antica
AUGUSTO
E LA CREAZIONE DEL PRINCIPATO
TRA POLITICA E IDEOLOGIA
di Francesca Lorenzini
Uno degli argomenti più affascinanti e
dibattuti della storia antica è senza
dubbio la creazione del Principato e il
suo successivo consolidamento come
formula costituzionale decisamente
innovativa nel panorama politico antico.
Fin dalle scuole elementari sentiamo
parlare in modo generico della nascita
del grandioso Impero Romano e iniziamo
ad acquisire familiarità con alcuni dei
nomi di quei personaggi che, con un po’
di vanto, siamo soliti definire come “i
nostri prestigiosi antenati”.
Se, infatti, volessimo fare maggiore
chiarezza su tale argomento ci
troveremmo di fronte a una serie di
domande che potrebbero sembrare solo
apparentemente di facile risposta.
Alcuni esempi di questi interrogativi
potrebbero essere: Quando e come nacque
l’Impero Romano? Quali furono i suoi
protagonisti? La sua creazione fu un
progetto privo di ostacoli e di
immediata realizzazione?
Non è certo un caso se, ancora oggi,
tali domande diano vita a un acceso e
variegato dibattito storico tra gli
studiosi più esperti di questo fenomeno.
Ma, come ogni storia degna di essere
raccontata e “ vissuta ” è necessario
procedere per gradi e partire da ciò che
può essere considerato convenzionalmente
come il suo inizio ovvero lo scontro
finale tra Marco Antonio e Ottaviano.
Quest’ultimo, dopo aver sconfitto
l’acerrimo nemico ed ex-triumviro nella
battaglia navale di Azio il 2 settembre
del 31 a.C., si ritrovò a essere
l’indiscusso padrone dello Stato Romano.
A tale periodo si è soliti far risalire
l’inizio del Principato augusteo, ovvero
un regime istituzionale instaurato e
incentrato sulla figura di un unico
reggitore, il princeps.
Ma il processo non fu così semplice.
Infatti, il giovane figlio del Divo
Cesare, divenuto Augusto nel 27 a.C.,
titolo onorifico concessogli dal Senato
per i suoi meriti e le sue virtù
esclusive, dovette affrontare, infatti,
diverse problematiche, prima fra tutte
quella dell’ingombrante eredità di una
res publica lacerata nel tempo e
smembrata definitivamente dalle guerre
civili.
Il triennio 30-27 a.C. divenne, così,
determinante per l’impostazione di un
progetto governativo rivoluzionario, che
si proponeva, come scopo primario, il
ritorno di un duraturo periodo di pace
all’interno dello Stato Romano. Frutto
di lungimiranza e abilità politica, il
miracolo del “camaleontico Augusto”,
come lo definì nella metà del IV secolo
l’imperatore Giuliano nella sua opera
satirica, I Cesari, fu quello di
non rompere del tutto con la precedente
tradizione che aveva reso Roma una
potenza su scala mediterranea.
Attraverso un processo di continua
sperimentazione, Augusto cercò infatti
di coniugare, in base alle contingenze e
alle necessità del momento, l’assetto
repubblicano e le sue principali
istituzioni, (Magistrature urbane,
Senato, Popolo) con una nuova forma
politico-istituzionale di stampo
monarchico. Con questa audace operazione
non poteva però rischiare di commettere
lo stesso errore di Cesare
presentandosi, a tutti gli effetti, come
dittatore, un monarca assoluto. Una
svolta dichiaratamente autocratica,
infatti, avrebbe portato Augusto in
aperta collisione con i principi della
defunta repubblica ancora tanto cara ad
alcuni nostalgici senatori. Così, per
non urtare in maniera irreparabile gli
animi di alcuni di questi, attraverso la
mirata propaganda, di una res publica
restaurata, Augusto tracciò,
gradualmente, la via per una nuova
architettura statale, che avrebbe dovuto
poggiare su un’ossatura già ben nota ai
Romani.
Si trattava ovviamente di una menzogna
confezionata ad hoc, una
monarchia mascherata sotto la forma di
una finta repubblica “resuscitata” in
tutti i suoi aspetti. La peculiarità del
principato augusteo fu quella di
mantenere intatto, almeno a parole e nei
suoi aspetti esteriori, quell’involucro
essenziale della res publica che
nel tempo fu privata di tutte le sue
principali prerogative. Queste furono,
infatti, riversate nella persona del
princeps.
Per dare l’impressione di una repubblica
rinata e “rimessa a nuovo” come macchina
statale della tradizione, Augusto cercò
astutamente di creare, soprattutto nei
primi anni, una sorta di doppia
gestione, una diarchia che aveva come
protagonisti essenziali egli stesso
nella persona di princeps e i due
attori repubblicani per eccellenza: il
Senato e il Popolo Romano. Al contrario
di molte supposizioni, questo disegno
politico, escamotage di successo,
non fu quindi il frutto di una chiara e
già delineata scelta politica messa in
atto freddamente.
Il cambio di prospettive politiche era
necessario ma, era altrettanto
opportuno, conseguirlo in maniera
progressiva e nel modo più lecito
possibile agli occhi di tutti. Le parole
chiave di Augusto furono, quindi,
prudenza e pazienza, strumenti necessari
per muoversi in un contesto complicato
come quello immediatamente successivo
alla fine delle guerre civili. Non è un
caso che lo storico Tacito, molti anni
dopo, nella sua opera gli Annales
in modo sottile e non troppo velato
scrivesse a tal proposito «[...] Roma
era quieta; le magistrature mantenevano
gli stessi nomi; i più giovani erano
nati dopo la vittoria di Azio e la
maggior parte dei vecchi in mezzo alle
guerre civili: quanti restavano, dunque,
di quelli che avevano visto la
Repubblica?»
Per
portare avanti la macchina statale
Augusto aveva bisogno di attuare una
personalizzazione di questo progetto
che, con il tempo, gli permettesse di
emergere e di assumere una posizione di
predominio. Per questo, in qualità di
princeps, egli comprese, fin da
subito, come fosse vitale per la sua
persona poter accedere a determinati
poteri, avendo l’opportunità di
esercitarli in maniera riconosciuta e
ufficiale. A partire dal 27 a.C.,
quindi, attraverso il tanto ricercato
consensus universorum, Augusto fu
dotato di tre prerogative essenziali che
gli permisero di reggere lo Stato in
maniera solida fino alla fine dei suoi
giorni.
Si trattava di privilegi politici come
la cosiddetta auctoritas, la
quale, in quanto peculiarità esclusiva,
sottolineava il suo carisma assoluto;
l’imperium proconsulare, divenuto
maius molto probabilmente a
partire dal 23 a.C., che gli permetteva
di agire con i pieni poteri di un
promagistrato su tutte le province non
pacificate. Infine, la tribunicia
potestas, anch’essa ottenuta nello
stesso anno.
Egli, attraverso l’esercizio della
tribunicia, vitalizia, ma rinnovata
annualmente, diveniva, a tutti gli
effetti, il principale protettore della
plebs, stabilendo un contatto
privilegiato con il popolo. Inoltre,
servendosi dell’intercessio,
poteva disporre del diritto di mettere
il veto a determinate decisioni, mentre,
usufruendo della sacrosanctitas,
faceva in modo che la sua persona
fosse riconosciuta come sacra e
inviolabile.
Da sottolineare, inoltre, il
fatto che Augusto non assunse mai
le magistrature riferibili a tali poteri
ma ne acquisì le potenzialità
espressivo-coercitive. Proprio al
culmine del successo politico e
personale, nel 23 a.C., a seguito di una
malattia e di una congiura ai suoi danni
Augusto rischiò un vuoto istituzionale.
Uno degli aspetti più delicati era,
infatti, la sopravvivenza stessa di tale
schema delineato, fino a quel momento,
con grandi sforzi. Augusto, ossessionato
dal proposito di assicurare continuità
al suo progetto, non potendo permettersi
che tale meccanismo subisse battute
d’arresto, arrivò a elaborare un piano
per la sua successione. Il suo obiettivo
fu quindi quello di garantirsi una
personale discendenza che fosse solida
nelle sue basi.
Probabilmente, l’unica grande debolezza
di Augusto fu quella di non aver
impresso una svolta chiara ed efficace
alla sua politica di successione. Il
problema era assai intricato proprio
perché i poteri di quest’ultimo, come
anzidetto, non costituivano una vera e
propria carica. Questi poteri, proprio
per il loro statuto speciale, non
potevano essere esplicitamente trasmessi
con un atto ufficiale che sarebbe
risultato lesivo delle prerogative
dell’ordinamento repubblicano appena
restaurato.
Il princeps, cercò, così, di
esaltare il ruolo della sua famiglia e
di alcuni suoi strettissimi componenti
ma, anche questo, divenne nel tempo un
ostacolo alla sua strategia dinastica,
visto che tutti gli eredi via via
designati morirono ben prima di lui. In
assenza di figli maschi diretti, sua
figlia, Giulia Maggiore, avuta dalla
seconda moglie Scribonia, divenne il
fulcro delle sue mire. Nel 25 a.C.
Giulia, infatti, venne data in moglie a
Marcello, nipote diretto di Augusto in
quanto figlio della sorella Ottavia.
Fu proprio Marcello il primo a
condividere i poteri con il princeps,
ma nel 23 a.C. morì prematuramente.
Augusto fu così costretto a designare un
altro successore combinando un secondo
matrimonio, tra la figlia Giulia e il
suo fidatissimo collaboratore Marco
Vipsanio Agrippa. Da questa unione
nacquero due figli maschi, gli adorati
nipoti Gaio e Lucio. Anche questi
ultimi, da lui adottati e designati
eredi nel 17 a.C., morirono
rispettivamente nel 2 d.C. e nel 4 d.C.
Il 4 d.C. fu quindi un anno decisivo nel
quale, Augusto, non potendo più
privilegiare un criterio basato sulla
successione di un erede del suo stesso
sangue, dovette ripiegare su Tiberio,
ottimo generale nato da una precedente
relazione della moglie Livia con Tiberio
Claudio Nerone.
Anche Tiberio, appartenente in origine
alla Gens Claudia ma passato alla
Gens Giulia grazie all’adozione
di Augusto, condivise i poteri
principali con quest’ultimo. Per volere
dello stesso Augusto, Tiberio fu
costretto ad adottare come suo
successore Germanico, figlio di suo
fratello Druso Maggiore e di Antonia
Minore, la figlia della sorella di
Augusto, Ottavia.
Con questo atto Augusto pose il primo
mattone per la creazione di una dinastia
al potere. Alla sua morte, nel 14. d.C.,
Tiberio fu proclamato imperatore. Aveva
così inizio la dinastia Giulio-Claudia.
Riferimenti bibliografici:
Cornelio Tacito,
Tutte le opere,
Annales, a cura di R. Oniga,
Einaudi, Torino 1998.
Jacques F., Scheid J., Roma e il suo
Impero, Laterza, Bari 2005.
K.A. Raaflaub, L.J. Samons,
Between Republic and Empire,
University of California Press,
Berkeley-Los Angeles 1990.
Marcone A., Augusto, Salerno
Editrice, Roma 2015.
R. Syme, La rivoluzione romana,
trad. it., Einaudi, Torino 1962. |