N. 123 - Marzo 2018
(CLIV)
su Attilio Momigliano
UN critico appartato e perseguitato
di Gaetano Cellura
Il 5
settembre
del
1938
il
professore
e
critico
letterario
Attilio
Momigliano
viene
scacciato
dall’Università
di
Firenze
in
quanto
ebreo.
Al
latinista
Concetto
Marchesi
che
gli
manifesta
la
sua
solidarietà,
risponde:
“Caro
Concetto,
ti
ringrazio;
mi
rimangono
gli
studi
e
gli
amici:
fra
questi
tu
mi
sei
uno
dei
più
desiderati”.
La
cattedra
di
Firenze
era
una
delle
più
ambite:
ciononostante
Massimo
Bontempelli,
accademico
d’Italia,
si
rifiutò
di
occuparla
ed
“ebbe
il
coraggio
–
come
scrive
un
altro
Momigliano,
Eucardio,
nella
Storia
tragica
e
grottesca
del
razzismo
fascista
– di
dirne
il
motivo
al
Ministro
dell’educazione
dell’epoca”.
Per
il
Momigliano
la
critica
doveva
iniziare
dalla
lettura
e
dalla
rilettura.
“Dobbiamo
scavare
nelle
parole
del
poeta,
finché
ne
emerga
tutta
la
vita
che
egli
vi
ha
messo”,
scrive
nel
saggio
del
1928
L’interpretazione
della
poesia.
Nello
stesso
anno
pubblica
altre
due
opere:
il
Saggio
sull’Orlando
Furioso
(poema
del
“nobile
sognare”,
poema
in
cui
l’Ariosto
sogna
a
occhi
aperti)
e
Impressioni
di
un
lettore
contemporaneo,
la
raccolta
degli
elzeviri
pubblicati
tra
il
1916
e il
1927.
“Il
mio
libro
più
infelice”,
confida
al
Marzot.
E
forse
all’infelicità
del
libro,
più
d’impressioni
che
di
veri
e
propri
studi,
una
mano
la
danno
gli
autori
che
vi
prende
in
esame:
dal
D’Annunzio
al
Graf;
dal
Pascoli
al
Papini.
O
meglio,
una
mano
la
dà
la
sua
idea
non
proprio
favorevole
sulla
lirica
post-carducciana.
Salva
solo
il
Pascoli
della
poesia
La
tessitrice,
che
mai
si
frantuma,
mai
perde
continuità:
una
poesia
che
lo
avvicina
al
Petrarca
e
che
lo
colloca
“fra
i
nostri
maggiori
poeti
d’amore”.
Nato
a
Ceva
nel
1883,
Momigliano
si
laurea
a
Torino
nel
1905
con
una
tesi
su
L’indole
e il
riso
di
Luigi
Pulci.
Due
anni
dopo
Arturo
Graf,
suo
docente
all’università,
lo
chiama
alla
redazione
del
Giornale
storico
della
letteratura
italiana,
palestra
di
tanti
giovani
studiosi
e
principale
organo
della
scuola
del
“metodo
storico”.
Nel
1910
entra
nella
loggia
massonica
Vittorio
Alfieri
di
Asti.
Sin
da
giovane
insegna
nelle
scuole
medie
di
diverse
città
e
dal
1916
inizia
la
carriera
universitaria:
prima
a
Torino,
poi
a
Catania,
a
Pisa
e a
Firenze.
Mai
iscritto
al
PNF,
nel
1925
firma
il
manifesto
antifascista
di
Benedetto
Croce.
Attilio
Momigliano
ha
appena
ventidue
anni
quando
scrive
il
primo
dei
numerosi
saggi
su
Manzoni:
Perché
don
Rodrigo
muore
sul
suo
giaciglio?
Saggi
che
hanno
avuto
un’influenza
notevole
sugli
studi
manzoniani
del
primo
cinquantennio
del
Novecento.
Manzoni
è –
con
Dante,
il
Goldoni
e il
Porta
–
l’autore
cui
il
Momigliano
rivolge
l’attenzione
maggiore.
Della
lotta
interiore
dell’Innominato
dice
con
enfasi
che
è
“la
più
alta
e la
più
densa
poesia
dell’anima
che
sia
mai
uscita
dalla
penna
di
un
italiano”.
Manzoni
ha i
piedi
sulla
terra
e
l’anima
in
cielo:
perfetto
è
nell’autore
dei
Promessi
sposi
l’equilibrio
del
divino
e
dell’umano.
La
dedizione
del
Momigliano
all’ufficio
delle
lettere
è
totale.
Nel
1934
esce
la
sua
Storia
della
letteratura
italiana
(rivista
e
aggiornata
in
otto
edizioni
–
ultima
quella
del
1950).
Le
cui
pagine
migliori
sono
per
Francesco
De
Sanctis:
“Prima
di
lui
–
scrive
–
non
sapevamo
cosa
fosse
una
storia
della
letteratura,
e
poco
sapevamo
che
fosse
critica
di
poesia”.
Alla
Storia
del
De
Sanctis
tutti
hanno
attinto
e
nessuno
ha
recato
“un
sostanziale
arricchimento”.
Con
Elzeviri
e
Cinque
saggi
il
Momigliano
si
avvia
verso
i
suoi
ultimi
studi.
Nel
primo
raccoglie
gli
articoli
dal
1921
al
1938:
pagine
che
spaziano
da
Dante
al
Boccaccio;
dal
Bandello
al
Goldoni;
dal
Leopardi
alla
poetica
del
decadentismo.
Nel
secondo
si
occupa
della
poesia
neoclassica,
della
lirica
del
Campanella,
della
prosa
di
Leonardo
(in
cui
convivono
il
poeta
e lo
scienziato),
del
carteggio
di
Leopardi
e
della
Cronica
di
Salimbene.
Del
1946
è
Introduzione
ai
poeti,
di
cui
restano
impresse
le
parole
sul
Petrarca:
contemplativo,
malinconico
e
solitario
anche
quando
fa
elegia
politica.
Il
saggio
più
impegnativo
di
questa
Introduzione
riguarda
Giosuè
Carducci,
“l’ultima
tempra
d’uomo
che
abbia
avuto
la
nostra
poesia,
l’ultimo
poeta
che
nel
mondo
non
abbia
veduto
soltanto
se
stesso,
ma
il
mondo”.
Alla
sua
segue
una
poesia
arida,
priva
di
impeti
e di
grandi
motivi;
una
poesia
che
non
trascina
e
non
incanta.
E
c’è
in
questa
disposizione
critica
del
Momigliano
per
la
lirica
post-carducciana
il
pregiudizio
dello
studioso
educato
al
classicismo
e
che
da
quel
mondo
non
sapeva
uscire.
In
un’altra
raccolta
di
articoli,
Ultimi
studi,
esprime
giudizi
positivi
su
Saba,
“il
poeta
vivente
più
ricco
di
esperienza
interiore”;
e
sulla
Serao,
nelle
cui
pagine
– di
ineguagliato
verismo
–
vede
fissate
la
vita
quotidiana
di
Napoli
e la
fisionomia
del
suo
popolo.
In
questi
studi
rimpiange
la
cessata
pubblicazione
–
nel
dicembre
del
1944
–
della
rivista
La
Critica
di
Benedetto
Croce.
“Per
quarantadue
anni
–
scrive
– ha
accompagnato
la
vita
di
migliaia
di
italiani
e
stranieri,
e la
mia”.
E
Dante?
Cosa
pensa
il
Momigliano
delle
tre
cantiche
della
Divina
Commedia?
Pensa,
analogamente
al
De
Sanctis,
che
il
più
fantastico
dei
nostri
poemi
è il
più
reale.
Entrando
nel
regno
dei
morti,
Dante
vi
porta
tutte
le
passioni
dei
vivi,
si
trascina
tutta
la
terra.
Momigliano
predilige
L’Inferno,
dove
“gli
spiriti
sentono
la
nostalgia
della
terra,
ma
come
un
ricordo
pungente”.
Nel
Purgatorio,
immerso
in
un’aria
di
lontananza
dal
mondo
abitato,
la
“nostalgia
non
duole”.
Per
le
sue
anime,
vita
e
storie
terrene
sono
remoti
ricordi,
“un
motivo
di
serena
elegia”.
Quanto
al
Paradiso,
se
noi
dovessimo
giudicare
Dante
solo
attraverso
questa
cantica,
ci
dice
il
grande
critico,
non
ne
verrebbe
fuori
“propriamente
la
figura
di
un
poeta
ricchissimo
d’umana
interiorità”.
Nel
Paradiso
Dante
si
concentra
su
motivi
teologici
e
politici,
sui
grandi
fatti
della
storia
della
Chiesa.
Che
infine
“immerge
e
sommerge
in
un’atmosfera
d’estasi
e di
gaudio
celeste”.
L’opera
cui
Momigliano
lavorò
nel
momento
più
angoscioso
della
vita
è il
Commento
alla
Gerusalemme
liberata.
Venne
pubblicato
nel
1946,
ma
cominciò
a
scriverlo
alla
fine
dell’estate
del
‘43:
e
già
si
erano
sparse
–
scrive
nella
premessa
–
“le
prime
voci
intorno
alle
intenzioni
dell’Anticristo”.
Con
la
moglie
ammalata,
la
signora
Haydée,
morta
nel
1950,
due
anni
prima
di
lui,
dopo
aver
peregrinato
da
Firenze
a
Bologna
e
poi
a
Città
di
Castello,
si
rifugiò
in
una
cameretta
dell’ospedale
di
Borgo
San
Sepolcro
grazie
all’intercessione
di
alcuni
amici.
E vi
rimase
otto
mesi,
durante
i
quali
scrive
il
Commento
al
capolavoro
del
Tasso,
“poema
d’un
poeta
immortale”
che
nel
racconto
di
“vicende
elegiache
o
amorose”
dà
il
meglio
di
sé.
Nella
persecuzione
razziale
di
cui
era
vittima
vide,
come
scrisse
il
Fubini,
il
preannuncio
di
una
tragedia
più
vasta
e
tremenda.
Momigliano
si
chiuse
nella
propria
solitudine
e
nel
proprio
lavoro,
dignitosamente
e
senza
alcun
rancore
per
la
malvagità
altrui.
Continuò
a
pubblicare
con
il
nom
de
plume
di
Giorgio
Flores.
Erano
i
libri,
la
lettura
dei
poeti
– il
Tasso
e
Dante
su
tutti
–
che
gli
permettevano
di
“scappare
lontano
dal
mondo”
in
tempi
così
disumani.
Le
lettere
alla
sorella
Clelia,
agli
amici,
a ex
allievi,
raccolte
dopo
la
sua
morte
in
Lettere
scelte,
sono
tra
le
testimonianze
più
vive
del
periodo
storico
che
va
dal
1938
al
1945.
Una
delle
più
significative,
concitate
e
commoventi
la
scrive
al
suo
ex
allievo
Vittore
Branca,
giovane
membro
del
CLN
della
Toscana.
Pregandolo
di
mettere
in
salvo
i
libri
e
gli
scritti
che
aveva
lasciato
a
casa.
A
Borgo
San
Sepolcro
Momigliano
è
esposto
a
pericoli
d’ogni
genere
(tedeschi,
repubblichini,
bombardamenti,
tifo);
e
per
due
mesi
lui
e la
moglie
dormono
per
terra,
in
un
corridoio
dell’ospedale,
tra
l’odore
dei
moribondi
e il
fracasso
delle
cannonate.
Lì
conosce
un
vescovo,
“un
santo
vescovo”,
che
diceva
degli
orrori
di
quegli
anni:
“Dio
non
li
vuole,
li
permette”.
E
dove
sta
la
differenza?
Hitler
è
l’Anticristo,
ma
non
cade
foglia
che
Dio
non
voglia.
Se
un
tempo
il
critico
ha
avuto
delle
aspirazioni
religiose,
ora
si
sorprende
in
pensieri
opposti.
Nella
prefazione
al
suo
Commento
alla
Gerusalemme
liberata
parla
di
quei
giorni
a
Borgo
San
Sepolcro,
ogni
minuto
con
il
terrore
che
un
calcio
improvviso
poteva
spalancare
la
sua
porta.
Ed è
la
poesia
che
lo
salva,
concedendogli
tutti
i
giorni
due
o
tre
ore
di
assenza
dal
mondo.
“Se
per
questa
–
dice
– io
sono
sempre
vissuto,
per
questa
sono
sopravvissuto”.
Il 7
febbraio
del
1945
Momigliano
pubblica
un
articolo
su
La
Nazione
del
Popolo
che
s’intitola
Lanzichenecchi
di
ieri
e di
oggi.
In
cui
parla
della
rilettura,
durante
la
persecuzione
razziale,
dei
capitoli
28,29
e 30
dei
Promessi
sposi.
In
ogni
pagina
gli
pareva
di
leggere
l’attualità:
con
i
suoi
casi
di
prepotenza
e di
barbarie.
Per
concludere
amaramente
che
“la
storia
continua
e
non
cambia,
e
che
di
propriamente
nuovo
sotto
la
faccia
splendida
del
sole
non
c’è
mai
nulla”.
Manzoni
era
vissuto
per
il
Momigliano
in
tempi
idillici
rispetto
a
quelli
in
cui
lui
viveva:
e
certo
i
lanzichenecchi
gli
sarebbero
parsi
dei
poveri
untorelli
di
fronte
alla
perfidia
e
alla
crudeltà
delle
SS.
Attilio
Momigliano,
tra
tante
opere,
ci
lascia
anche
due
antologie
scolastiche:
Dalle
origini
al
Novecento
(1934)
per
gli
istituti
tecnici
e
La
nostra
giornata
(1946)
per
le
scuole
medie
inferiori.
Il
fatto
nuovo
di
questi
due
testi,
che
ci
mostrano
la
sua
finezza
di
educatore,
è il
modo
diretto
con
cui
si
rivolge
agli
studenti.
Un
esempio?
Parla
della
poesia
Pianto
antico
e
dice
(allo
studente):
“È
tanto
semplice
che
la
puoi
apprezzare
anche
tu”.
Questo
era
Momigliano,
aperto
e
franco,
timido
e
appartato.
E
dalla
personalità
limpida.
Per
lui
la
critica
era
ricerca
erudita
e,
come
dice
il
Fubini
in
Critica
e
poesia,
meditato
colloquio
con
l’autore.
Poesia,
vita
del
poeta
e
tempo
storico
erano
un’unica
cosa,
inscindibile.
Amava
l’elzeviro:
e
tanti
ne
scrisse
da
farlo
ritenere
qualche
volta
un
“giornalista”
della
critica.
Nelle
lettere,
la
cui
lettura
permette
di
osservarlo
intimamente,
scrive
che
se
non
si è
grandi
scrittori
la
parola
può
diventare
inganno:
“con
tutta
la
buona
volontà
di
essere
sinceri
è
sempre
più
o
meno
menzogna”.