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N. 60 - Dicembre 2012 (XCI)

Atalanta e le mele d’oro

UN MITO AL FEMMINILE
di Caterina Caparello

 

Quando generalmente parliamo di mitologia non possiamo non pensare ad una delle più importanti religioni politeistiche dell’antichità: la mitologia greca.

 

Tutti infatti conoscono, o hanno sentito raccontare, un mito classico e soprattutto ne sono noti i loro protagonisti principali: Zeus, Era, Apollo, Atena ecc e i loro corrispettivi romani. Ancor’oggi nella nostra era moderna, e anche nella vita quotidiana, vengono utilizzate frasi e terminologie che rimandano al mondo e alle vicende mitiche: ad es. «quell’uomo possiede una forza erculea!» oppure «è un enigma edipico» e ancora «Amore lo ha colpito».

 

Oltre, quindi, ai racconti mitici più conosciuti ne esistono però altri meno noti ma dei quali vale la pena conoscere. Oggi è il caso del mito di Atalanta.

 

Il nome non giunge nuovo, infatti, non solo indica un personaggio mitico, ma anche il nome di una famosa squadra di calcio nostrana; la squadra di serie A, infatti, consapevolmente scelse questo nome e, non a caso, il suo simbolo raffigura il profilo di una donna dai capelli fluttuanti. Ma chi era Atalanta?

 

Era una dea o una mortale? Era un’eroina o una donna del tutto normale?

 

Tutto questo ci viene rivelato da Apollodoro che nella sua Biblioteca descrive la sua vicenda in questo modo: «Da Iaso e Climene figlia di Minio nacque Atalanta.

 

Il padre, che desiderava dei figli maschi, la espose, ma un’orsa veniva spesso ad allattarla, fino a che non la trovarono dei cacciatori che la allevarono presso di loro.

 

Diventata adulta, Atalanta si manteneva vergine e viveva cacciando, armata, in luoghi disabitati. I Centauri Roico e Ileo cercarono di farle violenza, ma lei li abbatté a colpi di freccia. Insieme agli eroi più valorosi partecipò alla caccia del cinghiale Calidonio e nelle gare istituite in onore di Pelia lottò con Peleo e lo vinse.

 

Più tardi ritrovò i suoi genitori e poiché suo padre la spingeva a sposarsi, si recò in un luogo che aveva le dimensioni di uno stadio e piantò nel mezzo un palo alto tre cubiti; di là lei partiva di corsa, armata, dopo aver lasciato che i pretendenti la precedessero nella gara: per chi veniva raggiunto c’era la morte sul posto; per colui che non veniva raggiunto, c’erano le nozze.

 

Molti erano già morti quando Melanione, che si era innamorato di lei, venne a prendere parte alla corsa, recando con sé tre mele d’oro che gli aveva dato Afrodite; mentre lei lo inseguiva, le gettò a terra.

 

Atalanta si chinò per raccoglierle e perse la gara. Melanione la sposò. E si narra che un giorno, durante una caccia, essi penetrarono nel tempio di Zeus e qui, mentre si amavano, furono trasformati in leoni.

 

Questo il mito di Atalanta, uno dei rari miti in cui protagonista è una donna.

 

Tale racconto nell’antichità, probabilmente, insegnava come la curiosità femminile venisse usata dagli dei e dagli uomini (inteso come genere) per trarre in inganno; come il potere di Afrodite, dea dell’amore, non si potesse mettere in discussione; come, infine, il destino degli uomini (inteso come razza umana) fosse già scritto, anzi, filato dalle famose Parche; e in ultimo come anche le donne, nella corsa, fossero terribilmente brave.



 

 

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