N. 95 - Novembre 2015
(CXXVI)
AURIGA VINCITORE
UN CAPOLAVORO SALVATO DA UN TERREMOTO
di Federica Campanelli
L’Auriga Vincitore di Delfi è uno dei pochi esemplari della bronzistica greca in stile severo giunto sino a noi. La statua, alta 1,80 m, è stata rinvenuta presso il Tempio di Apollo a Delfi nel 1896, ed è ora conservata nella stanza XIII del Museo Archeologico di Delfi (della cui ricchissima collezione è il pezzo senz’altro più celebre) insieme ad altre opere scultoree e reperti architettonici di notevole importanza provenienti anch’essi dal rinomato centro religioso.
L’opera,
del
V
secolo
a.C.,
è
stata
attribuita
a
Pitagora
di
Reggio,
scultore
bronzista
attivo
tra
Grecia
e
Magna
Grecia,
o a
Sotade
di
Tespie;
essa
faceva
parte
di
un
gruppo
scultoreo
più
complesso
comprendente
quadriga,
cavalli
e
due
scudieri.
Di
tali
elementi
sono
stati
ritrovati
solo
pochissimi
frammenti:
il
braccio
di
uno
scudiere,
parti
dell’assale,
del
giogo
e
del
timone
del
cocchio
e
frammenti
delle
zampe
dei
destrieri.
L’Auriga,
o
meglio,
la
quadriga,
aveva
ruolo
votivo,
essa
infatti
fu
commissionata
per
commemorare
una
vittoria
nella
corsa
delle
quadrighe
ai
giochi
pitici
nel
478
o
474
a.C.
dal
tiranno
di
Gela
Ierone
I
(tiranno
tra
il
485
e
478
a.C.)
o
dal
suo
successore
e
fratello
minore
Polizelo
(tiranno
dal
478
fino
alla
sua
morte
in
data
incerta).
Sulla
base
della
scultura
un’iscrizione
riporta,
quale
offerente,
il
nome
di
Polizelo;
questo
però
fu
probabilmente
sostituito
al
nome
di
Ierone
in
un
rimaneggiamento
successivo.
.
Ricostruzione
grafica
del
gruppo
dell'Auriga
L’opera
mostra
l’auriga
fasciato
da
un
classico
chitone
stretto
in
vita
e
lungo
fino
alle
caviglie:
la
lunghezza
del
chitone
e/o
il
modo
con
cui
questo
veniva
fissato,
cioè
appuntato
a
entrambe
le
spalle
o
solo
a
una,
era
un
indicatore
dello
status
di
chi
lo
indossava.
Il
chitone
lungo,
come
quello
dell’auriga,
era
riservato
solo
ai i
personaggi
d’alto
rango
e
alle
donne,
se
monospalla
designava
invece
l’appartenenza
a
ranghi
inferiori.
La
tecnica
di
realizzazione
è
quella
della
cera
persa
con
metodo
diretto:
consiste
innanzitutto
nel
plasmare
un
nucleo
–
non
necessariamente
rifinito
ed
eventualmente
dotato
di
armatura
metallica
interna
–
composto
di
materiale
refrattario,
cioè
in
grado
di
mantenere
una
certa
stabilità
chimico-fisica
ad
alte
temperature;
quindi
si
procede
stendendo
uno
strato
di
cera
più
o
meno
sottile
che
viene
finemente
lavorato
al
fine
di
raggiungere
le
esatte
fattezze
che
dovrebbe
avere
l’opera
una
volta
finita.
Sulla
matrice
in
cera
viene
così
steso
un
altro
strato
di
terra
refrattaria
in
modo
da
ottenere
la
cosiddetta
cappa
esterna
o
forma,
avendo
sempre
cura
di
lasciare
canali
e
sfiatatoi
per
il
deflusso
di
gas
e
della
cera
fluidificata
dal
bronzo
fuso
gettato
nell’intercapedine
tra
nucleo
e
forma.
Al
fine
di
liberare
la
scultura
dalla
sua
forma,
questa
deve
essere
distrutta,
ciò
comporta
la
produzione
di
un
pezzo
unico,
non
replicabile.
I
grandi
bronzi,
già
dal
V
secolo
a.C.,
tendono
ad
avere
spessori
più
esigui
rispetto
al
passato:
nel
caso
dell’Auriga
di
Delfi,
per
esempio,
gli
spessori
vanno
da 1
cm
circa
nelle
parti
del
corpo
prive
di
panneggio,
a
2,5
cm
circa
là
dove
si
formano
le
pieghe
della
veste.
Date
le
dimensioni
e la
presenza
di
sottosquadri,
molti
bronzi
vengono
realizzati
fondendo
le
parti
separatamente
(braccia,
mani,
testa,
ecc),
per
poi
assemblare
i
vari
pezzi
tra
loro
tramite
giunti
in
metallo
e
saldature.
L’Auriga
di
Delfi
è
composto
da
10
parti
principali
a
cui
si
sommano
pezzi
più
minuti
soprattutto
per
i
particolari
del
volto:
rame
per
ciglia
e
labbra,
applicazioni
in argento per
la
benda
tergisudore
decorata
a
meandro
(traslazione
di
un
motivo
ornamentale
puntuale
lungo
tutto
lo
spazio
orizzontale
della
suddetta
fascia,
in
moda
da
formare
un
fregio
comunemente
detto
“greca”)
e
poi
materiali
non
metallici
come
pietre
e
pasta
vitrea
colorata
per
la
cornea
e le
iridi.
Sembrerebbe
un
paradosso,
ma
l’Auriga
si è
conservata
grazie
a un
catastrofico
terremoto
scatenatosi
nel
373
a.C.;
ciò
ha
permesso
di
tenere
la
scultura
ben
nascosta
tra
le
macerie
e i
detriti,
salvandola
così
da
razzie
che
ne
avrebbero
comportato
di
certo
la
fusione
(triste
destino
della
maggior
parte
dei
bronzi
d’epoca
classica)
al
fine
di
riciclare
il
materiale.