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N. 125 - Maggio 2018 (CLVI)

il lavoro rende liberi

Auschwitz-Birkenau: tuffo in una memoria che deve essere coltivata
di Riccardo Filippo Mancini

 

L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità

da cui non dovremo mai

togliere il segnalibro della memoria

(P. Levi)

 

Auschwitz: nome noto praticamente a chiunque, luogo iconico di cui ognuno ha visto immagini, sentito storie, racconti, memorie e servizi dei giornali. Almeno una volta l’anno è su tutte le prime pagine dei quotidiani, ogni 27 gennaio per la precisione, nel giorno dedicato alla memoria delle vittime dell’olocausto.

 

Qualche volta anche in altre occasioni, come quando nel 2009 qualcuno pensò bene di rubare la tristemente famosa e sadica scritta in ferro battuto posta all’ingresso del lager (e ritrovata poco dopo) “Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi.

 

Un modo beffardo e crudele di accogliere i prigionieri destinati a sofferenza e morte, un monito presente sui cancelli di ingresso non solo ad Auschwitz ma in molti campi di concentramento costruiti dalla Germania nazista nel cuore dell’Europa.
 
Il complesso dei campi di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau è forse il più conosciuto, ma non il primo costruito nella Germania nazista.

 

L’idea dei campi di concentramento non è tedesca: già durante la guerra di secessione americana i sudisti costruirono una prigione all’aperto ad Andersonville (Georgia) in cui venivano rinchiusi e lasciati morire di fame o malattia i prigionieri dell’esercito nordista, che in quel luogo perirono a migliaia. Heinrich Himmler, il noto capo delle SS, decise di aprire un campo a Dachau (vicino Monaco di Baviera) già nel 1933: diventerà il modello e l’ispirazione di tutti quelli costruiti in seguito, e sarà l’unico attivo per tutta la durata del regime nazista, per dodici lunghi anni. Si calcola che al suo interno trovarono la morte circa 41.000 persone.

 

Con l’inizio della guerra nel 1939 e l’avanzata nazista per tutta l’Europa il numero dei lager crebbe, crescendo l’esigenza di controllare in modo capillare i territori conquistati e cercare di stroncare sul nascere ogni forma di resistenza e opposizione, oltre alla sempre presente guerra nella guerra per l’annientamento degli ebrei.

 

Erroneamente si tende a credere che i campi di concentramento nacquero solo per quest’ultimi: loro ne furono le vittime più numerose, ma tra i prigionieri figuravano oppositori politici, criminali comuni, rom e sinti, omosessuali, testimoni di Geova e in generale semplicemente chiunque fosse sospettato di essere contro il regime o di avere comportamenti che in qualche modo venivano considerati non conformi alle regole dello stesso.

Il primo nucleo di Auschwitz (I), che altro non è che la traduzione tedesca della località polacca di Oświęcim, iniziò la sua attività nel gennaio del 1940. Nacque come Konzentrationslager, campo di concentramento e lavoro, per poi diventare anche campo di sterminio. Fu il centro amministrativo dell’area dopo la costruzione degli altri campi e sottocampi. Il lavoro era davvero una componente fondamentale: serviva a supportare l’enorme sforzo bellico che la Germania stava sostenendo in quegli anni.

 

Come noto, solamente una parte dei prigionieri veniva utilizzata come manodopera, tutta quella considerata abile al lavoro. Una volta giunti nella struttura infatti, i prigionieri venivano privati dei loro beni (che opportunamente venivano poi riutilizzati dai tedeschi e spediti in parte a Berlino e in parte ai soldati al fronte), divisi tra uomini e donne, e infine ancora divisi tra chi era abile al lavoro e veniva inviato ai blocchi (le baracche dove vivevano i detenuti) e chi non lo era, destinato a morte pressoché immediata poco dopo l’arrivo.

 

Nel campo di Auschwitz ci fu un’alta concentrazione di prigionieri della resistenza polacca e di militari sovietici catturati. La Polonia pagò un prezzo altissimo in termini di vite umane: all’interno dei lager sorti nel territorio polacco, il solo essere di nazionalità polacca era motivo sufficiente per essere ucciso. Quei territori erano considerati da Hitler fondamentali per l’espansione verso est del popolo tedesco, base di un’egemonia che avrebbe dovuto dominare l’Europa. Come dicono le guide turistiche di Auschwitz, i polacchi dovevano essere uccisi per liberare il posto ai tedeschi ariani puri che sarebbero un giorno arrivati ad abitare quelle zone.


Un unico campo di concentramento non sarebbe bastato a far fronte alle esigenze naziste nell’area, vennero quindi subito messe in cantiere altre costruzioni, in particolare Birkenau e Monowitz (campo di lavoro per un’industria chimica dove fu internato lo scrittore Primo Levi).

Il campo di sterminio di Birkenau (Auschwitz II), fu reso operativo nell’ottobre del 1941. Molto più grande del suo predecessore, e situato a soli 3 km di distanza, è stato il luogo dove trovarono la fine circa 1,1 milioni di persone. Costruito nelle vicinanze di una stazione ferroviaria per facilitare l’arrivo dei treni coi i deportati, era una vera e propria macchina della morte. Dopo la Conferenza di Wansse del 1942, divenne il centro principale per il compimento della Endlösung der Judenfrage, ossia la soluzione finale della questione ebraica, la decisione presa a tavolino dai capi del Reich di procedere all’uccisione sistematica e il più possibile rapida del popolo ebraico: l’Olocausto nella sua fase terminale, quella più acuta e terribile.


L’adozione nei campi del complesso di Auschwitz del famigerato Zyclon B, il gas utilizzato per uccidere i prigionieri nelle docce, contribuì a rendere ancora più efficace la macchina della morte: con questo metodo i nazisti riuscivano ad uccidere a Birkenau circa 6.000 persone al giorno.

Nel 1945 la Germania venne sconfitta e i campi finalmente liberati. Milioni di persone vi trovarono la morte. I nazisti non fecero però in tempo a distruggere tutte le prove dei loro crimini, e oggi questi luoghi, che possiamo assimilare a dei monumenti funebri, a dei cimiteri all’aria aperta, sono fortunatamente visitabili. Offrono la possibilità di vivere la memoria in modo quasi tattile, sulla pelle: molte costruzioni sono state ristrutturate ma altre sono originali.

 

Percorrendo i ciottoli dei viali sterrati di Auschwitz in religioso silenzio non si fatica a immaginare cosa dovesse essere un “appello” dei prigionieri nella piazzetta o una marcia lungo quelle stradine. E nemmeno cosa volesse dire scendere da un treno dopo un viaggio massacrante fatto in condizioni disumane con la speranza di trovare salvezza (perché quasi nessuno conosceva esattamente cosa avveniva nei lager) e trovare invece disperazione e morte.

Ma un’esperienza come quella di visitare un campo di sterminio deve essere in qualche modo gestita per avere un senso completo, per rimanere impressa davvero. Non basta probabilmente tutta la preparazione che si tenta di fare prima di recarvisi; non è sufficiente. Sapere prima di andare è solo la prima parte del percorso.

 

Bisogna essere in grado di saper osservare e in qualche modo metabolizzare, perché l’impatto che si subisce, se ci si lascia andare a livello emotivo, è davvero dirompente. Questo non vuol dire che non ci si debba emozionare o sentirsi coinvolti, ma che bisogna cercare di non farsi travolgere.

 

Una visita in questi luoghi può essere l’occasione per un piccolo percorso, da fare collettivamente o privatamente, con l’obiettivo di acquisire coscienza e conoscenza di quello che è accaduto in quegli anni nel cuore dell’Europa.

 

Un messaggio importante che ha la possibilità concreta di arrivare soprattutto alle nuove generazioni, spesso poco interessate all’indagine sul nostro passato, e in qualche modo vittime di una società che molto spesso, in tutti i sensi, ha poca Memoria.



 

 

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