moderna
ASTROLOGI GIUDIZIARI
TROILO LANCETTA E LE ACCUSE
ALL’ASTROLOGIA GIUDIZIARIA
di Ester Sintini
“Sì che nasce là giù da l’esser vostro
La pravità, non già da l’oprar nostro”.
È la prima metà del 1600. Si sta
consumando la Guerra dei Trent’anni,
l’ultimo grande conflitto religioso, e
in effetti il clima è di scottante
dibattito teologico. Siamo usciti dal
concilio di Trento, fioccano gli Indici
dei libri proibiti, Inquisizione e
Gesuiti si danno da fare con rinnovato
vigore; Galileo ha nascosto le sue
scoperte dietro un’abiura obbligata e,
dalla fine del secolo precedente, le
costellazioni si sono improvvisamente
moltiplicate nell’emisfero australe.
È proprio di stelle, tra le altre cose,
che qui tratteremo, con l’aiuto della
Raccolta medica et astrologica di
Lootri Nacattel. Anagramma di Troilo
Lancetta, lui è un medico natio della
zona del Lago di Garda. Negli anni ‘30
del XVII secolo fa pubblicare a Venezia
la Raccolta medica et astrologica,
di cui ci interessa una parte in
particolare: il dibattito «contra gli
astrologhi giudiciarii».
Chi erano gli astrologi giudiziari?
Funzionava pressappoco così: mentre
l’astronomia naturale, indagando la
natura, forniva risposte alle domande
degli agricoltori, dei navigatori, o dei
medici, L’astrologia giudiziaria
pretendeva di leggere nel cielo ciò che
poteva sapere solo Dio, il futuro degli
uomini. Mandava all’aria l’idea del
libero arbitrio, sostenuta dalla Chiesa,
e attribuiva al Cielo, luogo di ogni
bene, le cause delle malefatte degli
uomini.
Troilo, tra nozioni di medicina,
meteorologia e citazioni varie da autori
da lui considerati autorevoli, dipinge
una pittoresca descrizione di quel che
erano gli astrologi giudiziari per lui e
per chi, come lui, non trovava nelle
loro idee alcun fondamento. E siccome «meglio
è il filosofar, che l’arricchir, a chi
bisogno non ha di vitto, ò di vestito»,
se non avete più impellenti necessità vi
invito volentieri a seguirmi in questo
mio breve filosofare.
È Ippocrate il primo a illuminarci, in
Dell’aria, aque e lochi, con
nozioni di medicina, dove il calcolo dei
tempi dell’anno, delle stagioni e delle
stelle sono fondamentali: «con la
mutatione che si fà de i tempi, si
commutano anco le viscere delli huomini»,
e in base al «nascimento» degli
astri è possibile che una malattia si
palesi, o che un malato guarisca, o che
muoia. In pratica l’andamento della
malattia è influenzato da quali stelle
fanno capolino in cielo.
Ma non traiamo conclusioni affrettate:
Ippocrate non sta dicendo di affidarsi
al firmamento per guarire i mali degli
uomini. Infatti, se i medici «sono
stati professori ch’intendessero», è
solo dopo il manifestarsi del male che
svolgono le previsioni sull’andamento
della malattia. «La predizione fatta
senza segni ne nostri corpi è incerta»;
ogni medico saggio deve «confermate con
l’isperienza».
Girolamo Fracastoro, un’autorità in
campo medico nel XV-XVI secolo, osa
addirittura sfidare l‘autorità di Galeno,
che ha messo «da parte la virtù
dell’arte propria, per obedire, et
starsene all’inganni, et fascinationi
altrui» e attribuisce le ragioni delle
crisi «al Cielo, et Stelle, et
massimamente alla Luna».
Ci dice Girolamo che i medici
«si
sono scordati di se stessi [...]
sedotti, et persuasi dalli Astrologhi».
Non solo le malattie, ma anche i venti,
il freddo e il caldo influiscono su di
noi. Sono «li tempi, e’l nascimento
delle Stelle»
che
«sogliono
apportare venti, pioggia, sereno, freddo
e caldo»,
ed essi possono influire sulla salute
degli uomini. Quindi l’azione
degli astri su di noi è indiretta,
mediata dai cambiamenti atmosferici.
Ma c’è più della pratica medica in
ballo: affermare di poter leggere nel
cielo il futuro, il fato, significa
imputare a lui la responsabilità di ciò
che accade sulla Terra. Ma «il cielo
non è capace di male d’alcuna sorte»!
E, sicché il cielo è cosa eterna e «nelle
cose eterne non si trova male per verun
conto», non gli si può attribuire la
colpa delle malefatte umane. Sbaglia chi
afferma «c’halcune delle Stelle siano
fortunate, ed’altre infortunate»; il
cielo, Dio, la Potenza Creatrice, non ha
nessuna colpa nel male che fanno gli
uomini, dotati di libero arbitrio.
Troilo prosegue citando Alessandro
Afrodiseo, filosofo del II-III secolo
d.C.: «l’astrologia giudiciaria non è
arte, ma inventione delusoria», e gli
astrologi giudiziari sono
«prestigiatori, giocolatori», che
hanno «osservato la debolezza della
plebe d’intorno al fato» e sono
convinti «che di tutti li erori che
fà la plebe, et li huomini di poco
senno, s’hà da incolpare il fato».
Credono che tramite quell’arte, che di
arte non merita il nome, «ponno
antecedentemente sapersi, et predirsi
tutte le cose», e che tutto avviene
per «una certa necessità, ch’ha nome
fato». Questo fanno gli astrologi
giudiziari, bugiardi, ingannatori e
prestigiatori, che «sovente depravano
la mente di quelli [...] che si
ritrovano involuti in certe circostanze,
et calamità», raggirandoli con la
menzogna che tutto «succede per la
forza del fato».
Lo stesso discorso è ripreso dalle
parole di tale Gio. Grammatico
(probabilmente si tratta di Giovanni
Filopono, filosofo e teologo bizantino
del IV-V secolo d.C.): vi sono alcuni,
dice egli, che «favolosamente
parlando [...] dicono che nel Cielo si
trovano potenze, et virtù tali, che
vengono ad essere effettrici delli
eventi di queste cose quà giù [...]».
Ma, aggiunge, «queste cose favolose
[...] si conducono non per altro, che
per l’ignoranza delle cose naturali».
L’ignoranza porta all’errore. Gli
indovini sono certamente dei bugiardi,
ma gli uomini che ascoltano le loro
parole sono altrettanto sciocchi.
Riassume a lato Lancetta: «l’ignoranza
delli huomini è il sostegno delli
indovini».
A questo punto Troilo fa parlare
direttamente il suo maestro, Cesare
Cremonini, che afferma che cielo e Terra
non sono fatti della stessa materia, e
dunque l’uno non può avere così tanta
influenza sull’altro da deciderne le
sorti. Si chiede perché esistano cose
anche sottoterra, se gli astrologi
giudiziari affermano che dove non arriva
il moto del Cielo nulla può essere
prodotto; poi si scaglia contro gli
oroscopi, che affidano le inclinazioni
degli uomini al fato, mentre in verità
esse
«derivano
dalle nature particolare di ciascheduna
cosa».
Gli antichi astronomi erano più sapienti
degli astrologi ciarlatani, poiché
«univano à quelle osservationi la
contemplatione naturale». Certo, il
grande astronomo Tolomeo ha dato credito
all’astrologia; ma lo ha fatto solo
perché attraverso di essa ha potuto
meglio controllare il popolo Egizio; «nongià
pensando di costituir scienza»
Tolomeo si affidò a quelle pratiche! Ma
solo per ben governare.
Di nuovo ci viene detto che il cielo «col
suo moto per se stesso causi calore, et
freddezza per accidente». Esso
disgrega e aggrega la materia causando
effetti sulla Terra, poiché il cielo è
causa universale; ma non lo fa con lo
scopo primo di produrre sugli uomini
certi risultati: lo fa perché è nella
sua natura comportarsi così, e
accidentalmente tutto questo si riversa
anche su di noi. Non si tratta di
destino o di controllo voluto: è tutto
casuale.
Ma che cos’è questo destino, questo fato
a cui l’astrologia imputa il controllo
delle azioni umane?
Alessandro Afrodiseo rivela che altro
non è se non «la propria natura di
ciascheduno». Tutto è scaturito
dalla natura, le nostre vite e i nostri
difetti, e il fato è questa natura. Ed è
proprio della natura dell’uomo l’essere
corruttibile. «Questo è il fato, et
la natura loro». Il Cielo non ci
deve nessuna spiegazione: tutto dipende
da noi.
Concludo
con alcuni versi attribuiti al
Cremonini, che ben riassumono il succo
del discorso: «Sciolsi
oltre và, diss’io, sciocchezza humana/Ch’alcuni
in vostro Cielo han ritrovato/Ogni rea
qualità, brutta, e profana;/Un principio
indi fan, c’hà nome fato,/Che spinge
ad’ogni trista opra villana/L’alma de l’huom,/Secondo,
ch’egli è nato,/Tal che le voglie in lui
crude, e sanguigne,/Son’effetti di
Stelle aspre, e maligne.
Ma ecco la rivelazione: «Il Ciel sol di
bontà tutto è ripieno,/E ciò ch’ei fà,
tutto à bontà dispone,/Mà non la può trà
voi far sempre à pieno,/Che la vostra
materia à lui s’oppone;/Sì che nasce là
giù da l’esser vostro/La pravità, non
già da l’oprar nostro».
Ecco l’invito a non credere al fato, ma
all’esperienza, e a non imputare al
cielo il male che fanno gli uomini. Lui
non c’entra nulla: è tutta farina del
nostro sacco. |