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N. 13 - Gennaio 2009 (XLIV)

AUGUSTO E LA FONDAZIONE DELL’IMPERO
Fra rivoluzione e restaurazione - parte I

di Bianca Misitano

 

Per Roma, la forma di governo che Ottaviano Augusto inaugurerà a più fasi, prima nel 27 e poi nel 23 a.C. sarà il cambiamento più importante della sua storia istituzionale e politica.


Con esso la vecchia Repubblica, che aveva dominato la scena dai tempi antichi della cacciata dell’ultimo re, sotto la quale l’espansione romana aveva raggiunto uno dei suoi apici e che era considerata da molti il modello istituzionale migliore al mondo, tramontava definitivamente.


L’emergere di rivalità politiche sempre più accanite, l’incapacità di opporsi alla forza degli eserciti personali di ambiziosi generali, l’impossibilità di gestire quello che era divenuto un impero smisurato da parte della sua capitale, che era governata ancora come una città-stato, tutti questi elementi concomitanti resero non solo necessario, ma addirittura vitale, un cambiamento radicale che riuscisse a ristabilire l’ordine.


Ma Augusto si troverà a fare i conti con una mentalità ed un’ideologia legate in maniera indissolubile al sistema repubblicano e fortemente radicate nella mentalità dei Romani e soprattutto di quelli fra di loro che avevano maggiore peso politico: i senatori.


La storia della cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, e la fondazione della repubblica condotta dai patrizi era rimasta impressa nella memoria dei latini come l’inizio della libertas per l’Urbe.


La soluzione repubblicana era risultata, inizialmente, di un’efficacia travolgente. Essa aveva consentito alla città di espandersi con successo e rapidamente e di sbaragliare potenti nemici come i Cartaginesi, dandogli la possibilità di proiettarsi nel Mediterraneo.

 
La repubblica romana divenne ben presto nel sentire comune l’immagine esemplare della migliore forma di governo possibile, con essa il popolo romano raggiunge la massima possibilità di autoaffermazione.


Questo sistema si differenzia, infatti, dalla monarchia perché il carattere collettivo di governo dello Stato si accentua in maniera ragguardevole. Se lo stato monarchico era guidato da un solo uomo in cui risiedeva gran parte del potere, ora Roma era diretta dal senatus populusque, adesso i cittadini romani si arrogavano il diritto di guidare e amministrare direttamente la propria città.


Il carattere conservatore dei Romani unito a questa concezione di repubblica come tappa fondamentale per l’autoaffermazione di Roma e dei suoi abitanti creò una forte avversione verso la monarchia, alimentata, all’epoca del crollo repubblicano, dal sorgere di molte personalità che avrebbero potuto, per l’opera di accentramento dei poteri, assumere nuovamente il titolo di rex. Fu proprio questo timore, fra l’altro, a portare all’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C.


Fu proprio la difficoltà di conciliare questo particolare modo di pensare con l’esigenza di un governo nuovo, che riordinasse e sostituisse l’ormai inetta direzione repubblicana a far fallire vari tentativi di “rivoluzione”.

Due uomini sfiorarono forse una soluzione: Silla prima e Cesare poi. Il loro sbaglio, probabilmente, stava proprio nel carattere esplicitamente rivoluzionario della loro opera e nel fatto che mirarono ad una semplice giustapposizione del loro potere rispetto alle altre cariche magistratuali.


Entrambi, essenzialmente, si affidarono all’unica carica che poteva dare loro un potere pressoché assoluto e che era l’unica a conservare caratteristiche vicine a quelle attribuite ai re: la dittatura.


La figura del dictator era parte integrante del sistema di poteri che caratterizzavano la repubblica, ma per una cosa si distingueva da quelli: la sua eccezionalità.


Un dictator, infatti, disponeva di poteri molto più estesi di quelli dei consoli, era infatti detentore dell’imperium maximum, ossia le sue prerogative non potevano essere limitate da nessuno. Non aveva colleghi né era soggetto al veto dei tribuni, né i consoli potevano avere alcuna influenza su di lui.


L’investitura di un dictator avveniva esclusivamente in situazioni di estrema emergenza, spesso per risollevare le sorti di una guerra dall’andamento poco tranquillizzante. Una dittatura poteva durare al massimo sei mesi. Il suo carattere di singolarità era, quindi, chiaro.


Silla e Cesare decisero di servirsene, invece, per creare una situazione in cui la loro carica dittatoriale divenisse permanente.


Silla divenne infatti dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae, particolare forma di dittatura al fine di “riformare la repubblica”, clausola, questa, che significava consentirgli di mantenere la carica finchè le riforme non fossero terminate, ossia, in altri termini, fin quando egli stesso lo avesse ritenuto opportuno.


Cesare arrivò ad assumere un tipo di dittatura molto più esplicita, ottenendo la nomina di dictator perpetuus, ossia dittatore a vita.


Sia l’azione di Silla che quella di Cesare, sebbene, forse, creassero le premesse alla comparsa di una figura potente e dal potere fortemente accentrato, non avrebbero potuto mai avere seguito, anzi, con un atto simile Cesare segnò addirittura la sua condanna a morte.


Il motivo è molto semplice e concreto: una dittatura assunta negando ciò che ne era fondamentalmente il suo unico limite, ossia il termine di tempo, significava lanciare un’aperta sfida al potere del Senato e alla capacità di autogoverno romana, quest’ultima cardine centrale, anche se ormai guasto in maniera irreversibile, dell’ideale di Roma.


Il Senato non avrebbe mai potuto sottomettersi ad una così esplicita prevaricazione nei suoi confronti, non avrebbe mai potuto ammettere di doversi ridurre ad organo di potere secondario rispetto all’immagine del dictator.


La carica di imperator conserverà il carattere di eccezionalità negli istituti romani, ma la sua forza inizialmente starà nel non negare alcun potere alle strutture governative repubblicane o perlomeno non in teoria.

Forte conservatorismo nei riguardi dell’ordine romano costituito, garantito, di fronte agli uomini e agli dei, dal diritto; avversione e rifiuto della monarchia; manifesta impossibilità di creare una carica istituzionale che si mettesse esplicitamente al di sopra degli altri poteri: con questi forti punti fermi, come attuare una rivoluzione che ne tenesse conto?

 

In realtà sarà un processo alquanto complicato che verrà indubbiamente avviato da Ottaviano Augusto.


Dopo la vittoria ad Azio su Marco Antonio e Cleopatra, Ottaviano si ritrova, come in precedenza era stato per il suo padre adottivo Giulio Cesare, solo padrone di Roma.


A differenza degli altri condottieri che si erano affrettati ad assumere su di sé il controllo politico, Augusto, però, temporeggiò un poco in più e, in ogni caso, non assunse alcun tipo di dittatura.


In realtà questo suo “temporeggiamento” durò dal 31 a.C. al 27 a.C., durante i quali non solo rifiutò i vari poteri offertigli dai senatori, come ad esempio la tribunicia potestas, ma si “limitò” a ricoprire il consolato di anno in anno.


Era evidente la provvisorietà di questa soluzione: per rafforzare, rendere stabile il proprio potere e crearsi un vasto raggio d’azione, Ottaviano non avrebbe potuto semplicemente continuare ad essere console fino a che la situazione glielo avesse permesso, d’altra parte l’opzione dittatura era categoricamente esclusa.


Quindi un primo, vero e proprio colpo di scena si ebbe il 13 Gennaio del 27 a.C.: nella seduta del Senato tenutasi quel giorno, Ottaviano depose tutti i suoi poteri e li “restituì” alla Repubblica.


In realtà li restituiva per appropriarsene in maniera più approfondita e radicata.


Gli fu, infatti, attribuito subito il comando su una provincia che comprendeva Gallia, Iberia e Siria. Tre giorni dopo, il Senato, a dimostrazione di una smisurata gratitudine, oltre ad altre onorificenze più che altro simboliche, come la decorazione della soglia di casa sua con alloro e quercia e la dedica di uno scudo aureo nella Curia, gli conferì il titolo di Augustus, che noi potremmo tradurre come l’ “Inaugurato”, ma le cui valenze religiose vanno spiegate meglio.


Ottaviano, con quanta sincerità non sta a noi stabilire, accettò questi onori ostentando più la rassegnazione di chi, per eccessiva umiltà, non li avrebbe voluti, che la sicurezza e l’orgoglio di un condottiero reduce da molte e importanti battaglie.


Ma tutta questa cerimonia di consegna e attribuzione di titoli e poteri cosa davvero significava? Cosa voleva mascherare, qual era il reale passaggio che stava avvenendo?


Primo passo per comprendere tutto questo è proprio riflettere sull’attributo di Augustus.

 

Questa parola ha chiaramente la stessa radice di parole come augur, ossia augure, il sacerdote che presiede all’interpretazione dei segni divini tramite l’osservazione del cielo, inauguratus, ossia colui che ha subito la cerimonia di inaugurazione, cioè, fino a che la carica è esistita, soprattutto il rex che solo dopo di essa è autorizzato a governare, e della stessa parola auctoritas.

 

Il significato di questa radice aug- è ben esplicata dal verbo a cui ha dato vita, ossia augere, che significa accrescere.


La funzione di “accrescimento” è un concetto centrale fra quelli che hanno strutturato la religione romana.


Eloquente è il fatto che il rito religioso romano per eccellenza, ossia il sacrificio, prevedesse una formula come macte esto, che, rivolta al dio a cui si sacrificava, assumeva proprio il significato di “sii accresciuto”.


La funzione del sacrificio era, infatti, quella di “accrescere” il potere e l’essenza delle divinità, quasi come se gli alimenti a loro sacrificati, fossero del semplice latte o il sangue di un bue, fornissero nutrimento alla loro forza.


Così come gli dei “erano accresciuti” da questi riti, chi era particolarmente “toccato” dalla loro influenza, ne “era accresciuto” nella propria sostanza di essere umano. Ciò non significava certo diventare degli esseri semi-divini, ma semplicemente ricevere un “accrescimento” rispetto alla normale condizione di uomo.


è sotto quest’ottica che la parola Augustus assume la pienezza del suo significato. A Roma i consoli, pur essendo gli eredi più “diretti” del rex, non venivano inaugurati, quindi potremmo dire che Ottaviano diveniva “l’inaugurato senza inaugurazione”, colui che “era accresciuto” allo stesso modo del rex che era tale solo se inauguratus, senza però essere stato materialmente sottoposto alla cerimonia dell’inauguratio.


Abile soluzione, perché conferiva ad Ottaviano quella particolare superiorità dell’inaugurato senza la necessità di dover subire una cerimonia a cui non aveva il diritto, la cui attuazione sarebbe stata vista come un atto di forza e che avrebbe fatto ritornare, soprattutto fra i senatori, per l’ennesima volta nel giro di pochi anni, lo spauracchio della monarchia.


Ma l’attributo di Augustus è solo parte, sebbene ideologicamente fondamentale, del “piccolo”, rispetto a quello che verrà successivamente, capolavoro diplomatico del 27.


Si è già accennato alla attribuzione ad Augusto di tre province, la scelta delle quali non fu fatta certo a caso.

 

Spagna, Gallia e Siria, infatti, erano i territori in cui era di stanza la maggioranza delle truppe ed in questa maniera Ottaviano se ne assicurava il controllo. Si comprende bene come ciò significasse la possibilità di porre un freno al pericolo delle guerre civili: la stragrande maggioranza delle legioni era sotto il comando di un unico uomo, adesso.


Questo provvedimento rimarrà importante anche a lungo termine. La divisione, infatti, fra province senatorie, governate alla “vecchia maniera” repubblicana, e province imperiali sottoposte, invece, alla diretta giurisdizione dell’imperator rimarrà per sempre un tratto caratteristico del sistema dell’impero, innescando, inoltre, insieme ad altri elementi, un processo che porterà al costituirsi di una classe dirigente parallela rispetto a quella dei senatori e più strettamente legata alla persona dell’imperatore.


Per adesso questo potere attribuiva ad Ottaviano anche la potestà proconsolare. Assieme ad essa, Augusto poté associare la carica consolare, che nonostante la “restituzione” dei poteri alla Repubblica, continuò a ricoprire ancora, fino alla seconda svolta del 23.


Questa particolarissima procedura politica servì ad Ottaviano per gettare le vere e reali basi di quella che diverrà l’istituzione imperiale. L’atto di sottomissione al Senato gli consentiva di tenersi lontano dalle accuse di tendere alla monarchia e gli garantiva l’approvazione della potente classe senatoriale, rassicurata dal fatto che la sua dignità non era stata calpestata, ma anzi, era stata ben presa in considerazione dall’uomo più potente di Roma.


Il titolo di Augustus lo avvolgeva di una particolare aura e influenza molto simile a quella del re, senza, per questo, assomigliargli in maniera pericolosa, non essendo stato Ottaviano materialmente ed esplicitamente inaugurato.


L’imperium proconsolare, inoltre, lo dotava di poteri in un’ampia fetta di territorio romano e gli consentiva di portare alla normalizzazione la continua emergenza guerra civile, che dipendeva dal fatto che gli eserciti cambiassero fin troppo facilmente il proprio condottiero.


Questa sistemazione durò fino a quando, nel 23, Augusto non si accorse che la sua particolare posizione andasse definita ancora meglio all’interno della politica romana.



 

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