N. 97 - Gennaio 2016
(CXXVIII)
L'EPOCA
OSCURA DI
ATENE
STORIA
DEL
REGIME
DEI
TRENTA
TIRANNI
di Giulio
Talini
Atene,
404
a.C.
La
polis
della
democrazia
e di
Pericle
era
letteralmente
in
ginocchio:
circondati
da
ogni
parte
dalle
truppe
spartane,
affamati
dal
blocco
delle
navi
dello
spartano
Lisandro,
“il
re
senza
corona
della
Grecia”
(E.
Meyer),
agli
Ateniesi
non
restava
che
trattare.
La
Guerra
del
Peloponneso,
iniziata
nel
431
a.C.,
giungeva
al
termine.
Per
il
vinto
non
ci
fu
nessuna
pietà:
Atene
dovette
rinunciare
ad
ogni
possedimento
fuori
dell'Attica,
consentire
l'abbattimento
delle
sue
fortificazioni
e
delle
Lunghe
Mura
e
ridurre
sensibilmente
la
propria
flotta.
Alla
fine
di
aprile
Lisandro
entrò
nel
Pireo
con
le
sue
navi
e,
secondo
il
resoconto
di
Senofonte,
“le
Mura
furono
demolite
al
suono
delle
flautiste,
in
mezzo
a un
grande
entusiasmo,
perché
erano
in
molti
a
pensare
che
quel
giorno
segnasse
l'inizio
della
libertà
per
la
Grecia”.
La
decisione
sul
destino
politico
di
Atene
fu
una
questione
assai
più
controversa.
Non
erano
pochi
gli
alleati
di
Sparta
come
Corinto
o
come
la
Beozia
che
chiedevano
insistentemente
“di
distruggere
completamente
Atene,
di
rendere
schiavi
tutti
gli
abitanti
e
fare
del
luogo
in
cui
sorgeva
la
città
un
pascolo
per
il
bestiame”
(Peter
Funke).
Gli
Spartani,
tuttavia,
avevano
le
idee
piuttosto
chiare
in
merito:
il
loro
intento
era
quello
di
rafforzare
la
propria
egemonia
sull'Egeo,
non
quello
di
dare
un
nuovo
ordine
alle
poleis
greche.
In
un'ottica
di
questo
tipo,
alquanto
limitata
per
la
verità,
un'Atene
sottomessa
avrebbe
potuto
in
futuro
essere
utilizzata
come
forza
ausiliaria
per
possibili
conflitti
con
potenze
di
medio
calibro.
Pertanto
Lisandro
favorì
l'instaurarsi
di
un
regime
oligarchico
composto
esclusivamente
da
Ateniesi
di
sentimenti
filospartani.
Dopo
la
breve
parentesi
di
governo
di
cinque
efori,
i
poteri
furono
trasferiti
a
trenta
cittadini,
che
sarebbero
passati
alla
Storia
con
l'appellativo
di
“tiranni”.
Questi
si
affiancarono
una
commissione
speciale
di
dieci
magistrati
per
la
gestione
del
Pireo
e un
collegio
di
undici
membri
con
compiti
amministrativi
in
città.
Per
controllare
Atene
anche
militarmente,
sull'Acropoli
si
insediò
una
forza
d'occupazione
spartana
sotto
la
direzione
di
un
armosta.
La
democrazia,
proprio
come
la
guerra,
era
finita.
Occorre
anzitutto
rispondere
a
una
domanda
solo
apparentemente
banale:
chi
erano
i
Trenta
che
presero
il
potere
con
l'appoggio
spartano?
In
generale,
erano
gli
oligarchi
più
in
vista
ad
Atene.
Alcuni
li
conosciamo
solo
superficialmente;
altri
ci
sono
meglio
noti.
Tra
questi
ultimi,
occorre
in
primo
luogo
fare
il
nome
di
Crizia.
Di
origini
aristocratiche
e
zio
di
Platone,
fu
allievo
di
alcuni
sofisti
e di
Socrate.
Si
dedicò
alla
scrittura
e
alla
poesia
con
profitto,
ma
non
si
può
dire
lo
stesso
della
sua
attività
politica:
dopo
un
ruolo
di
scarso
rilievo
sotto
il
regime
dei
Quattrocento
(411
a.C.),
andò
in
esilio
in
Tessaglia
a
seguito
della
restaurazione
della
democrazia.
Grazie
alle
sue
idee
antidemocratiche
e
alle
sue
malcelate
simpatie
per
Sparta,
venne
eletto
nel
governo
dei
Trenta.
La
sua
aggressività
unita
alla
sua
innata
brutalità
ne
fecero
il
capo
di
fatto
del
regime.
Vale
la
pena
citare
anche
Teramene,
politico
di
ben
altra
statura
a
dire
il
vero.
Fu
uno
dei
protagonisti
del
colpo
di
Stato
dei
Quattrocento
e,
in
generale,
della
fase
conclusiva
della
Guerra
del
Peloponneso.
Il
modo
disinvolto
con
cui
passava
da
una
parte
politica
all'altra
gli
valse
il
soprannome
di
“coturno”
(calzare
che
si
adattava
a
entrambi
i
piedi).
Venuto
a
far
parte
dei
Trenta,
non
si
illuse
come
Crizia
della
possibilità
di
cancellare
d'un
tratto
il
passato
di
Atene:
era
un
politico
fin
troppo
raffinato
per
dar
retta
a
congetture
come
questa.
Incarnò
perciò
l'ala
moderata
dei
Trenta,
che
propugnava
un'oligarchia
scevra
di
qualunque
eccesso.
Le
sue
idee
e il
suo
realismo
politico
gli
sarebbero
costati
caro.
Altre
figure
di
spicco
furono
Eratostene,
noto
per
essere
il
destinatario
di
una
infuocata
orazione
di
Lisia,
di
cui
aveva
fatto
uccidere
il
fratello,
e
Dracontide,
da
cui
il
decreto
che,
secondo
la
tradizione,
conferì
ai
Trenta
il
governo
di
Atene
(il
così
detto
decreto
di
Dracontide).
Al
di
là
delle
singole
personalità,
i
protagonisti
del
regime
erano
mossi
dalla
comune
volontà
di
escludere
dal
governo
della
città
gli
strati
più
umili
della
popolazione
e di
distruggere
una
volta
per
sempre
il
tanto
discusso
testamento
politico
del
“secolo
di
Pericle”.
Atene
aveva
ora
un
governo
di
matrice
oligarchica,
dominato
da
personalità
venute
alla
ribalta
dopo
la
caduta
della
democrazia
e
legate
politicamente
allo
spartano
Lisandro.
Con
queste
premesse,
c'era
ben
poco
da
sperare
per
il
futuro
prossimo
della
città.
Cionondimeno
occorre
precisare
che,
almeno
in
una
prima
fase,
i
Trenta
dimostrarono
una
certa
attitudine
al
riformismo,
a
tratti
genuina:
i
sicofanti
vennero
condannati,
le
riforme
di
Efialte
sui
poteri
dell'Areopago
(462
a.C.)
abrogate
e,
da
ultimo,
furono
annullati
i
provvedimenti
considerati
ambigui
per
ridurre
l'eccessivo
potere
interpretativo
dei
tribunali
popolari.
Alcune
di
queste
decisioni
incontrarono
un
certo
consenso:
gli
eccessi
della
democrazia
ateniese
erano
da
tempo
sotto
gli
occhi
di
tutti.
E
tuttavia
non
ci
volle
molto
perché
i
Trenta
dessero
vita
a un
vero
e
proprio
“regime
del
terrore”.
Chiunque
si
mostrasse
in
disaccordo
con
il
nuovo
assetto
costituzionale
o
con
i
suoi
esponenti
veniva
sommariamente
giustiziato.
L'unica
salvezza
per
gli
oppositori
era
la
fuga:
non
furono
in
pochi
coloro
che
lasciarono
Atene
per
Tebe,
Argo,
Megara
o
altre
città
vicine.
“Così
in
breve
tempo
(i
Trenta)
uccisero
non
meno
di
1500
persone”
racconta
Aristotele.
Ma
la
principale
preoccupazione
del
regime
non
fu
il
dissenso,
bensì
il
denaro
per
colmare
le
vuote
casse
della
tesoreria
ateniese.
E
quale
gruppo
sociale
era
più
facoltoso
e,
allo
stesso
tempo,
più
vulnerabile
dei
meteci?
Questi
ultimi
erano
gli
stranieri
residenti
in
città.
In
quanto
privi
di
diritti
politici,
si
dedicavano
principalmente
ad
attività
di
tipo
economico
e
commerciale
e
molti
di
loro
nel
corso
della
vita
accumulavano
ricchezze
invidiabili.
Per
i
Trenta
erano
perciò
la
preda
ideale
su
cui
allungare
le
mani.
Fu
così
che
contro
i
meteci
si
moltiplicarono
le
persecuzioni,
le
confische
e le
condanne.
Il
modus
operandi
del
regime,
imprudente
e
dissennato,
ben
presto
generò
dissensi
tra
le
sue
stesse
fila,
in
maniera
non
dissimile
a
quanto
accadde
durante
il
Terrore
giacobino
in
piena
Rivoluzione
Francese.
La
voce
dell'ala
moderata
dei
Trenta,
come
anticipato,
era
Teramene.
Quest'ultimo
non
era
solo
in
totale
disaccordo
con
le
esecuzioni
sistematiche
e
con
la
repressione
violenta
messa
in
atto
dai
colleghi,
ma
era
soprattutto
poco
convinto
della
scelta
di
lasciare
a
così
pochi
il
governo
di
Atene,
la
polis
che
sulla
democrazia
aveva
forgiato
un
impero
durato
decenni.
Da
buon
moderato
qual
era
proponeva
soluzioni
politiche
meno
drastiche.
“Se
poi”
disse
rivolgendosi
a
Crizia
“per
il
fatto
di
essere
in
trenta
e
non
uno
solo,
ritieni
in
qualche
modo
di
minor
conto
usare
questa
magistratura
come
una
tirannide,
sei
ingenuo”.
Teramene
aveva
ragione,
ne
era
sicuro.
Voleva
che
anche
gli
altri
condividessero
le
sue
posizioni
e
iniziò
a
manifestare
la
sua
disapprovazione
in
libertà,
troppa
libertà.
Minacciati
dalle
sue
idee,
i
Trenta
in
primo
luogo
restrinsero
i
diritti
politici
a
soli
3000
cittadini,
scelti
in
quanto
sostenitori
del
regime:
in
tal
modo
veniva
scongiurato
il
pericolo
che
Teramene
raccogliesse
voti
nell'assemblea.
E
poiché
neanche
questo
pose
fine
agli
attriti,
Crizia
ne
ordinò
la
condanna
a
morte.
Poco
dopo
Teramente
fu
costretto
a
bere
la
cicuta.
La
vicenda
mise
a
nudo
le
fragilità
del
governo
dei
Trenta.
Governo
che
aveva
tutta
l'aria
di
essere
scarsamente
compatto
e
per
di
più
incapace
di
gestire
gli
oppositori.
Tanto
bastò
ai
democratici
in
esilio
per
rialzare
la
testa.
Trasibulo,
già
una
volta
restauratore
della
democrazia
nel
411
a.C.,
alla
fine
del
404
a.C.
si
mise
alla
testa
di
soli
70
seguaci
e,
partendo
da
Tebe,
occupò
la
rocca
di
File,
situata
ai
confini
settentrionali
dell'Attica.
Accanto
a
noti
politicanti
e a
personalità
di
spicco
della
passata
esperienza
politica
comparivano
cuochi,
giardinieri
e
altri
uomini
troppo
piccoli
perché
la
Storia
ne
ricordi
il
nome:
quella
in
atto
era
una
rivoluzione
dal
basso.
Si
scatenò
una
guerra
civile,
violenta
e
inevitabile.
Nonostante
i
tentativi
dei
Trenta
di
scacciarli
dall'Attica,
i
ribelli
democratici,
che
inizialmente
erano
soltanto
70,
arrivarono
ad
essere
in
circa
un
migliaio
nella
primavera
del
403
a.C.
Si
trattava
di
uomini
mossi
non
soltanto
da
ragioni
politiche,
ma
anche
da
un
odio
personale
per
un
regime
dispotico
che
gli
aveva
tolto
spietatamente
la
casa,
gli
amici,
i
familiari,
la
patria.
Incontrastati,
Trasibulo
e i
suoi
si
impossessarono
del
Pireo,
prendendo
per
la
gola
il
regime
insediato
in
Atene.
“Alla
notizia
i
Trenta
uscirono
immediatamente
dalla
città
con
gli
Spartani,
gli
opliti
e i
cavalieri”
spiega
Senofonte.
I
democratici,
dal
canto
loro,
si
concentrarono
sulla
collina
di
Munichia,
dove
sarebbe
stato
più
agevole
difendersi
dagli
assalti
delle
truppe
nemiche.
Poco
prima
di
venire
allo
scontro
armato,
Trasibulo,
che
era
un
gran
motivatore,
incitò
i
suoi
soldati:
“Al
momento
opportuno
invocherò
il
peana
e,
all'invocazione
di
Enyalios,
compatti,
vendichiamoci
di
questi
uomini
per
le
prepotenze
che
abbiamo
subito”.
Nello
scontro
che
seguì
i
democratici
ebbero
la
meglio
e
Crizia
cadde
sul
campo.
Quella
che
potrebbe
apparire
come
una
irrilevante
scaramuccia
decretò
la
caduta
dei
Trenta:
dopo
una
lunga
ed
accessa
discussione,
i
Tremila
votarono
la
loro
deposizione
ed
elessero
dieci
magistrati
moderati
affinché
proseguissero
l'esperienza
oligarchica
con
maggiore
efficacia.
I
Trenta
si
ritirarono
a
Eleusi,
tra
la
profonda
avversione
dei
democratici
ribelli
e
l'altezzoso
disprezzo
dei
cittadini
ateniesi.
Che
fine
avevano
fatto
gli
Spartani?
L'oligarchia
nata
dalla
volontà
del
potente
Lisandro
faceva
acqua
da
tutte
le
parti.
Quest'ultimo,
tuttavia,
non
se
ne
accorse
fino
a
quando
gli
stessi
Ateniesi
non
ebbero
invocato
il
suo
intervento
contro
i
rivali
democratici,
ora
noti
come
gli
“uomini
del
Pireo”.
Lisandro,
rivelandosi
ancora
una
volta
uno
stratega
eccellente,
intuì
che
vincere
sul
campo
di
battaglia
una
massa
di
soldati
col
morale
alto
e
con
una
posizione
geografica
favorevole
era
assai
più
arduo
che
isolarli
e
lasciarli
morire
di
fame
pian
piano.
Perciò
i
rifornimenti
ai
democratici
furono
bloccati
per
terra
e
per
mare.
I
risultati
si
videro
subito,
stando
alla
versione
senofontea:
“Ben
presto
quelli
del
Pireo
si
trovavano
in
difficoltà”.
Ma
agli
uomini
di
Trasibulo
una
mano
fu
tesa
da
chi
meno
si
sarebbero
potuti
aspettare,
quando
uno
dei
due
re
di
Sparta,
Pausania
II,
entrò
in
Attica
alla
testa
di
un
potente
esercito.
Ci
si
guardi
bene
dal
pensare
che
il
sovrano
spartano
volesse
dare
un
aiuto
ai
democratici:
Pausania
temeva
che
Lisandro,
schiacciando
i
ribelli
ateniesi,
potesse
acquisire
un'influenza
eccessiva
e
fare
di
Atene
“un
affare
personale”
(Senofonte).
Dopotutto
non
era
re e
non
sarebbe
mai
potuto
diventarlo.
Grazie
alla
mediazione
del
re
spartano,
si
giunse
alla
riconciliazione
tra
le
parti
della
guerra
civile,
gli
“uomini
della
città”
e
gli
“uomini
del
Pireo”.
Trasibulo
rientrò
trionfalmente
ad
Atene
nell'ottobre
del
403
a.C.
e fu
ristabilito
l'ordinamento
costituzionale
democratico.
Pausania
preferì
infatti
una
debole
democrazia
a
un'oligarchia
retta
da
personalità
scarsamente
controllabili
(come
Lisandro).
Fu
inoltre
concessa
un'amnistia
generale
per
tutti
i
delitti
commessi
durante
le
guerre
civili,
dalla
quale
furono
esclusi
soltanto
i
Trenta,
i
Dieci
che
avevano
amministrato
il
Pireo
e
gli
Undici.
Ad
Eleusi
fu
istituito
uno
Stato
separato
dove
avrebbero
potuto
emigrare
i
sostenitori
del
trascorso
regime
dei
Trenta
senza
temere
alcuna
persecuzione
o
rivalsa.
Potrà
risultare
paradossale,
ma
quella
stessa
Sparta
che
nei
decenni
precedenti
aveva
lottato
con
tutte
le
proprie
forze
contro
la
democrazia
ateniese
finì
per
proteggerla
e
salvarla
a
causa
di
discordie
politiche
interne.
Molte
delle
personalità
che
in
qualche
modo
rappresentano
la
Grecia
antica
agli
occhi
di
noi
moderni
furono
testimoni
oculari
del
regime
dei
Trenta
Tiranni
e
della
guerra
civile
ateniese.
E
nessuno
di
coloro
che
assistette
a
queste
breve
ma
intensa
fase
politica
della
storia
ateniese
poté
fare
a
meno
di
raccontare
le
proprie
impressioni
al
riguardo.
Una
testimonianza
preziosa
è
quella
di
Senofonte
(430-360
a.C.),
che
nelle
sue
“Elleniche”
riportò
tanto
minuziosamente
alcune
vicende
della
guerra
civile
da
aver
fatto
ipotizzare
a
Canfora
un
suo
possibile
ruolo
di
comandante
di
cavalleria
prima
sotto
i
Trenta
e
poi
sotto
i
Dieci.
“Chi
sa
persino
che
un
attacco
a
sorpresa
aveva
colto
la
cavalleria
dei
Trenta
all'alba”
spiega
Canfora
“mentre
i
cavalieri
si
levavano
e
gli
inservienti
''facevano
un
gran
chiasso
strigliando
i
cavalli'',
non
può
non
essere
testimone
oculare
e
partecipe
della
vicenda”.
Di
notevole
interesse
è
anche
il
resoconto
di
Platone
(428
o
427
a.C.
-
348
o
347
a.C.),
che
nella
Lettera
VII,
parlando
della
sua
giovinezza
e
delle
sue
prime
aspirazioni
politiche,
espose
le
proprie
impressioni
riguardo
al
regime
dei
Trenta.
E lo
fece
con
un
giudizio
piuttosto
netto:
“In
realtà
vidi
come
quegli
uomini
in
poco
tempo
riuscirono
a
far
sembrare
il
governo
precedente
un'età
dell'oro”.
L'asprezza
di
Platone,
che
oltretutto
aveva
“parenti
e
amici”
tra
i
protagonisti
del
regime
e
che
avrebbe
potuto
dunque
rivestire
un
ruolo
di
alto
prestigio
politico
nell'oligarchia,
deve
far
riflettere
su
quanto
negativa
fosse
l'opinione
degli
Ateniesi
sul
regime
dei
Trenta,
a
prescindere
dallo
schieramento
politico.
E
tuttavia
la
più
affascinante
testimonianza
della
vicenda
in
esame
rimane
quella
di
Lisia
(447-370
a.C.
circa),
divenuto
celebre
per
le
orazioni
e
per
l'attività
di
logografo.
In
quanto
meteco,
dal
regime
dei
Trenta
subì
ogni
tipo
di
vessazione
e di
sopruso:
per
esempio
l'esser
dovuto
fuggire
in
fretta
e
furia
a
Megara
per
scampare
alle
persecuzioni
oppure
l'aver
dovuto
assistere
alla
confisca
del
patrimonio
faticosamente
costruito
dal
padre
Cefalo
grazie
alla
fabbrica
d'armi
di
famiglia.
La
privazione
maggiore
che
dovette
sopportare
fu
la
condanna
a
morte
del
fratello
Polemarco,
che
fu
giustiziato
senza
sapere
neanche
la
ragione
della
sua
condanna.
Restaurata
la
democrazia,
Lisia
scrisse
e
pronunciò
un'orazione
straordinaria
contro
quello
dei
Trenta
che
eseguì
materialmente
l'arresto
del
fratello,
Eratostene.
La
“Contro
Eratostene”
è un
documento
giudiziario
relativo
alla
vicenda
personale
di
Lisia
e,
allo
stesso
tempo,
una
condanna
categorica
del
regime
dei
Trenta
e
dei
suoi
fautori.
Ci
parla
di
cosa
volesse
dire
essere
un
meteco
ad
Atene,
della
vita
quotidiana
della
Grecia
di
fine
V
secolo
a.C.,
del
dramma
della
fine
della
Guerra
del
Peloponneso
e
degli
sconvolgimenti
politici
che
ne
seguirono,
delle
nefandezze
dei
Trenta
e
della
loro
caduta.
Questi
i
motivi
per
cui
la
si
può
considerare
una
fonte
d'eccezione.
Ma
l'orazione
è
anche
in
grado
di
trascendere
il
contesto
storico
in
cui
nasce
e di
porci
di
fronte
a
dilemmi
politico-filosofici
in
parte
ancora
irrisolti
a
distanza
di
più
di
due
millenni.
Signficativo
in
tal
senso
è il
passaggio
in
cui
Lisia
sta
interrogando
Eratostene
e
gli
chiede:
“Hai
arrestato
Polemarco
o
no?”.
Eratostene
risponde
con
massima
franchezza:
“Ho
eseguito
per
paura
gli
ordini
ricevuti
dai
governanti”.
Una
risposta
non
molto
diversa
da
quella
che
Rudolf
Hoess,
membro
delle
SS e
comandante
del
campo
di
concentramento
di
Auschwitz,
diede
durante
i
processi
di
Norimberga
(1945-1946)
all'avvocato
Kauffmann
che
gli
chiedeva
come
avesse
potuto
compiere
“quelle
tremende
azioni”:
“Malgrado
tutti
i
dubbi
che
avevo,
l’unico
argomento,
e
quello
decisivo,
era
l’ordine
dato
da
Himmler”.
Tanto
nel
caso
di
Eratostene
quanto
in
quello
dei
gerarchi
nazisti
a
Norimberga
è
evidente
quanto
sottile
sia,
in
circostanze
come
queste,
il
confine
tra
un
giudizio
su
crimini
realmente
commessi
e un
processo
vendicativo
condotto
dal
tribunale
dei
vincitori.
“Avete
udito,
visto,
sofferto;
lo
avete
qui:
adesso
giudicate,
tocca
a
voi”:
con
queste
parole
conclusive
Lisia
chiede
alla
giuria
una
sentenza
su
Eratostene,
sui
Trenta,
su
un'epoca.
Non
potrebbe
chiedere
la
stessa
cosa
a
uno
storico,
giacché,
come
amava
dire
Marc
Bloch,
la
storiografia
deve
occuparsi
di
comprendere,
non
di
giudicare.
E
proprio
questo
noi,
oggi,
nella
nostra
realtà,
siamo
chiamati
a
fare:
capire
davvero
cosa
furono
il
regime
dei
Trenta
Tiranni
ad
Atene
e la
guerra
civile
che
ne
scaturì
e
cosa
tali
vicende,
lontane
e al
contempo
vicine,
possono
dire
all'uomo
dell'epoca
corrente.
Un
compito
non
facile,
ma
necessario.
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