antica
SULLA BAGAUDA GALLICA
LA CONSTITUTIO ANTONINIANA E
LA POLITICA AGRARIA TETRARCHICA
di Giulio Vescia
Il
termine
della
cosiddetta
crisi
del
III
secolo
viene
convenzionalmente
fatta
coincidere
con
l’ascesa
al
potere
del
generale illirico C. Aurelio
Valerio Diocleziano. Tale evento è
di straordinaria rilevanza storica
in quanto segna il passaggio alla
fase tardoantica della storia
imperiale, in cui vengono stravolti
gli ordinamenti amministrativi e
sociali augustei.
Il programma politico di Diocleziano
si sostanziava principalmente nel
rafforzamento e difesa dei confini,
oltre che nella stabilità politica
all’interno di un impero che durante
il III secolo aveva visto
susseguirsi innumerevoli imperatori
appartenenti al ceto militare:
l’instabilità politica insieme alle
costanti pressioni barbariche e a
un’incipiente crisi demografica
ed
economica
portarono
alla
frantumazione
dell’impero
e
alla
nascita
di
“imperi
regionali”
quali
l’imperum Galliarum o
il regno di Palmira, durante il
regno di Gallieno.
In questo senso Diocleziano comprese
fin dai primi anni
di regno che questa politica
sarebbe stata inattuabile senza una
riorganizzazione interna del governo
delle province di frontiera:
riorganizzazione che si intravede
con l’ideologia tetrarchica,
tentativo di regolare la successione
interna e di mantenere uno stabile
controllo militare in tutto
l’impero, grazie alla presenza di
quattro figure imperiali. In
particolare, furono
le
province
germaniche
e
galliche
a essere
teatro
delle
maggiori
azioni
militari,
sia
contro
gentes
externae
sia
nei confronti delle
popolazioni autoctone.
In questi territori si erano
susseguite crisi economiche e
carestie, conseguenze della
distruzione dei campi e dell’incuria
causate dalle invasioni barbariche e
dalle usurpazioni militari. Il ceto
medio-basso dei contadini e piccoli
proprietari terrieri
fu
indubbiamente
lo
strato
sociale
più
colpito
da
queste
crisi,
e
nel
285
l’insofferenza
popolare
fu
tale
che
si
arrivò a una
rivolta armata.
Questa attività
di
ribellione
contadina,
in
qualche
modo
simile,
anche
per
contesto geografico,
alla Jaquerie trecentesca, è
nota con il nome di Bagaudae/Bacaudae,
e si verifica in due contesti
diversi: prima verso la fine del III
secolo, successivamente oltre un
secolo dopo, agli inizi del V
secolo, sempre in territorio
gallico.
Le prime testimonianze
sono
fornite
da
Aurelio
Vittore
ed
Eutropio.
Il
nome
riportato
del
movimento
è
di
origine
celtica,
possiamo ritenerlo per questo
motivo un fenomeno della Gallia
rurale. Come sostiene Valerio Neri,
oggi è grandemente diffusa l’idea
che
il
nome
corretto
sia
Bagaudae
dovuto
alla
radice
celtica
Bag,
attestata
anche
in
contesti
irlandesi.
Un’altra
fonte fondamentale
che
riflette
il
pensiero
e
la
visione
degli
eventi
da
parte
del
ceto
dominante,
è
costituita
dai
panegirici
gallici. In particolare, il
panegirico scritto da Mamertino in
onore di Massimiano, pur non
riportando nominando direttamente i
bagaudi, fornisce informazioni
importanti sul fenomeno. Nella
descrizione della rivolta, traspare
la caratterizzazione guerriera del
movimento, e nel panegirico i
contadini si trasformano in
cavalieri e fanti, diventando quasi
dei mostri per l’autore,
mentre
nel
passo
successivo
viene
riportato
che
i
ribelli
devastavano
i
campi
dei
barbari,
definiti
nemici.
Data
la relativa scarsità delle
fonti, risulta difficile comprendere
e delineare una tattica esatta
all’interno del movimento bagaudico.
Valerio
Neri
sostiene
la
tattica
della
terra
bruciata
attuata
dai
rivoltosi
nell’insieme
di
una
strategia
di
guerriglia nei
confronti
di
un
hostis
barbarus,
come
sembra
indicare
Mamertino.
Luca
Montecchio
ha,
al
contrario,
sostenuto
la
tesi del movimento bagaudico
come lotta contadina contro i
potentes galli, bruciando quindi
le terre che essi lavoravano in
qualità di coloni, in una chiave di
lettura di rivolta sociale. Seguendo
questo pensiero, occorre a mio
avviso evidenziare la trasformazione
sociale in atto nell’impero a
partire dal III secolo che segue la
Constitutio Antoniniana.
Nel 212 l’imperatore Caracalla
estende la cittadinanza romana a
tutti gli abitanti dell’impero.
Questa disposizione risulta ancora
oggi controversa, poiché da un lato
è stata lodata sia da autori antichi
che moderni, che vedevano in essa
una sorta di livellamento generale
delle condizioni dei cives.
La constitutio rimane un
segno di contraddizione,
interpretabile come segno
di
uguaglianza
all’interno
dell’impero,
ma
anche
come
prototipo
giuridico
di
regime
dispotico
caratterizzante
l’età tardo antica.
Legalizzando de facto una
situazione già esistente, l’editto
ebbe come conseguenza lo sviluppo
verticale della società, andando ad
accentuare il divario tra
honestiores, senatori e grandi
proprietari terrieri situati al
vertice della scala sociale, e
humiliores, la più umile classe
contadina e plebe urbana.
I termini “honestiores” e “humiliores”
sono giuridicamente
utilizzati
in
età
tardo
antica
per
indicare
le
differenze
di
diritti
tra
le
due
classi,
differenze
che
riguardavano ad esempio pene
corporali, dalle quali il gruppo di
vertice era esentato, mentre ai
cittadini di basso rango spettava la
damnatio ad bestias, oltre
che la crocifissione.
Durante il III secolo viene quindi a
cessare la differenza tra cives
romani e provinciali, mentre si
accentua la divisione di classe,
anche, come visto, nell’ambito del
diritto romano, e, con la
constitutio, si intraprende una
conquista verticale della società.
In poche parole, concedendo
universalmente la cittadinanza, in
un atto di ipotetica parificazione
sociale, si dissolve l’uguaglianza
giuridica della civitas che
ha caratterizzato il diritto romano
fin dall’età repubblicana. Questo
fattore, insieme al declino della
forza lavoro formata degli schiavi
causato dalla fine di guerre di
conquista, comportò cambiamenti
radicali nella società agricola.
A partire dall’età tetrarchica i
contadini liberi appartenenti al
ceto medio-basso divengono
progressivamente coloni dei ricchi
possidenti terrieri all’interno
delle villae, divise in età
tardo antica in una parte gestita
dal padrone, e una adibita alle
coltivazioni dei coloni, andando ad
anticipare la forma di controllo
agricolo che fiorirà oltre due
secoli dopo in territorio franco, il
sistema curtense.
Si venne progressivamente a formare
un ceto misto, di uomini
giuridicamente liberi,
tuttavia legati alla terra
del padrone per via ereditaria.
Assistiamo dunque a una
trasformazione della società in età
tardo antica, non più in maniera
preponderante schiavista, ma
composta da contadini e altri
humiliores asserviti, e alla
nascita quindi del fenomeno del
colonato e patronato.
Un altro aspetto sociale che trovo
particolarmente interessante in
relazione all’inasprimento di
divario tra i possessores
e i ceti più bassi è la
legislazione tardo imperiale
riguardante gli agri deserti. Se la
vita economica e politica in età
tardo antica, e soprattutto a
partire dall’età tetrarchica, è
maggiormente controllata dallo
stato, attraverso un inasprimento
dell’apparato burocratico e un
susseguirsi di riforme monetarie
nonché un maggior controllo dei
collegia professionali, si
verificò
in
alcuni
territori,
come
ad
esempio
in
Belgica,
un
ingigantimento
dei
territori
delle
villae,
nelle
quali
è
possibile ipotizzare una
qualche sorta di economia domestica
di sussistenza o di autarchia.
I possessores non erano
altro che alti funzionari statali,
che nel corso del IV secolo
costruirono grandi patrimoni nei
territori in cui espletavano le
proprie funzioni,
e
tenendo
in
conto
l’importanza
di
una
città
come
Treviri
nel
IV
secolo,
non
è
casuale
che
nei
territori
sulla
riva sinistra del Reno si
abbiano testimonianze di numerose
villae. Ma come potevano
ottenere terreni per ampliare i
propri territori?
Si è brevemente accennato al
fenomeno degli agri deserti. Questo
fenomeno, trattato recentemente da
Simona Tarozzi, corrisponde con
l’abbandono e la fuga dei coloni e
dei proprietari più poveri dai
terreni, sia pubblici, quindi
appartenenti al patrimonio
dell’imperatore, sia privati,
abbandonati per non pagare le
imposte che il ceto medio-basso non
riusciva a sostenere, provocando
gravi perdite per le casse statali.
La fuga era una disperata reazione
alla profonda crisi sociale, e
comportava
la
trasformazione
dei
medio-piccoli
proprietari
terrieri
a
coloni,
sotto
la
protezione
di
un
patronus.
I
contadini preferivano
abbandonare,
o
in
altri
casi
cederei
propri
terreni
al
patronus,
in
rari
casi
lavorandole
sotto
contratto
di
affitto, per non dover pagare
le imposte, che erano coperte dai
possessores, ai quali viene
conferita un’aura di protettori del
ceto contadino. Per ovviare a
questo problema, lo stato dovette
provvedere tramite incentivi ed
esenzioni, e talvolta cercando di
obbligare i vecchi proprietari a
pagare le imposte.
Un’ampia sezione del libro
undicesimo del Codex
Giustinianeo contiene costituzioni
appartenenti al IV secolo, dalle
quali si denota la volontà
dell’impero di riassegnare la cura
dei territori
abbandonati,
concedendo
anche
incentivi
di
imposte.
Era
possibile
ottenere
un
terreno
tramite
gestione
volontaria, oppure tramite
aste. Nel
caso
di
gestione
volontaria,
un
editto
di
Teodosio
prevedeva
che
se
gli
antichi
proprietari
non
fossero
tornati
ai
propri fondi entro il maggio
successivo all’emanazione
dell’editto, i territori sarebbero
stati affidati automaticamente ai
coltivatori volontari. In assenza
invece di questi ultimi, si sarebbe
proceduto con un’asta per la
concessione.
Quando tuttavia i fundi
fossero stati abbandonati da tempo,
e necessitassero di una messa a
coltura, difficilmente si sarebbero
presentate offerte. Secondo una
costituzione di Valentiniano,
in questi casi veniva
concessa l’immunità dai tributi per
almeno tre anni, al fine di
incentivare la ridistribuzione di
terre.
Sarebbe superfluo citare ogni caso
giuridico riguardante la concessione
di terreni abbandonati: basterà
sottolineare che con i privilegi nei
confronti dei volontari, lo stato
sperava di fissare i proprietari
terrieri alla terra, evitando
l’abbandono. Nelle legislazioni
imperiali non è ben
chiaro chi fossero coloro che
ottenevano in concessione i fundi
abbandonati, ma è comunque
verosimile che fossero proprietari
ricchi ad essere incentivati a
ottenere i territori, vista la
necessità di investimento economico
sugli stessi. Potevano esserci
divergenze territoriali riguardo
questo processo, come ad esempio il
ripopolamento degli agri deserti
attuato da Massimiano
in
Gallia
tramite
l’utilizzo
di
laeti,
prigionieri
di
guerra
di
origine
gallo-romana
liberati
in
seguito
a
vittoriose campagne militari,
e di prigionieri franchi,
testimoniata nei panegirici.
Sicuramente le legislazioni sono la
più nitida testimonianza
di
un
malessere
sociale
diffuso,
che
comportava
l’abbandono
di
proprietà
e
la
nascita
del
colonato,
il
quale è allo stesso modo un
fenomeno non solo fiscale, ma
sociale, in cui si denotava
l’arricchimento dei potentes
a discapito dell’asservimento della
classe
medio-bassa. In questa chiave
di lettura, potremmo considerare i
bagaudae come reazione
classista nei confronti del ceto di
vertice.
Le fonti ci forniscono due nomi come
leader del movimento, Amando ed
Eliano. Non ci è dato sapere nulla,
tuttavia, né della loro estrazione
sociale, né dello scopo che
avrebbero voluto perseguire con la
rivolta. Le stesse fonti evidenziano
maggior interesse
nei confronti
dell’insieme
del
movimento bagaudico,
piuttosto
che
nei
singoli.
Questo
fattore
potrebbe confutare le ipotesi
di tentativi di usurpazione da parte
almeno di
Amando.
Abbiamo invece più elementi per
provare a definire con maggior
chiarezza l’origine etnica dei
ribelli. Salviano di Marsiglia,
nel
De
gubernatione
Dei,
trattando
le
guerre
bagaudiche
del
V
secolo,
tenta
di
descrivere
l’identità
della
Gallia, suddividendola in tre
tipologie: Gallo-romani, barbari e
bagaudi.
È verosimile che l’identità
bagaudica corrisponda a quella
celtica, oltretutto identità etnica
autoctona di Gallia e Britannia, e
si sia mantenuta e preservata in
quei territori rurali,
in
cui
la
romanizzazione
è
sempre
stata
meno
profonda.
Ciò
sarebbe
confermato,
come
visto,
nell’etimologia
della radice
*Bag.
In ogni caso, il fenomeno bagaudico
fu ritenuto un problema
sufficientemente grave da
necessitare l’intervento di
Massimiano. La preoccupazione poteva
derivare sia dalle continue
pressioni dei popoli limitrofi, sia
dal vicino ricordo delle continue
usurpazioni nel territorio,
culminate nel ventennio precedente
con l’imperum galliarum.
L’intervento del cesare e
dell’esercito imperiale conferiscono
ancora maggior importanza e autorità
al movimento, esaltandone la
prerogativa
bellica.
Lo
stesso
Mamertino
nell’elogio
a
Massimiano,
in
chiave
simbolista
conferisce
un’aura
di
pericolosità ai
gigantes,
i
“mostra
biformia”,
ovvero
i
bagaudi,
che
avrebbero
attaccato
l’olimpo,
difeso
però
da
Ercole
in
questo
caso, ovvero Massimiano, e
non da Giove-Diocleziano, come nel
mito. I bagaudi sono quindi
contadini, ma anche guerrieri, non
semplici banditi che si sarebbero
limitati a saccheggiare le villae
dei ricchi gallo-romani. La
guerra, se ebbe luogo, fu terminata
in breve tempo da Massimiano, che
vinse la rivolta adoperando
fortitudo e clementia,
come indica Mamertino.
Lo
stesso
autore
del
panegirico
non
sa
se
celebrare
l’impresa
oppure
se
tacere
sull’accaduto,
rimarcando
causticamente
il disprezzo nei confronti di
questa classe
sociale.
In ogni caso, l’episodio delle
bagaudae segnò profondamente la vita
politica di Massimiano, a cui
vennero riconosciuti i meriti
dell’impresa da Diocleziano, che lo
elevò a rango di Augusto a Nicomedia
nel novembre successivo. La scelta
dell’elevazione
ad
augustus
può
essere
correlata
alla
defezione
di
Carausio,
ammiraglio
della
flotta
nel
mare
del
nord
che nel 286 iniziò ad avere
pretese di indipendenza, continuando
in un certo senso la tradizione
secessionista delle terre
occidentali dell’impero nell’arco di
tempo del funestato III
secolo.
Il tentativo di Carausio,
autodichiaratosi imperatore nel 287,
fu arginato prima da Massimiano,
attraverso una campagna contro i
Franchi, alleati del secessionista,
e in un secondo momento dal
neoeletto cesare Costanzo Cloro, che
nel 293 conquistò
Gerosianum,
città
portuale
situata
sul
mare
del
nord,
nonché
sede
della
flotta
ribelle.
In
seguito
alla
sconfitta
di Frisoni e Camavi, suoi
alleati, Carausio si ritirò in
Britannia, dove la ribellione
continuò fino al 296, con lo sbarco
sull’isola da parte dello stesso
Costanzo
Cloro.
Se questo tentativo di usurpazione
non ebbe il successo dei precedenti
è indubbiamente merito della
politica tetrarchica, che garantiva
una presenza autoritaria e militare
nelle zone “calde” dell’impero. A
causa di questi disordini, seppur
contenuti,
la
politica
di
riorganizzazione,
ricostruzione
del
territorio
e
ripopolamento
delle
campagne
non
ebbe
immediato successo.
Possiamo
immaginarci
la
realtà
agricola
gallica
nel
periodo
successivo
alle
bagaudae
come
desolata,
con
colture abbandonate e
rovinate, città e case coloniche
distrutte in seguito ad anni di
disordini. Ne è testimonianza la
città di Augustodunum, odierna
Autun, distrutta in un assedio nel
269 e ricostruita solamente
trent’anni dopo per volere di
Costanzo Cloro. I panegirici
riportano l’opera di ripopolamento
di Massimiano, il quale, oltre che
riabilitare i bagaudi, inviò
in
Gallia
Belgica
numerosi
“laeti”.
Questi
ultimi
a
cavallo
tra
III
e
IV
secolo
sono
da
intendersi
non
come
immigrati barbari,
evoluzione
che
avrà
l’appellativo
laetus,
bensì,
come
già
accennato,
sono
individuabili
con
i
prigionieri
di
guerra gallo romani che i
franchi furono costretti a
rilasciare in seguito alla campagna
di Massimiano. Questo è confermato
dal testo dello stesso panegirico
anonimo del 297, che in un passo
successivo parla dei prigionieri di
guerra franchi, che furono inviati a
lavorare la terra dei grandi
possidenti terrieri, con una
giurisdizione differente dai
laeti. Questi sono “restituti
postliminio”, riferendosi allo
ius postliminius, il
principio per cui un cives
romanus, di ritorno da una
iniusta servitus
come
quella
forzata
in
prigionia
riacquisiva
lo
stato
di
libertas
e
riacquistava
i
diritti
perduti.
Bisogna
interrogarsi riguardo
l’effettivo utilizzo di laeti
in seguito alle campagne di
Massimiano e Costanzo Cloro. Se i
bagaudi tornarono verosimilmente
ai
propri
possessi,
De
Luca
ipotizza
che
gli
ex
prigionieri
di
guerra
vennero
indirizzati
in
diverse
civitates in base
all’esigenza e impiegati per la
rimessa in coltura degli
agri.
Da
quanto
si
può
constatare
dai
panegirici,
la
voce
ufficiale
dell’ambiente
della
corte
imperiale
di
Treviri,
ci
viene
fornito un
panorama
di
generale
ripresa
a
partire
dal
289/290,
se
già
nel
291
Mamertino
lodava
l’abbondanza
e
le
messe
a
coltura, l’incremento
demografico e la salute della
popolazione, mentre prima
dell’arrivo dell’augusto c’era solo
carestia e pestilenza. Il testo,
retoricamente enfatizzato, allude a
un aumento di manodopera progressivo
e di nuovi flussi commerciali,
quindi abbondanza di manodopera,
attestata archeologicamente con
l’allargamento degli ambienti e il
riutilizzo degli spazi in chiave
produttiva delle villae tra
fine del III e soprattutto durante
il IV
secolo.
La crescita economica e sociale,
questa volta “dovuta” alla figura di
Costanzo Cloro, è ripresa nel già
citato anonimo panegirico IV del
297, e nel panegirico V, scritto da
Eumenio. In quello anonimo vengono
trattati temi quali la riconquista
della Britannia, sottolineandone
l’importanza economica, la già
citata
ricostruzione
di
Augustodunum,
ma
per
quanto
concerne
il
mondo
agrario,
sono
rilevanti
le
notizie
forniteci
nel paragrafo IX, riguardanti
le distribuzioni nel territorio dei
prigionieri Frisoni e Camavi, che
ora lavorano la terra e
saltuariamente vengono impiegati
nella difesa dei confini. A queste
notizie Eumenio aggiunge un
riconoscimento agli artigiani
britanni, giunti a lavorare per la
ricostruzione della città, nella
quale ora fiorisce la cultura e
l’arte, nuove ville vengono erette e
nuove piantagioni
coltivate.
La maggiore difficoltà al fine di
ricostruire il panorama storico e
sociale delle campagne galliche in età
tetrarchica sta nella
veridicità
delle
fonti
ufficiali
prese
in
considerazione
fino
a
questo
momento.
È bastevole
basarsi
sulle
testimonianze dei panegiristi?
Sicuramente essi ci forniscono una
testimonianza necessaria, eppure non
sufficiente. Non bisogna dimenticare
che
le
idee
e
le
opinioni
riguardanti
i
temi
trattati
nei
panegirici
sono
quelle
provenienti
dalla
classe
dirigente, senatoriale
o
comunque
dell’enstablishment
imperiale.
Nondimeno
vengono
trattati
argomenti
quali
la
fioritura
culturale, la costruzione delle
villae e la sottomissione delle
popolazioni barbariche, argomenti che
ricadono inesorabilmente nella
propaganda politica.
Per
quanto
nell’ambito
della
storiografia
romana
sia
impossibile
ottenere
una
fonte
appartenente
ai
ceti
medio-bassi
della popolazione
imperiale,
possiamo
vedere
nell’opera
di
Lattanzio,
De
mortibus
persecutorum,
una
voce fuori
dal
coro,
che acquisisce autorità se si
considera che l’autore, durante la
stesura del trattato, risiedeva a
Treviri. L’autore, parlando dell’operato
di Diocleziano e Massimiano, riporta
l’abbandono dei campi e la conversione
dei coltivi in foresta,
andando a confutare il panegirico
V.
Sarebbe tuttavia errato pensare che la
versione di Lattanzio contraddica quella
“ufficiale”. Primariamente si deve
considerare che il de mortibus
persecutorum non è direttamente
un’opera storiografica, bensì un
trattato proveniente da un ambiente
cristiano, quindi volutamente critico
nei confronti dei tetrarchi, eccezion
fatta per Costanzo Cloro, di cui
l’autore fornisce un’immagine positiva.
Ritengo che il contrasto tra la figura
del cesare e gli altri tetrarchi sia un
escamotage letterario da parte di
Lattanzio. Distinguendo Costanzo Cloro
dai suoi colleghi pagani e persecutori
di cristiani, l’autore innalza la figura
del figlio del cesare, Costantino,
figura fondamentale per il mondo
cristiano.
Dalle parole di Lattanzio, dunque,
sembra che il contesto agricolo in
Gallia sia in crisi in età tetrarchica,
continuando il trend
succedutosi
in
tutto
il
III
secolo.
Vitantonio
Sirago
ha
brillantemente
letto
il
passo
di
Lattanzio
come
una
critica
alla fiscalità imperiale. In
questa chiave di lettura il passo
potrebbe riferirsi al ceto dei piccoli
proprietari terrieri, i contadini liberi
del ceto inferiore. Le testimonianze di
Lattanzio e dei panegiristi, quindi,
potrebbero non essere in contrasto. Il
primo
eseguendo
una
trattazione
dal
basso
testimonierebbe
l’oppressione
fiscale
della
capitatio
iugatio
e
l’asprezza
della riscossione fiscale della
riforma dioclezianea, particolarmente
grave per i contadini liberi, dei quali
i panegiristi non si curano nella loro
trattazione eccetto che in un passo del
panegirico VIII che di fatto convalida
la teoria. D’altra parte, i panegiristi
esaltano il ritorno di manodopera
barbarica e la ricostruzione delle
strutture cittadine, tacendo sulla
componente sociale della realtà
agraria.
Solamente
unendo
queste
due
differenti
testimonianze
possiamo
avere
una
visione
d’insieme
sulla
realtà
agricola
in
Gallia in età tetrarchica,
ridimensionando la visione positivista
dei cambiamenti economici e sociali. La
preoccupazione maggiore per i tetrarchi
(compreso anche lo stesso Costanzo
Cloro) è creare e importare manodopera
tramite campagne militari, andando a
ripopolare città e terreni deserti.
Questo risulta evidente in Gallia per la
vicinanza di innumerevoli popolazioni
vicine, che spesso entravano in
conflitto con l’esercito imperiale, ma
soprattutto perché i panegiristi, che
descrivono
ampiamente
il
fenomeno,
gravitano
attorno
a
Treviri
e
vivono
direttamente
la
realtà
Gallica.
Ciò
non
significa che questo non avvenne
anche nel resto dell’impero: è anzi
testimoniato nel panegirico IV che
Diocleziano provvide al trapianto di
coloni e prigionieri provenienti dalla
provincia d’Asia, al fine di ripopolare
la Tracia. In età tetrarchica i terreni
vennero messi a coltura e fruttarono
anche nell’immediato, tuttavia non si
verificò una politica agraria mirata e a
lungo termine. I barbari trapiantati in
Gallia lavorarono sì la terra, tuttavia
questo fu un evento di breve durata. Già
i panegirici
anticipano
la
loro
funzione
militare,
in
più
sappiamo
che
durante
il
IV
e
V
secolo
i
Franchi,
attraverso
un
lungo processo di immigrazione,
entrarono tra le fila dell’esercito, in
un certo modo abbandonando il lavoro dei
campi. Senza la manodopera germanica
possono essere spiegate le carestie di
cui parlano Lattanzio ed Eusebio di
Cesarea.
Per concludere, i tetrarchi trovarono in
Gallia una situazione economica
disastrosa, parte della componente
celtica della popolazione in rivolta e
le città distrutte. Seppero porre un
freno a queste crisi, vennero introdotte
riforme al momento necessarie, come la
capitatio iugatio, e si
concentrarono sull’attività di trapianto
delle popolazioni germaniche. Con
l’opprimente pressione fiscale
provocarono un punto di non ritorno per
i contadini liberi, che impossibilitati
a pagare le imposte ebbero come estrema
soluzione la fuga e l’abbandono dei
propri possedimenti. Si consolida a
partire dall’età tetrarchica il processo
di polarizzazione della ricchezza e
della proprietà rurale nelle mani degli
honestiores, dei gruppi
dirigenti, che continuerà poi con
Costantino, sotto il quale si
verificheranno in Gallia eventi di
brigantaggio, pur se non di
componente
bagaudica,
molto
simile
ad
essa.
La
disparità
sociale
e
la
ricchezza
accumulata
dai
possessores
concorrerà alla perdita di
diritti, graduata nel tempo, dei ceti
inferiori, e alla nascita del ceto
servile, un cambiamento epocale nel
mondo romano e nel mondo alto medievale
in
Occidente.
Riferimenti bibliografici:
C. LETTA, S. SEGENNI, Roma e le sue
province. Dalla prima guerra punica a
Diocleziano, Roma 2015.
L. MONTECCHIO, Imperium Galliarum e
prima fase della bacauda: conflitti
sociali e politica ufficiale, in “Tensioni
sociali nella tarda antichità nelle
province occidentali dell’Impero romano”,
a cura di L. MONTECCHIO, Perugia 2015.
L. MONTECCHIO, Il traditore Carausio,
in Tradimento e traditori nella tarda
antichità, a cura di L. MONTECCHIO,
2017.
V. NERI, I marginali nell’Occidente
tardoantico. Poveri, “Infames” e
criminali nella nascente società
cristiana, Bari 1998.
S. TAROZZI, Riforma dello Stato e
gestione della terra: la questione degli
agri deserti nella prospettiva dei
Codici tardo antichi: alcuni spunti di
riflessione, in “Mélanges de l’école
francaise de Rome” 125-2, 2013, pp.
461-467.
V. A. SIRAGO, Diocleziano, in “Nuove
questioni di storia antica”, Milano
1967.
V. A. SIRAGO, L’agricoltura gallica
sotto la tetrarchia, in “Latomus”
102, 1969, pp.687-699. |