contemporanea
A PROPOSITO DI BABIJ JAR
L’ECCIDIO “DIMENTICATO” DALLA PROPAGANDA
SOVIETICA
di Francesco Cappellani
L’invasione della Russia da parte delle
truppe di Hitler, denominata in codice
Operazione Barbarossa, ebbe inizio il 22
giugno 1941 con un esercito di quasi
quattro milioni di soldati tedeschi,
ungheresi e slovacchi, 3.600 carri
armati, 2.700 aerei, 600.000 autocarri e
700.000 cannoni che oltrepassarono il
confine sovietico da nord a sud, dalla
Finlandia al Mar Nero.
Fu, a quell’epoca, la più grande forza
d’attacco mai assemblata nella storia,
suddivisa su tre direttive, nord, centro
e sud dell’URSS. Al generale Heinz
Guderian, reduce dai successi in Francia
dove i suoi panzer avevano ridicolizzato
il sistema difensivo costituito dalla
Linea Maginot aggirandola, fu assegnato
il settore centrale del fronte con il
compito di puntare con i suoi mezzi
corazzati, il panzergruppe 2, sulla
capitale sovietica seguendo la
direttrice Minsk-Smolensk-Mosca.
Smolensk fu conquistata il 14 luglio
1941 e l’avanzata proseguì con perdite
sempre maggiori in quanto le truppe
russe si andavano progressivamente
riorganizzando dopo il collasso
iniziale. Arrivato a circa 300 km dalla
capitale, in agosto, Guderian dovette,
per ordine perentorio di Hitler e
malgrado le sue accorate proteste,
cambiare direzione e dirigere le sue
divisioni corazzate verso sud con lo
scopo di riunirsi con l’esercito del
generale von Kleist, capo dell’armata
sud, per chiudere in una gigantesca
sacca a est di Kiev le truppe sovietiche
ivi dislocate.
L’aggancio avvenne a metà settembre col
risultato di circondare e fare
prigionieri circa un milione di soldati
dell’Armata Rossa con l’annientamento di
quattro armate e, da recenti fonti
sovietiche, la morte di 616.000 soldati
russi, ma a costo di notevolissime
perdite di truppe e di mezzi. Fu un
grande successo militare, Hitler la
definì “la più grande battaglia della
storia del mondo”, ma il ritardo che
questa operazione causò al piano
iniziale dei generali tedeschi e di
Guderian in particolare, di marciare su
Mosca prima dell’arrivo della stagione
invernale, cosa che si rivelerà fatale:
violentissime piogge autunnali seguite
da pesanti nevicate devastarono le
scarse e disastrate strade esistenti
rendendole totalmente impraticabili.
L’avanzata tedesca ne rimarrà
impantanata, una situazione resa ancora
più critica per la carenza di armi e
viveri dovuta alle difficoltà di
rifornire le prime linee per
l’inagibilità delle vie di
comunicazione.
Kiev fu occupata il 19 settembre 1941.
La popolazione era stata in parte
evacuata all’interno della Russia, molti
degli abitanti rimasti però erano
contenti per l’arrivo dell’esercito
tedesco in quanto speravano di essere
liberati dal giogo oppressivo del regime
sovietico. I comandi si stabilirono
nella centrale via Kreshchatik ma cinque
giorni dopo la loro presa di possesso
una bomba esplose in quella zona,
seguita, nei giorni successivi, da altri
scoppi che provocarono il crollo del
Grand Hotel dove erano acquartierati i
tedeschi, e di molti altri edifici,
causando un incendio che durò una
settimana distruggendo circa due
chilometri quadrati del centro città,
lasciando senza casa oltre 25.000
persone. Ci furono 200 vittime tra i
tedeschi e morti e feriti anche tra i
civili.
Dopo la guerra si venne a sapere che a
piazzare le bombe era stato un commando
speciale della NKVD (la polizia segreta
sovietica), ma le SS, anche se sapevano
chi fossero gli attentatori come
testimoniato nel dopoguerra dal generale
Alfred Jodl al Tribunale di Norimberga,
colsero l’occasione per dare la colpa
agli ebrei e quindi giustificarne per
rappresaglia l’eliminazione.
L’operazione fu condotta dal
Sonderkommando 4° (Comando Speciale 4°),
comandato dallo SS-Standartenführer Paul
Blöbel, insediatosi al momento
dell’occupazione della città, seguito,
il 25 settembre, dall’Einsatzgruppe C
(unità operativa speciale C) composta
principalmente da SS, il cui compito era
quello di eliminare ebrei, zingari,
prigionieri sovietici e avversari
politici, mediante fucilazione e, negli
anni successivi, con le camere a gas.
Il comandante Blöbel dipendeva
direttamente da Reynhard Heydrich,
secondo solo a Heinrich Himmler nella
gerarchia delle SS. Heydrich aveva
dichiarato che “Il giudaismo dell’est
è la sorgente del Bolscevismo e deve
quindi essere eliminato in accordo con
le mire del Führer”. L’Einsatzagruppe
reclutò un gruppo di simpatizzanti
ucraini a cui affidarono il 27 settembre
il compito di affiggere 2.000 manifesti
sui muri della città dove si ordinava a
tutti gli ebrei residenti a Kiev e
dintorni di radunarsi presso il cimitero
russo e quello ebraico alle 8 del
mattino del 29 settembre 1941 recando
con sé documenti, denaro, preziosi,
abbigliamento. Chi disobbediva sarebbe
stato fucilato. Gli ebrei russi sapevano
ben poco delle campagne antigiudaiche
naziste e della legislazione vigente in
Germania e nei paesi conquistati che
negava loro ogni diritto civile,
pensavano che i tedeschi intendessero
deportarli o piuttosto trasferirli
altrove, magari verso la Palestina.
Nel 1939 Kiev contava 175.000 ebrei,
molti di questi dall’inizio della guerra
erano stati evacuati a est, mentre altri
si erano arruolati nell’Armata Rossa. Si
stima che circa 60.000 ebrei fossero
rimasti in città, soprattutto vecchi,
persone ammalate, donne e bambini. C’è
da precisare che da parte degli ucraini
c’era stato sempre un larvato
antisemitismo, tanto è vero che in
seguito molti ucraini svaligiarono le
case forzatamente abbandonate dagli
ebrei in obbedienza al bando nazista e
inoltre alcuni collaborazionisti
consegnarono gli ebrei alle SS.
La mattina del 29 settembre una folla
impressionante di decine di migliaia di
persone si andava accalcando nei punti
di raccolta: “sembrava una migrazione
di massa” racconterà nel 1967 al
processo per i crimini in Ucraina un
ufficiale del Sonderkommando 4°;
pensavano di andare in una stazione
ferroviaria, ma non c’erano treni,
soltanto cumuli di valige, bagagli,
vestiti da una parte, e dall’altro
montagne di viveri che venivano fatti
depositare alla fiumana umana. Mano a
mano che gli ebrei abbandonavano i loro
averi cominciarono ad avvertire il suono
delle raffiche di mitra; crebbe allora
il panico, il terrore e le urla di
disperazione, soprattutto dei bambini e
degli anziani, ammassati oramai senza
scampo sotto il controllo di soldati
tedeschi e guardie ucraine.
L’interminabile colonna veniva sospinta
dalle SS verso il fossato di Babij Jar
(Fosso della nonna) nelle immediate
vicinanze di Kiev. Dopo essere passati
in gruppi di dieci attraverso uno
stretto corridoio di soldati che li
colpivano brutalmente al minimo cenno di
rivolta, gli ebrei erano costretti a
denudarsi e affacciarsi alla grande
voragine naturale, profonda circa 10
metri e lunga oltre 100 metri, larga 10
metri in basso e parecchie decine di
metri in alto.
La testimonianza, dopo la guerra, di
Kurt Werner, dell’Einsatzgruppe C, che
partecipò allo sterminio di Babij Jar,
racconta di una delle massime atrocità
compiute dai nazisti nel secondo
conflitto mondiale: ”Subito dopo il
mio arrivo sul terreno delle esecuzioni
dovetti scendere con altri camerati in
questa conca. Non passò molto tempo che
già i primi ebrei ci vennero condotti
giù per le pareti della voragine lungo
le quali dovettero sdraiarsi faccia a
terra. Nella conca si trovavano tre
gruppi di tiratori, in tutto 12. Gli
ebrei venivano condotti di corsa, tutti
assieme, dall’alto verso questi
tiratori. Gli ebrei che seguivano
dovevano sdraiarsi sui cadaveri di
quelli precedentemente fucilati. I
tiratori stavano di volta in volta
dietro gli ebrei e li uccidevano con
colpi alla nuca. Mi ricordo ancora oggi
in quale stato di terrore cadevano gli
ebrei che di lassù, sull’orlo della
voragine, potevano per la prima volta
scorgere i cadaveri sul fondo: molti
gridavano forte per lo spavento. Non ci
si può nemmeno immaginare quale forza
nervosa richiedesse eseguire laggiù
quella sporca attività. Era una cosa
raccapricciante... Dovetti rimanere
tutta la mattina giù nella voragine. Lì
dovetti continuare a sparare per un
certo tempo, poi fui impegnato a
riempire di munizioni i caricatori della
pistola mitragliatrice. Durante questo
tempo furono impiegati altri camerati
come tiratori. Verso mezzogiorno fummo
fatti uscire dalla conca e nel
pomeriggio io, con altri, dovetti
condurre gli ebrei fino alla conca. In
questo tempo altri camerati sparavano
giù nella conca. Gli ebrei venivano
condotti da noi fino all’orlo della
conca e da lì correvano giù da soli
lungo il pendio. Tutte le fucilazioni di
quel giorno possono essere durate
all’incirca fino... alle 5 o alle 6 di
sera”.
Il resoconto n. 101 dell’Einsatzgruppe C
riporta l’uccisione di 33.771 ebrei a
Babij Jar nei giorni 29 e 30 settembre
1941, compiuta usando fucili automatici
Schmeisser e mitragliatrici Schwartzlose.
Oltre all’Einsatzagruppe, parteciparono
all’eccidio soldati delle SS e membri
della polizia ausiliaria ucraina. Paul
Blöbel fu decorato da Hitler con la
Croce di Ferro; il tribunale militare di
Norimberga gli attribuì 59.018
esecuzioni e lo condannò a morte per
impiccagione che venne eseguita l’8
giugno del 1951.
Molte altre persone furono uccise nei
mesi successivi e nei due anni di
occupazione tedesca di Kiev: altri
ebrei, zingari, pazienti dell’ospedale
psichiatrico Pavlov, prigionieri di
guerra sovietici, nazionalisti ucraini,
partigiani, civili colpevoli di avere
trasgredito ordini nazisti. Non è noto
il numero totale di persone assassinate
a Babij Jar, alcune stime parlano di
circa 100.000 morti di cui circa 90.000
ebrei. Finito lo sterminio i nazisti
usarono i prigionieri di guerra per
ricoprire di terra i cadaveri accumulati
nel fossato. ma due anni dopo, quando le
truppe sovietiche, nell’autunno del
1943, cominciarono ad avanzare su tutto
il fronte avvicinandosi anche a Kiev,
Himmler emanò l’operazione 1005 (Aktion
1005) che ordinava di eliminare ogni
traccia dei massacri perpetrati dai
tedeschi.
Per “cancellare” Babij Jar fu ordinato a
un gruppo di 327 prigionieri, tra cui
100 ebrei, provenienti dal vicino campo
di concentramento di Syretsk, di
dissotterrare le decine di migliaia di
corpi e cremarli. Questa raccapricciante
operazione iniziò il 18 agosto 1943 e
durò sei settimane, le ceneri furono in
parte disperse e in parte sotterrate
nuovamente. Poiché tra le ceneri erano
presenti molte ossa, queste furono
triturate da uno speciale gruppo di
prigionieri, passate poi al setaccio per
bloccare i pezzi più grossi e
sminuzzarli ulteriormente in modo da
renderli non identificabili, per
distruggere definitivamente ogni prova
dell’eccidio. I prigionieri, temendo che
a lavoro finito i nazisti li avrebbero
uccisi, come infatti fu annunziato loro
da un ufficiale delle SS il 29
settembre, organizzarono nella notte una
rivolta. In 14 riuscirono
avventurosamente a scappare e poi, a
guerra finita, raccontare la loro
terribile esperienza.
Dopo la guerra, nella Russia di Stalin,
la storiografia sovietica post-bellica
evitò di mettere in luce il programma
nazista riguardante la “Soluzione finale
del problema ebraico”. I milioni di
morti in guerra e nei campi di
concentramento erano cittadini sovietici
e basta, non c’era menzione del
particolare destino riservato agli ebrei
russi. Nel dopoguerra l’antisemitismo
era parte della “policy” della Russia in
politica estera: con l’inizio della
“guerra fredda” il nazionalismo russo
aveva avuto un forte impulso a scapito
di ogni altra etnia, associato a severe
critiche nei riguardi del mondo
occidentale e dei suoi valori.
Gli ebrei russi però non potevano
dimenticare le loro immani sofferenze,
né rinunziavano al desiderio di riunirsi
e associarsi con gli ebrei di tutto il
mondo, ma per questi sentimenti venivano
accusati dal regime di avere un
comportamento non patriottico, di essere
senza radici, di sentirsi cosmopoliti
più che russi. “Sebbene l’Unione
Sovietica avesse favorito la nascita
dello Stato di Israele, dall’estate del
1948 vi era stato un drammatico cambio
di politica. Qualsiasi espressione di
amore o di ammirazione per il nuovo
stato ebraico di Israele era condannato
come “nazionalismo borghese” e il regime
operava un severo giro di vite sui
contatti con gli ebrei d’oltremare”.
È noto che gli anni del dopoguerra
furono fortemente connotati dalla
tirannia dittatoriale staliniana con
milioni di persone deportate in campi di
lavoro per “deviazionismo” e accuse
spesso inconsistenti e gratuite. Gli
ebrei ne furono particolarmente colpiti,
al punto da essere spesso circondati da
odio e diffidenza, col risultato che
molti intellettuali furono emarginati se
non arrestati e anche eliminati.
Analoghi comportamenti si ebbero nei
paesi satelliti con processi anche a
gerarchi comunisti, accusati di
partecipare a cospirazioni sioniste
contro il loro stesso paese. Nel gennaio
del 1953 la Pravda annunciò la scoperta
di un gruppo terrorista ebreo che aveva
assassinato alcuni funzionari sovietici.
L’antisemitismo raggiunse allora il suo
apice per placarsi dopo il 5 marzo, alla
morte di Stalin e, tre anni dopo, nel
febbraio del 1956, col famoso discorso
di Nikita Khrushchev che accusava Stalin
di quei tanti crimini che l’occidente
gli addebitava da anni. Migliaia di
persone furono rilasciate dai gulag dove
avevano vissuto, e tanti erano morti, in
condizioni simili ai deportati nei lager
nazisti durante il secondo conflitto
mondiale.
Lentamente e comunque circondati da una
notevole diffidenza, gli ebrei russi
riacquistavano il loro corretto
status di cittadini sovietici
partecipando alla modernizzazione della
Russia in tutti i suoi aspetti. Nel 1957
fu proposto di elevare a Kiev un
monumento per ricordare l’eccidio di
Babij Jar, ma quando le autorità locali
realizzarono che la maggioranza delle
vittime erano di razza ebraica, apposero
il veto alla costruzione dell’opera. In
seguito il grande fossato fu racchiuso
da una diga e trasformato in un lago
che, nel marzo del 1961, a causa di una
pioggia intensissima e incessante,
tracimò provocando 145 morti. Qualcuno
parlò della rivincita delle vittime
dimenticate di Babij Jar.
In quell’anno un giovane poeta ucraino,
Yevgeni Yevtushenko, scrisse il poema
Babij Jar, che fu pubblicato nel
giornale letterario ufficiale dell’URSS,
la Literaturnaya Gazetta, il 19
settembre 1961 riscuotendo subito un
enorme successo in patria e poi
all’estero, ma soprattutto rompendo
l’oblio che le autorità sovietiche
avevano imposto sul massacro. Di fatto,
se non si fossero ritrovati i meticolosi
resoconti dell’Einsatzgruppe C e non
fossero miracolosamente sopravvissuti
alcuni testimoni oculari, la tragedia di
Babij Jar sarebbe rimasta ignota,
inghiottita in uno dei tanti buchi neri
della storia.
Lo scrittore Marek Halter ha scritto: “Il
Partito Comunista condannò
immediatamente il poeta e il giornale.
Ma era troppo tardi: i corpi delle
vittime massacrate a Babij Jar già
tornavano a galla e fluttuavano alla
luce del sole e sotto gli occhi di
tutti, di tutto il mondo, sul Dniepr, il
fiume che attraversa Kiev, e sotto le
finestre del Cremlino, sulle acque della
Moscova”. Lo stesso Khrushchev
criticò il poema perché dava troppo
importanza alle vittime ebree mentre
molti russi, ucraini e cittadini di
altre nazioni erano stati parimenti
vittime della macelleria hitleriana.
Yevtushenko aveva scritto: “Non c’è
un monumento /A Babij Jar /Il burrone
ripido /È come una lapide /Ho paura
/Oggi mi sento vecchio come /Il popolo
ebreo /Ora mi sento ebreo/… /E divento
un lungo grido silenzioso qui /Sopra
migliaia e migliaia di sepolti /Io sono
ogni vecchio /Ucciso qui /Io sono ogni
bambino /Ucciso qui”.
Il famoso musicista e compositore russo
Dmitri Shostakovich, sulla base del
poema di Yevtushenko e di altri scritti,
compose la Sinfonia n. 13 op.113,
sottotitolata Babi Yar, la cui
prima fu eseguita a Mosca il 18 dicembre
1962 con un clamoroso successo. Oltre
all’antisemitismo l’opera toccava altri
temi come l’asservimento degli
intellettuali al regime, la mancanza di
libertà d’opinione e altri aspetti del
logoro sistema comunista sovietico per
cui la stampa ufficiale, ancora
convalescente dallo stalinismo, cercò di
ignorare l’avvenimento e la sinfonia
scomparve dai programmi musicali per
alcuni anni. Ma le opere di questi
artisti ebbero il merito di attrarre
l’attenzione del mondo intero rivelando
per la prima volta che la società
sovietica non era immune
dall’antisemitismo e che molti
intellettuali provavano disagio a
parlare dell’olocausto.
Nell’Unione Sovietica, articoli di
propaganda su giornali nazionali e
locali arrivarono ad affermare che “i
Sionisti avevano collaborato con i
reazionari, con gli autori dei pogrom e
gli anti-semiti nel corso della loro
storia”. Un articolo della Pravda
del 16 marzo 1971 diceva che la tragedia
di Babij Jar “sarebbe rimasta per
sempre la personificazione non solo del
cannibalismo dei seguaci di Hitler ma
anche dell’indelebile vergogna dei loro
complici e seguaci, i Sionisti”.
Questo atteggiamento spiega come nella
decade 1970-1980 oltre 250.000 ebrei
russi emigrarono in Israele. Solo con
l’apertura degli archivi nel 1989 si
cominciò a capire l’assurdità “del
rifiuto ideologico comunista a vedere
l’annientamento degli ebrei come un
evento distinto all’interno della furia
nazista, anche per via
dell’impossibilità della comunità
ebraica sovietica a organizzare uno
studio puntuale delle fonti /…./ oggi
però i nuovi studi permettono di
inquadrare meglio sia le modalità del
genocidio /…/ e soprattutto la rimozione
della Shoah imposta da Mosca” che si
tradusse in una palese emarginazione
degli ebrei a tutti i livelli della
gerarchia sociale.
Ad esempio nel 1944 le autorità
sovietiche proibirono qualsiasi
manifestazione a Babij Jar per
commemorare l’ecatombe del 1941 “col
pretesto che si sarebbe trattato di una
manifestazione di “sciovinismo” e
“nazionalismo” ebraico, e che avrebbe
potuto originare gravi dimostrazioni
antisemite”. La storia vera di Babij
Jar apparve nell’URSS nel 1966 grazie a
un libro dello scrittore Anatolij
Kuznecov, nato a Kiev nel 1929 che,
ancora quattordicenne, aveva cominciato
ad annotare tutto ciò che aveva visto e
sentito sull’eccidio. Il testo,
pubblicato sul mensile letterario
Yunost, fu censurato dalle autorità
sovietiche per la parte che riguardava
il collaborazionismo di molti ucraini
con i nazisti; l’edizione integrale
uscirà a New York in inglese nel 1970
col titolo Babi Yar: A Document in
the Form of a Novel, ottenendo un
successo internazionale.
Si dovettero aspettare oltre 30 anni
perché nel 1976 fosse costruito a Babij
Jar un monumento ufficiale per ricordare
l’immane eccidio; l’iscrizione sulla
targa recita: “Qui nel 1941-1943 gli
invasori tedeschi nazisti giustiziarono
oltre 100.000 cittadini di Kiev e
prigionieri di guerra” senza fare
menzione degli ebrei.
Dopo la dissoluzione della Unione
Sovietica il governo ucraino autorizzò
nel 1991 l’erezione di un altro
monumento che rappresenta una gigantesca
Menorah, il candelabro a sette braccia
simbolo della religione ebraica, come
memoriale per ricordare esplicitamente
lo sterminio della comunità ebraica di
Kiev.
Yevtushenko aveva detto a conclusione
del suo poema: ”Non c’è sangue ebreo/
nel mio sangue/ ma sento l’odio
disgustoso/ di tutti gli antisemiti/
come se fossi stato un ebreo/ ed ecco
perché sono un vero russo”.
Riferimenti bibliografici:
L.S. Dawidowicz, Babi Yar’s Legacy,
NYT 27/09/1981.
E. Klee, W. Dressen, V. Riess, Bei
tempi”. Lo sterminio degli ebrei
raccontato da chi l’ha eseguito e da chi
stava a guardare”, La Giuntina,
Firenze 1995.
M. Halter, I 100mila ebrei di Babi
Yar, un massacro dimenticato, La
Repubblica 29/09/2006.
S. Nirenstein, Il massacro di Babij
Jar, La Repubblica 11/07/2007. |