N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
AUGUSTO E LA
FONDAZIONE
DELL’IMPERO
Fra rivoluzione e
restaurazione -
parte II
di Bianca Misitano
IV. Augusto e la seconda
svolta del 23 a.C.
Forse anche spronato dal fatto di aver seriamente corso
il pericolo di morire per una malattia da cui,
fortunatamente, riuscì a rimettersi, Ottaviano volle sia
rendere completa l’apparente restaurazione della
repubblica, sia garantire alla propria figura un
contorno più netto e specifico, anche in virtù di quella
che avrebbe dovuto essere la sua successione.
Per questo nel 23 rinunciò, infine, alla carica di
console, consentendo così il ritorno ad un normale e
“republicanissimo” ricambio annuale di entrambi i
massimi magistrati.
D’altronde Augusto aveva ormai intenzione di disegnare
una figura di potere che non avesse bisogno di occupare,
quasi usurpando, delle cariche repubblicane ma che
traesse dalle sue stesse, particolari e distinte
prerogative, l’autorità necessaria a mantenere il
controllo della situazione politica, senza dare
l’impressione di dispotismo. Prerogative, inoltre, che
avrebbero potuto essere trasmesse ad un successore.
Fu proprio ciò che avvenne nel 23: in cambio della
deposizione del consolato egli assunse nuove ed
importanti qualifiche.
Il Senato infatti “potenziò” l’imperium proconsolare che
già possedeva, ridefinendolo: Augusto fu dotato
dell’autorità di un proconsole senza che essa perdesse
efficacia all’interno del pomerium di Roma, come in
generale accadeva (si pensi alle conseguenze che causò
l’atto del proconsole Cesare che osa attraversare il
pomerium senza deporre la carica) e continuerà ad
accadere per i proconsoli “normali”.
Ma , nel 23, non solo Augusto ricevette questa
particolare autorità proconsolare, ma assunse su di sé
un altro attributo, questo così caratterizzante che egli
stesso, e sulla sua scorta tutti gli altri imperatores
che seguiranno, comincerà a contare gli anni di “regno”
proprio da questo momento: il momento in cui gli viene
assegnata la tribunicia potestas.
Il che non significava che Ottaviano sarebbe divenuto
tribuno della plebe a tutti gli effetti ma che avrebbe,
comunque, potuto esercitare le loro prerogative. Egli
infatti da allora in poi ebbe il diritto, fondamentale,
di porre il veto ed anche quello di presentare proposte
di legge. In virtù di questa stessa potestas Ottaviano
ottenne il diritto di convocare il Senato, ma per
regola, nell’esercizio di questo diritto, sui tribuni
avevano la precedenza i consoli. Il Senato si affrettò a
potenziare, quindi, anche la tribunicia potestas di
Augusto, consentendogli di scavalcare chiunque avesse la
precedenza su di lui.
Così definiti i suoi poteri, Ottaviano veniva a creare
una figura del tutto nuova nell’ambito delle cariche
istituzionali, una figura che fin da subito si
caratterizzerà per la propria unicità.
Se il Senato continuerà, infatti, a funzionare come
sempre aveva fatto, con la regolare elezione dei consoli
e degli altri magistrati anno per anno, adesso però
l’imperator si stagliava al di sopra di questo
meccanismo, apparentemente senza invaderne la normalità
ma, in effetti, mantenendone uno stretto controllo
grazie all’autorità conferitagli dal titolo di Augustus
e dai due attributi che realmente diverranno specifici
della qualifica imperiale: l’imperium proconsolare e la
potestas tribunicia.
La forza di questa soluzione, è evidente, sta nel
riuscire ad attuare una rivoluzione “mascherata” da
restaurazione. Il concetto di ritorno alla Repubblica,
della ritrovata dignità del corpo civile romano, di un
risorgere del mito del senatus populusque fu sempre
centrale, e non certo a caso, nella propaganda politica
augustea.
Propaganda, per la prima volta a Roma, portata su
massima scala con l’ “inquadramento” dei principali
intellettuali del tempo, da Virgilio, a Livio e ad
Orazio, nell’entourage imperiale, grazie alla fondazione
del “circolo culturale” di Mecenate, uomo fidatissimo e
strettissimo di Ottaviano, che prometteva sostentamento
e protezione ai personaggi di cultura dell’epoca che vi
avessero aderito.
In questo contesto di rilancio degli ideali repubblicani
va visto l’ultimo perfezionamento dato da Augusto alla
propria figura, cosa che avvenne nel 19 a.C. , quando
assunse anche il titolo di pontifex maximus, la massima
carica sacerdotale, lasciata vacante dalla morte del
vecchio triumviro Lepido.
Oltre che la volontà di assommare alle sue cariche
civili una qualifica religiosa, cosa che prima di
Augusto e della sua rivoluzione non sarebbe potuta
accadere, era evidente l’obiettivo di dare nuova
rilevanza al patrimonio religioso romano ormai, anche
quello, scivolato in una grave crisi.
Con l’assunzione del pontificato, quindi, Augusto
accentuava ancora quella particolare aura religiosa di
cui si circondò, confermata anche dal fatto che in
regioni, come l’Oriente, dove il culto del sovrano in
quanto dio rientrava nella consuetudine, cominciò a
svilupparsi un vivace culto della personalità di
Ottaviano.
A guardarla in superficie, forse, l’opera di quest’uomo,
figlio adottivo di Giulio Cesare ed entrato giovanissimo
sulla scena politica romana, non avrebbe potuto essere
congegnata meglio, ma un aspetto rimase, in verità,
particolarmente problematico e continuerà ad esserlo
sempre, impedendo al sogno di Augusto di vedere Roma
finalmente libera per sempre dalle guerre civili, di
realizzarsi compiutamente.
V. Problema della successione e irregolarità
dell’istituzione imperiale
Si tratta del problema della successione: come
trasmettere un potere fatto di così tante sfaccettature?
Come garantirne la continuità in un ambiente in cui le
cariche erano rigorosamente elettive e chi ne veniva
investito cambiava di anno in anno? Senza contare che la
dignità imperiale non si basava su di una carica
istituzionale “regolarizzata”, bensì su titoli
particolari conferiti alla specifica persona di
Ottaviano.
La carica imperiale rimase sempre in una situazione di
fondamentale “irregolarità”, rispetto alla sfera del
diritto romano, del potere imperiale, irregolarità che
si perpetuerà molto a lungo nel tempo.
Quella dell’imperator non è una magistratura e non lo
sarà mai. Le magistrature romane, infatti, erano
definite in tutti i loro aspetti, da quello delle
modalità di assunzione a quello dei compiti specifici,
dalla sfera superiore del diritto, ed entro tale sfera,
secondo il popolo romano, era profondamente necessario
che esse restassero per evitare usurpazioni ed arbitri.
La dignità imperiale al contrario, nonostante il suo
perpetuarsi nei secoli ed il suo divenire sempre più
centrale nel dominio dell’impero, rimarrà sempre
qualcosa di non previsto dal diritto, paradossalmente la
principale istituzione di Roma rimarrà un’istituzione
formalmente illegale.
Come può, nella patria del diritto, nella prima civiltà
della storia in cui il diritto assume una dimensione
preponderante, verificarsi una simile circostanza?
La risposta è contenuta nella stessa natura del diritto
romano: la progressiva rilevanza assunta da questo
elemento nasce dall’esigenza di garantire, per rispetto
agli dei e alle tradizioni, l’ordine costituito con meno
modificazioni possibili. L’istituzionalizzazione della
figura imperiale significava stravolgere l’ordinamento
repubblicano, con la perdita della sovranità del senato
e del corpo civico romano, rompendo gli equilibri
stabiliti dalla lex. L’impero era la negazione del
senatus populusque, era l’annullamento di quella che era
sentita come la più grande conquista dei Romani, ossia
la loro organizzazione in una repubblica.
Se questo annullamento poteva avvenire, ed infatti
avvenne, nei fatti, era escluso che però esso potesse
trovare conferma e ufficialità nel diritto. Era il
diritto che innanzitutto definiva la natura di Roma e
per il diritto Roma non poteva tornare ad essere una
monarchia.
L’impossibilità di inserire l’istituzione imperiale nel
sistema legislativo romano, dandogli così regole,
contorni, specificità, scatena una serie di problemi, di
cui, forse, il più grave ed il più incisivo per la
storia di Roma è il problema delle modalità di
successione.
Assenza di regole stabilite per l’imperatore, significa
anche assenza di una maniera regolare e specifica di
trasmettere il potere, ecco perché spesso si procederà
in maniera evidente per tentativi.
Il primo chiamato a confrontarsi con questo dilemma è,
ovviamente, lo stesso Augusto, ben consapevole di non
essere immortale. Quindi, prima di tutto era da
stabilire cosa facesse un imperatore, ossia quali erano
i titoli e le qualifiche da trasmettere per rendere
chiaro che il prescelto sarebbe stato a sua volta
imperator.
La scelta non poteva che ricadere sulle potestas che
erano divenute i cardini del potere di Ottaviano, ossia
l’imperium proconsolare e, soprattutto, la tribunicia
potestas.
Dapprima la scelta dei successori si indirizzò sui suoi
due nipoti, Caio Cesare e Lucio Cesare. Per eleggerli a
propri pupilli Ottaviano fece attribuire ad entrambi la
tribunicia potestas e cominciò anche ad incoraggiare una
certa celebrazione della loro figura, come dimostra, ad
esempio, l’inserimento della loro effigie nelle monete
romane.
La sventura, purtroppo, si abbattè su questa scelta:
nessuno dei due nipoti sopravvisse ad Ottaviano, che fu
costretto ad attuare una scelta di ripiego.
L’unica opzione rimasta era infatti quella del proprio
figliastro Tiberio, figlio di primo letto di sua moglie
Livia e personaggio a lui non troppo gradito.
In ogni caso, volente o nolente, Augusto attuò la stessa
politica che aveva attuato con i due sfortunati figli di
sua figlia, ossia concesse a Tiberio potestas tribunicia
ed imperium proconsolare. Con il suo nuovo prescelto,
però, fece un passo in più: lo adottò come figlio.
Questa particolare pratica, a cui lo stesso Giulio
Cesare si era affidato per eleggere come suo erede il
futuro imperator Ottaviano, è intesa a specificare la
condizione di Tiberio, cosa che non si era posta come
necessaria per Caio Cesare e Lucio Cesare, che erano
diretti consanguinei di Augusto.
Questo voler mantenere la carica imperiale all’interno
della ristretta cerchia familiare dell’imperatore,
possibilmente fra i suoi consanguinei fu individuata
come più immediata modalità di successione. Ci sarà una
breve parentesi in cui l’adozione prevarrà sul ristretto
principio dinastico, ma, fino agli anni dell’anarchia
militare ed anche oltre, quest’ultimo principio
risulterà sempre come quello maggiormente perseguito. Il
porsi di queste successioni “familiari” portò al
succedersi di varie “dinastie” e, sorprendentemente
spesso, alla scelta di personalità incapaci di reggere
il fardello del governo di Roma e dei suoi territori.
Questa scelta di Augusto, però, non creò una prassi, nel
senso che anche dopo di lui e, soprattutto, dopo la
tragica e confusionaria fine della sua dinastia, quella
giulio-claudia, una maniera di far succedere gli
imperatori non fu mai chiara e stabile. Molto fece
quella conclamata impossibilità di “regolarizzare” la
figura imperiale che, in realtà, piuttosto che lasciare
larghissimo spazio di manovra al capo dello stato
romano, come si potrebbe pensare, costringeva l’uomo di
turno a doversi appoggiare sulla forza bruta e sulla
repressione e ad essere continuamente preoccupato per la
stabilità della propria supremazia, non protetta né
regolata da alcuna legge, elemento che spiega i veri e
propri stati paranoici in cui caddero alcuni imperatori,
fra cui già il primo successore di Augusto, ossia quel
poco gradito e apprezzato figliastro Tiberio.
Il problema della non-legalità fu quindi quello che
diede vita ai lati, alla fine, più negativi e, a volte
anche aberranti, dell’istituzione imperiale come
l’ascesa al trono di individui privi di qualsiasi
attitudine al comando, quando non propriamente folli, o
come i continui conflitti per vestire la porpora.
Questi aspetti, che costituiscono un autentico filo
rosso nella storia di tutta l’istituzione imperiale
daranno vita, di volta in volta, a situazioni sempre
diverse ma dipendenti, in ogni caso, tutte da questi
medesimi fattori che finirono per divenire fra le
caratteristiche più decisive nello svolgimento delle
vicende della Roma imperiale.
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