la romanizzazione è sempre stata meno profonda. Ciò sarebbe confermato, come visto, nell’etimologia della radice *Bag.

 

In ogni caso, il fenomeno bagaudico fu ritenuto un problema sufficientemente grave da necessitare l’intervento di Massimiano. La preoccupazione poteva derivare sia dalle continue pressioni dei popoli limitrofi, sia dal vicino ricordo delle continue usurpazioni nel territorio, culminate nel ventennio precedente con l’imperum galliarum. L’intervento del cesare e dell’esercito imperiale conferiscono ancora maggior importanza e autorità al movimento, esaltandone la prerogativa bellica. Lo stesso Mamertino nell’elogio a Massimiano, in chiave simbolista conferisce un’aura di pericolosità ai gigantes, i mostra biformia”, ovvero i bagaudi, che avrebbero attaccato l’olimpo, difeso però da Ercole in questo caso, ovvero Massimiano, e non da Giove-Diocleziano, come nel mito. I bagaudi sono quindi contadini, ma anche guerrieri, non semplici banditi che si sarebbero limitati a saccheggiare le villae dei ricchi gallo-romani. La guerra, se ebbe luogo, fu terminata in breve tempo da Massimiano, che vinse la rivolta adoperando fortitudo e clementia, come indica Mamertino.

 

Lo stesso autore del panegirico non sa se celebrare l’impresa oppure se tacere sull’accaduto, rimarcando causticamente il disprezzo nei confronti di questa classe sociale.

 

In ogni caso, l’episodio delle bagaudae segnò profondamente la vita politica di Massimiano, a cui vennero riconosciuti i meriti dell’impresa da Diocleziano, che lo elevò a rango di Augusto a Nicomedia nel novembre successivo. La scelta dell’elevazione ad augustus può essere correlata alla defezione di Carausio, ammiraglio della flotta nel mare del nord che nel 286 iniziò ad avere pretese di indipendenza, continuando in un certo senso la tradizione secessionista delle terre occidentali dell’impero nell’arco di tempo del funestato III secolo.

 

Il tentativo di Carausio, autodichiaratosi imperatore nel 287, fu arginato prima da Massimiano, attraverso una campagna contro i Franchi, alleati del secessionista, e in un secondo momento dal neoeletto cesare Costanzo Cloro, che nel 293 conquistò Gerosianum, città portuale situata sul mare del nord, nonché sede della flotta ribelle. In seguito alla sconfitta di Frisoni e Camavi, suoi alleati, Carausio si ritirò in Britannia, dove la ribellione continuò fino al 296, con lo sbarco sull’isola da parte dello stesso Costanzo Cloro.

 

Se questo tentativo di usurpazione non ebbe il successo dei precedenti è indubbiamente merito della politica tetrarchica, che garantiva una presenza autoritaria e militare nelle zone “calde” dell’impero. A causa di questi disordini, seppur contenuti, la politica di riorganizzazione, ricostruzione del territorio e ripopolamento delle campagne non ebbe immediato successo. Possiamo immaginarci la realtà agricola gallica nel periodo successivo alle bagaudae come desolata, con colture abbandonate e rovinate, città e case coloniche distrutte in seguito ad anni di disordini. Ne è testimonianza la città di Augustodunum, odierna Autun, distrutta in un assedio nel 269 e ricostruita solamente trent’anni dopo per volere di Costanzo Cloro. I panegirici riportano l’opera di ripopolamento di Massimiano, il quale, oltre che riabilitare i bagaudi, inviò in Gallia Belgica numerosi laeti”.

 

Questi ultimi a cavallo tra III e IV secolo sono da intendersi non come immigrati barbari, evoluzione che avrà l’appellativo laetus, bensì, come già accennato, sono individuabili con i prigionieri di guerra gallo romani che i franchi furono costretti a rilasciare in seguito alla campagna di Massimiano. Questo è confermato dal testo dello stesso panegirico anonimo del 297, che in un passo successivo parla dei prigionieri di guerra franchi, che furono inviati a lavorare la terra dei grandi possidenti terrieri, con una giurisdizione differente dai laeti. Questi sono “restituti postliminio”, riferendosi allo ius postliminius, il principio per cui un cives romanus, di ritorno da una iniusta servitus come quella forzata in prigionia riacquisiva lo stato di libertas e riacquistava i diritti perduti. Bisogna interrogarsi riguardo l’effettivo utilizzo di laeti in seguito alle campagne di Massimiano e Costanzo Cloro. Se i bagaudi tornarono verosimilmente ai propri possessi, De Luca ipotizza che gli ex prigionieri di guerra vennero indirizzati in diverse civitates in base all’esigenza e impiegati per la rimessa in coltura degli agri.

 

Da quanto si può constatare dai panegirici, la voce ufficiale dell’ambiente della corte imperiale di Treviri, ci viene fornito un panorama di generale ripresa a partire dal 289/290, se già nel 291 Mamertino lodava l’abbondanza e le messe a coltura, l’incremento demografico e la salute della popolazione, mentre prima dell’arrivo dell’augusto c’era solo carestia e pestilenza. Il testo, retoricamente enfatizzato, allude a un aumento di manodopera progressivo e di nuovi flussi commerciali, quindi abbondanza di manodopera, attestata archeologicamente con l’allargamento degli ambienti e il riutilizzo degli spazi in chiave produttiva delle villae tra fine del III e soprattutto durante il IV secolo.

 

La crescita economica e sociale, questa volta “dovuta” alla figura di Costanzo Cloro, è ripresa nel già citato anonimo panegirico IV del 297, e nel panegirico V, scritto da Eumenio. In quello anonimo vengono trattati temi quali la riconquista della Britannia, sottolineandone l’importanza economica, la già citata ricostruzione di Augustodunum, ma per quanto concerne il mondo agrario, sono rilevanti le notizie forniteci nel paragrafo IX, riguardanti le distribuzioni nel territorio dei prigionieri Frisoni e Camavi, che ora lavorano la terra e saltuariamente vengono impiegati nella difesa dei confini. A queste notizie Eumenio aggiunge un riconoscimento agli artigiani britanni, giunti a lavorare per la ricostruzione della città, nella quale ora fiorisce la cultura e l’arte, nuove ville vengono erette e nuove piantagioni coltivate.

 

La maggiore difficoltà al fine di ricostruire il panorama storico e sociale delle campagne galliche in età tetrarchica sta nella veridicità delle fonti ufficiali prese in considerazione fino a questo momento. È bastevole basarsi sulle testimonianze dei panegiristi? Sicuramente essi ci forniscono una testimonianza necessaria, eppure non sufficiente. Non bisogna dimenticare che le idee e le opinioni riguardanti i temi trattati nei panegirici sono quelle provenienti dalla classe dirigente, senatoriale o comunque dell’enstablishment imperiale. Nondimeno vengono trattati argomenti quali la fioritura culturale, la costruzione delle villae e la sottomissione delle popolazioni barbariche, argomenti che ricadono inesorabilmente nella propaganda politica.

 

Per quanto nell’ambito della storiografia romana sia impossibile ottenere una fonte appartenente ai ceti medio-bassi della popolazione imperiale, possiamo vedere nell’opera di Lattanzio, De mortibus persecutorum, una voce fuori dal coro, che acquisisce autorità se si considera che l’autore, durante la stesura del trattato, risiedeva a Treviri. L’autore, parlando dell’operato di Diocleziano e Massimiano, riporta l’abbandono dei campi e la conversione dei coltivi in foresta, andando a confutare il panegirico V.

 

Sarebbe tuttavia errato pensare che la versione di Lattanzio contraddica quella “ufficiale”. Primariamente si deve considerare che il de mortibus persecutorum non è direttamente un’opera storiografica, bensì un trattato proveniente da un ambiente cristiano, quindi volutamente critico nei confronti dei tetrarchi, eccezion fatta per Costanzo Cloro, di cui l’autore fornisce un’immagine positiva. Ritengo che il contrasto tra la figura del cesare e gli altri tetrarchi sia un escamotage letterario da parte di Lattanzio. Distinguendo Costanzo Cloro dai suoi colleghi pagani e persecutori di cristiani, l’autore innalza la figura del figlio del cesare, Costantino, figura fondamentale per il mondo cristiano.

 

Dalle parole di Lattanzio, dunque, sembra che il contesto agricolo in Gallia sia in crisi in età tetrarchica, continuando il trend succedutosi in tutto il III secolo. Vitantonio Sirago ha brillantemente letto il passo di Lattanzio come una critica alla fiscalità imperiale. In questa chiave di lettura il passo potrebbe riferirsi al ceto dei piccoli proprietari terrieri, i contadini liberi del ceto inferiore. Le testimonianze di Lattanzio e dei panegiristi, quindi, potrebbero non essere in contrasto. Il primo eseguendo una trattazione dal basso testimonierebbe l’oppressione fiscale della capitatio iugatio e l’asprezza della riscossione fiscale della riforma dioclezianea, particolarmente grave per i contadini liberi, dei quali i panegiristi non si curano nella loro trattazione eccetto che in un passo del panegirico VIII che di fatto convalida la teoria. D’altra parte, i panegiristi esaltano il ritorno di manodopera barbarica e la ricostruzione delle strutture cittadine, tacendo sulla componente sociale della realtà agraria.

 

Solamente unendo queste due differenti testimonianze possiamo avere una visione d’insieme sulla realtà agricola in Gallia in età tetrarchica, ridimensionando la visione positivista dei cambiamenti economici e sociali. La preoccupazione maggiore per i tetrarchi (compreso anche lo stesso Costanzo Cloro) è creare e importare manodopera tramite campagne militari, andando a ripopolare città e terreni deserti. Questo risulta evidente in Gallia per la vicinanza di innumerevoli popolazioni vicine, che spesso entravano in conflitto con l’esercito imperiale, ma soprattutto perché i panegiristi, che descrivono ampiamente il fenomeno, gravitano attorno a Treviri e vivono direttamente la realtà Gallica. Ciò non significa che questo non avvenne anche nel resto dell’impero: è anzi testimoniato nel panegirico IV che Diocleziano provvide al trapianto di coloni e prigionieri provenienti dalla provincia d’Asia, al fine di ripopolare la Tracia. In età tetrarchica i terreni vennero messi a coltura e fruttarono anche nell’immediato, tuttavia non si verificò una politica agraria mirata e a lungo termine. I barbari trapiantati in Gallia lavorarono sì la terra, tuttavia questo fu un evento di breve durata. Già i panegirici anticipano la loro funzione militare, in più sappiamo che durante il IV e V secolo i Franchi, attraverso un lungo processo di immigrazione, entrarono tra le fila dell’esercito, in un certo modo abbandonando il lavoro dei campi. Senza la manodopera germanica possono essere spiegate le carestie di cui parlano Lattanzio ed Eusebio di Cesarea.

 

Per concludere, i tetrarchi trovarono in Gallia una situazione economica disastrosa, parte della componente celtica della popolazione in rivolta e le città distrutte. Seppero porre un freno a queste crisi, vennero introdotte riforme al momento necessarie, come la capitatio iugatio, e si concentrarono sull’attività di trapianto delle popolazioni germaniche. Con l’opprimente pressione fiscale provocarono un punto di non ritorno per i contadini liberi, che impossibilitati a pagare le imposte ebbero come estrema soluzione la fuga e l’abbandono dei propri possedimenti. Si consolida a partire dall’età tetrarchica il processo di polarizzazione della ricchezza e della proprietà rurale nelle mani degli honestiores, dei gruppi dirigenti, che continuerà poi con Costantino, sotto il quale si verificheranno in Gallia eventi di brigantaggio, pur se non di componente bagaudica, molto simile ad essa. La disparità sociale e la ricchezza accumulata dai possessores concorrerà alla perdita di diritti, graduata nel tempo, dei ceti inferiori, e alla nascita del ceto servile, un cambiamento epocale nel mondo romano e nel mondo alto medievale in Occidente.

 

 

Riferimenti bibliografici:

  

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V. NERI, I marginali nell’Occidente tardoantico. Poveri, “Infames” e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998.

S. TAROZZI, Riforma dello Stato e gestione della terra: la questione degli agri deserti nella prospettiva dei Codici tardo antichi: alcuni spunti di riflessione, in “Mélanges de l’école francaise de Rome” 125-2, 2013, pp. 461-467.

V. A. SIRAGO, Diocleziano, in “Nuove questioni di storia antica”, Milano 1967.

V. A. SIRAGO, L’agricoltura gallica sotto la tetrarchia, in “Latomus” 102, 1969, pp.687-699.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]