Per Roma, la forma di governo che Ottaviano Augusto
inaugurerà a più fasi, prima nel 27 e poi nel 23 a.C.
sarà il cambiamento più importante della sua storia
istituzionale e politica.
Con esso la vecchia Repubblica, che aveva dominato la
scena dai tempi antichi della cacciata dell’ultimo re,
sotto la quale l’espansione romana aveva raggiunto uno
dei suoi apici e che era considerata da molti il modello
istituzionale migliore al mondo, tramontava
definitivamente.
L’emergere di rivalità politiche sempre più accanite,
l’incapacità di opporsi alla forza degli eserciti
personali di ambiziosi generali, l’impossibilità di
gestire quello che era divenuto un impero smisurato da
parte della sua capitale, che era governata ancora come
una città-stato, tutti questi elementi concomitanti
resero non solo necessario, ma addirittura vitale, un
cambiamento radicale che riuscisse a ristabilire
l’ordine.
Ma Augusto si troverà a fare i conti con una mentalità
ed un’ideologia legate in maniera indissolubile al
sistema repubblicano e fortemente radicate nella
mentalità dei Romani e soprattutto di quelli fra di loro
che avevano maggiore peso politico: i senatori.
La storia della cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il
Superbo, e la fondazione della repubblica condotta dai
patrizi era rimasta impressa nella memoria dei latini
come l’inizio della libertas per l’Urbe.
La soluzione repubblicana era risultata, inizialmente,
di un’efficacia travolgente. Essa aveva consentito alla
città di espandersi con successo e rapidamente e di
sbaragliare potenti nemici come i Cartaginesi, dandogli
la possibilità di proiettarsi nel Mediterraneo.
La repubblica romana divenne ben presto nel sentire
comune l’immagine esemplare della migliore forma di
governo possibile, con essa il popolo romano raggiunge
la massima possibilità di autoaffermazione.
Questo sistema si differenzia, infatti, dalla monarchia
perché il carattere collettivo di governo dello Stato si
accentua in maniera ragguardevole. Se lo stato
monarchico era guidato da un solo uomo in cui risiedeva
gran parte del potere, ora Roma era diretta dal
senatus populusque, adesso i cittadini romani si
arrogavano il diritto di guidare e amministrare
direttamente la propria città.
Il carattere conservatore dei Romani unito a questa
concezione di repubblica come tappa fondamentale per
l’autoaffermazione di Roma e dei suoi abitanti creò una
forte avversione verso la monarchia, alimentata,
all’epoca del crollo repubblicano, dal sorgere di molte
personalità che avrebbero potuto, per l’opera di
accentramento dei poteri, assumere nuovamente il titolo
di rex. Fu proprio questo timore, fra l’altro, a
portare all’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C.
Fu proprio la difficoltà di conciliare questo
particolare modo di pensare con l’esigenza di un governo
nuovo, che riordinasse e sostituisse l’ormai inetta
direzione repubblicana a far fallire vari tentativi di
“rivoluzione”.
Due uomini sfiorarono forse una soluzione: Silla prima e
Cesare poi. Il loro sbaglio, probabilmente, stava
proprio nel carattere esplicitamente rivoluzionario
della loro opera e nel fatto che mirarono ad una
semplice giustapposizione del loro potere rispetto alle
altre cariche magistratuali.
Entrambi, essenzialmente, si affidarono all’unica carica
che poteva dare loro un potere pressoché assoluto e che
era l’unica a conservare caratteristiche vicine a quelle
attribuite ai re: la dittatura.
La figura del dictator era parte integrante del
sistema di poteri che caratterizzavano la repubblica, ma
per una cosa si distingueva da quelli: la sua
eccezionalità.
Un dictator, infatti, disponeva di poteri molto
più estesi di quelli dei consoli, era infatti detentore
dell’imperium maximum, ossia le sue prerogative
non potevano essere limitate da nessuno. Non aveva
colleghi né era soggetto al veto dei tribuni, né i
consoli potevano avere alcuna influenza su di lui.
L’investitura di un dictator avveniva
esclusivamente in situazioni di estrema emergenza,
spesso per risollevare le sorti di una guerra
dall’andamento poco tranquillizzante. Una dittatura
poteva durare al massimo sei mesi. Il suo carattere di
singolarità era, quindi, chiaro.
Silla e Cesare decisero di servirsene, invece, per
creare una situazione in cui la loro carica dittatoriale
divenisse permanente.
Silla divenne infatti dictator legibus scribundis et
rei publicae constituendae, particolare forma di
dittatura al fine di “riformare la repubblica”,
clausola, questa, che significava consentirgli di
mantenere la carica finchè le riforme non fossero
terminate, ossia, in altri termini, fin quando egli
stesso lo avesse ritenuto opportuno.
Cesare arrivò ad assumere un tipo di dittatura molto più
esplicita, ottenendo la nomina di dictator perpetuus,
ossia dittatore a vita.
Sia l’azione di Silla che quella di Cesare, sebbene,
forse, creassero le premesse alla comparsa di una figura
potente e dal potere fortemente accentrato, non
avrebbero potuto mai avere seguito, anzi, con un atto
simile Cesare segnò addirittura la sua condanna a morte.
Il motivo è molto semplice e concreto: una dittatura
assunta negando ciò che ne era fondamentalmente il suo
unico limite, ossia il termine di tempo, significava
lanciare un’aperta sfida al potere del Senato e alla
capacità di autogoverno romana, quest’ultima cardine
centrale, anche se ormai guasto in maniera
irreversibile, dell’ideale di Roma.
Il Senato non avrebbe mai potuto sottomettersi ad una
così esplicita prevaricazione nei suoi confronti, non
avrebbe mai potuto ammettere di doversi ridurre ad
organo di potere secondario rispetto all’immagine del
dictator.
La carica di imperator conserverà il carattere di
eccezionalità negli istituti romani, ma la sua forza
inizialmente starà nel non negare alcun potere alle
strutture governative repubblicane o perlomeno non in
teoria.
Forte conservatorismo nei riguardi dell’ordine romano
costituito, garantito, di fronte agli uomini e agli dei,
dal diritto; avversione e rifiuto della monarchia;
manifesta impossibilità di creare una carica
istituzionale che si mettesse esplicitamente al di sopra
degli altri poteri: con questi forti punti fermi, come
attuare una rivoluzione che ne tenesse conto?
In realtà sarà un processo alquanto complicato che verrà
indubbiamente avviato da Ottaviano Augusto.
Dopo la vittoria ad Azio su Marco Antonio e Cleopatra,
Ottaviano si ritrova, come in precedenza era stato per
il suo padre adottivo Giulio Cesare, solo padrone di
Roma.
A differenza degli altri condottieri che si erano
affrettati ad assumere su di sé il controllo politico,
Augusto, però, temporeggiò un poco in più e, in ogni
caso, non assunse alcun tipo di dittatura.
In realtà questo suo “temporeggiamento” durò dal 31 a.C.
al 27 a.C., durante i quali non solo rifiutò i vari
poteri offertigli dai senatori, come ad esempio la tribunicia
potestas, ma si “limitò” a ricoprire il consolato di
anno in anno.
Era evidente la provvisorietà di questa soluzione: per
rafforzare, rendere stabile il proprio potere e crearsi
un vasto raggio d’azione, Ottaviano non avrebbe potuto
semplicemente continuare ad essere console fino a che la
situazione glielo avesse permesso, d’altra parte
l’opzione dittatura era categoricamente esclusa.
Quindi un primo, vero e proprio colpo di scena si ebbe
il 13 Gennaio del 27 a.C.: nella seduta del Senato
tenutasi quel giorno, Ottaviano depose tutti i suoi
poteri e li “restituì” alla Repubblica.
In realtà li restituiva per appropriarsene in maniera
più approfondita e radicata.
Gli fu, infatti, attribuito subito il comando su una
provincia che comprendeva Gallia, Iberia e Siria. Tre
giorni dopo, il Senato, a dimostrazione di una smisurata
gratitudine, oltre ad altre onorificenze più che altro
simboliche, come la decorazione della soglia di casa sua
con alloro e quercia e la dedica di uno scudo aureo
nella Curia, gli conferì il titolo di Augustus,
che noi potremmo tradurre come l’ “Inaugurato”, ma le
cui valenze religiose vanno spiegate meglio.
Ottaviano, con quanta sincerità non sta a noi stabilire,
accettò questi onori ostentando più la rassegnazione di
chi, per eccessiva umiltà, non li avrebbe voluti, che la
sicurezza e l’orgoglio di un condottiero reduce da molte
e importanti battaglie.
Ma tutta questa cerimonia di consegna e attribuzione di
titoli e poteri cosa davvero significava? Cosa voleva
mascherare, qual era il reale passaggio che stava
avvenendo?
Primo passo per comprendere tutto questo è proprio
riflettere sull’attributo di Augustus.
Questa parola ha chiaramente la stessa radice di parole
come augur, ossia augure, il sacerdote che
presiede all’interpretazione dei segni divini tramite
l’osservazione del cielo, inauguratus, ossia
colui che ha subito la cerimonia di inaugurazione, cioè,
fino a che la carica è esistita, soprattutto il rex
che solo dopo di essa è autorizzato a governare, e della
stessa parola auctoritas.
Il significato di questa radice aug- è ben
esplicata dal verbo a cui ha dato vita, ossia augere,
che significa accrescere.
La funzione di “accrescimento” è un concetto centrale
fra quelli che hanno strutturato la religione romana.
Eloquente è il fatto che il rito religioso romano per
eccellenza, ossia il sacrificio, prevedesse una formula
come macte esto, che, rivolta al dio a cui si
sacrificava, assumeva proprio il significato di “sii
accresciuto”.
La funzione del sacrificio era, infatti, quella di
“accrescere” il potere e l’essenza delle divinità, quasi
come se gli alimenti a loro sacrificati, fossero del
semplice latte o il sangue di un bue, fornissero
nutrimento alla loro forza.
Così come gli dei “erano accresciuti” da questi riti,
chi era particolarmente “toccato” dalla loro influenza,
ne “era accresciuto” nella propria sostanza di essere
umano. Ciò non significava certo diventare degli esseri
semi-divini, ma semplicemente ricevere un
“accrescimento” rispetto alla normale condizione di
uomo.
è sotto
quest’ottica che la parola Augustus assume la
pienezza del suo significato. A Roma i consoli, pur
essendo gli eredi più “diretti” del rex, non
venivano inaugurati, quindi potremmo dire che Ottaviano
diveniva “l’inaugurato senza inaugurazione”, colui che
“era accresciuto” allo stesso modo del rex che
era tale solo se inauguratus, senza però essere
stato materialmente sottoposto alla cerimonia dell’inauguratio.
Abile soluzione, perché conferiva ad Ottaviano quella
particolare superiorità dell’inaugurato senza la
necessità di dover subire una cerimonia a cui non aveva
il diritto, la cui attuazione sarebbe stata vista come
un atto di forza e che avrebbe fatto ritornare,
soprattutto fra i senatori, per l’ennesima volta nel
giro di pochi anni, lo spauracchio della monarchia.
Ma l’attributo di Augustus è solo parte, sebbene
ideologicamente fondamentale, del “piccolo”, rispetto a
quello che verrà successivamente, capolavoro diplomatico
del 27.
Si è già accennato alla attribuzione ad Augusto di tre
province, la scelta delle quali non fu fatta certo a
caso.
Spagna, Gallia e Siria, infatti, erano i territori in
cui era di stanza la maggioranza delle truppe ed in
questa maniera Ottaviano se ne assicurava il controllo.
Si comprende bene come ciò significasse la possibilità
di porre un freno al pericolo delle guerre civili: la
stragrande maggioranza delle legioni era sotto il
comando di un unico uomo, adesso.
Questo provvedimento rimarrà importante anche a lungo
termine. La divisione, infatti, fra province senatorie,
governate alla “vecchia maniera” repubblicana, e
province imperiali sottoposte, invece, alla diretta
giurisdizione dell’imperator rimarrà per sempre un
tratto caratteristico del sistema dell’impero,
innescando, inoltre, insieme ad altri elementi, un
processo che porterà al costituirsi di una classe
dirigente parallela rispetto a quella dei senatori e più
strettamente legata alla persona dell’imperatore.
Per adesso questo potere attribuiva ad Ottaviano anche
la potestà proconsolare. Assieme ad essa, Augusto poté
associare la carica consolare, che nonostante la
“restituzione” dei poteri alla Repubblica, continuò a
ricoprire ancora, fino alla seconda svolta del 23.
Questa particolarissima procedura politica servì ad
Ottaviano per gettare le vere e reali basi di quella che
diverrà l’istituzione imperiale. L’atto di sottomissione
al Senato gli consentiva di tenersi lontano dalle accuse
di tendere alla monarchia e gli garantiva l’approvazione
della potente classe senatoriale, rassicurata dal fatto
che la sua dignità non era stata calpestata, ma anzi,
era stata ben presa in considerazione dall’uomo più
potente di Roma.
Il titolo di Augustus lo avvolgeva di una
particolare aura e influenza molto simile a quella del
re, senza, per questo, assomigliargli in maniera
pericolosa, non essendo stato Ottaviano materialmente ed
esplicitamente inaugurato.
L’imperium proconsolare, inoltre, lo dotava di
poteri in un’ampia fetta di territorio romano e gli
consentiva di portare alla normalizzazione la continua
emergenza guerra civile, che dipendeva dal fatto che gli
eserciti cambiassero fin troppo facilmente il proprio
condottiero.
Questa sistemazione durò fino a quando, nel 23, Augusto
non si accorse che la sua particolare posizione andasse
definita ancora meglio all’interno della politica
romana.