.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

contemporanea


N. 27 - Marzo 2010 (LVIII)

ISTITUZIONI E ASSISTENZA PUBBLICA IN ITALIA TRA FASCISMO E REPUBBLICA
gli Enti Comunali di Assistenza - Parte III

di Maria Giovanna Pipino

 

Anche l’Italia, come molti altri Paesi europei, fu alle prese con il dibattito relativo alla necessità di una riforma del sistema assistenziale, ma, a differenza di quanto accadde in gran parte d’Europa, che in quegli anni conobbe la nascita e il rafforzamento di sistemi di protezione sociale, in Italia non si riuscì a realizzare un sistema assistenziale strutturato e omogeneo. Il sistema politico italiano estremamente frammentato e caratterizzato da una forte litigiosità tra gli schieramenti, rese sterile qualsiasi proposta di rinnovamento basato sul concetto di sicurezza sociale.

Tale concetto era stato teorizzato in Europa dall’economista inglese William H. Beveridge. Nel dicembre del 1942, per conto del governo inglese, Beveridge redasse il rapporto Social Insurance and Allied Services, che costituì la base teorica del Welfare State.

In Italia il pur fecondo dibattito attorno alla questione delle riforme sociali non riuscì a tradursi in un riassetto complessivo del sistema di sicurezza sociale, se non dopo alcuni decenni.

Nonostante i contenuti molto avanzati del testo costituzionale, nonostante il livello delle proposte formulate da apposite commissioni, in Italia la radicalizzazione della lotta politica seguita alle elezioni del 1948, rese impossibile qualsiasi grande riforma e non passò il concetto di sicurezza sociale, ma piuttosto si consolidò il cosiddetto “particolarismo clientelare”.

Particolarismo perché l’assistenza continuò ad essere considerata a lungo come strumento per mantenere l’ordine sociale ed era basata esclusivamente sui sussidi temporanei, che venivano erogati in modo settoriale, a seconda delle diverse categorie e senza un coordinamento tra le azioni degli innumerevoli enti preposti.

Clientelare perché i molteplici istituti ed enti assistenziali costituirono una fonte di clientelismo e corruzione, nonché strumenti di potere e di controllo politico e sociale.

Nel corso della stagione centrista i “confini” dello Stato sociale furono ampliati. Molte categorie precedentemente non tutelate furono progressivamente inserite all'interno degli schemi di protezione sociale. Tuttavia, ciò avvenne, sulla base di criteri e di scelte contingenti, che non si inserivano in un programma organico ma erano piuttosto frutto di pressioni di determinate categorie, spesso accolte per motivi elettoralistici.

Per citare alcuni esempi si possono ricordare le disposizioni in ambito infortunistico progressivamente ampliate sotto il profilo della copertura (nel 1959, per esempio, si attuò con legge la copertura contro le malattie professionali per i lavoratori agricoli) ma più sulla base dell'importanza e del peso – soprattutto elettorale – dei settori economici e sociali destinatari del provvedimento che in base ad un disegno di riforma complessivo.

L'estensione degli schemi di copertura a categorie sociali precedentemente non tutelate rappresentò l'elemento caratterizzante anche degli interventi nell'ambito della sanità. Nel 1952 si fornì per legge tutela in questo ambito al settore dei lavoratori domestici. Seguirono i coltivatori diretti, coloni e mezzadri (1954), gli artigiani (1956), i lavoratori a domicilio e i pescatori (1958), i commercianti (1960). Questo ampliamento del sistema mutualistico si realizzò tuttavia secondo gli schemi classici del particolarismo clientelare che, del resto, rappresentarono l'elemento caratterizzante di buona parte delle politiche sociali del decennio.

Gli anni Cinquanta furono gli anni della mancata modernizzazione del sistema complessivo di welfare in Italia. Le cause vanno ricercate in una serie di fattori sociali, economici e politici, che caratterizzavano la situazione post-bellica. Innanzitutto le disastrose condizioni dell'economia nazionale tali da non consentire il finanziamento di un sistema di protezione sociale gestito dallo Stato sul modello di quello britannico o scandinavo.

Inoltre il particolare contesto politico interno, che vedeva l’esclusione delle sinistre dal governo e il forte scontro tra maggioranza centrista e opposizione, impedirono per lungo tempo la possibilità di realizzare un fronte più ampio tra le varie forze politiche attorno alle questioni della riforma dello Stato sociale.

Un altro importante elemento fu costituito dalla dirigenza democristiana, che vide nel carattere particolaristico e clientelare delle politiche sociali uno strumento per la gestione del consenso a livello locale e nazionale o per convogliare le richieste provenienti da gruppi di pressione e organizzazioni ad essa vicina.

Il welfare state italiano si sviluppò per volontà dei gruppi dirigenti, che non avevano intenti redistributivi, ma volevano mantenere la società il più possibile inalterata rispetto al passato, ovvero diseguale.

A frenare la realizzazione di una riforma complessiva e organica del sistema di welfare negli anni Cinquanta concorsero però anche il mancato interessamento dei partiti della sinistra. Questo fu dovuto all'avvio della stagione della Guerra fredda e all’isolamento determinato dalla sconfitta del Fronte popolare alle politiche del 1948, ma i partiti della sinistra manifestarono per una lunga fase una scarsa attenzione ai temi dello Stato sociale, delegando in larga parte queste tematiche al sindacato (Cgil).

La politica assistenziale negli anni Cinquanta fu, quindi, connotata da una forte continuità con il periodo precedente e gli interventi continuarono ad essere concepiti come aiuto materiale, erogazione di beni alle persone e alle famiglie povere, o a favore di categorie protette.

Il sistema continuò a prevedere assistenza e interventi per le pensioni, malattia e maternità , infortuni, disoccupazione, tubercolosi e assegni familiari, gestiti da una molteplicità di enti, tra cui gli stessi creati dal regime fascista nel corso degli anni Trenta (INPS, INAIL, INAM). Il retaggio fascista condizionò, quindi, il tentativo di riforma dello stato sociale, facendo fallire l’intento di riorganizzazione. I grandi istituti ed enti previdenziali costituiti durante il fascismo, divennero importanti pilastri della rete di controllo politico e sociale e caratterizzarono il tipo di welfare che si sviluppò nel dopoguerra.

Un esempio della continuità con il passato fu il mantenimento dell’Ente comunale di assistenza, a dimostrazione di come la fine del regime non fu seguita automaticamente dallo smantellamento delle strutture da esso create. Anzi, gli ECA continuarono ad essere uno strumento fondamentale per l’assistenza locale, in un periodo, come il dopoguerra, che richiese notevoli sforzi ed interventi per affrontare le numerose conseguenza sociali della guerra.

Ma vediamo, nello specifico, le varie proposte di legge che caratterizzarono quegli anni, ma che non portarono ad un processo di riforma.

Nei primi anni Cinquanta, l’ANEA, l’Associazione nazionale degli enti comunali di assistenza, inviò a ciascun ECA iscritto un questionario, che rientrava in un progetto ben preciso voluto, in particolare, dal Presidente dell’associazione, il socialdemocratico Ezio Vigorelli. L’obiettivo del questionario fu quello di effettuare una rilevazione delle modalità e dei criteri delle prestazioni dell’assistenza nell’ambito delle attività degli ECA, attraverso un’indagine estesa a tutto il territorio italiano, per definire la situazione dell’assistenza a livello nazionale.

Questo studio venne promosso dalla “Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla” proposta dallo stesso Vigorelli nel settembre 1951, affiancata da un’inchiesta parallela sulla disoccupazione (guidata dal socialdemocratico Roberto Tremelloni).

Nel clima di democrazia e libertà sorto in Italia nel dopoguerra, l’esigenza di un riordinamento del settore assistenziale derivò dalla volontà di rendere effettivo il diritto di ogni cittadino all’assistenza, che era stato sancito nella Costituzione (art.38). Nelle intenzioni dei promotori, il compito della Commissione doveva essere quello di studiare il funzionamento del settore assistenziale, per poi proporre una sua riforma organica intesa a realizzare i principi sanciti nella Costituzione.

Lo Stato non avrebbe più solo dovuto imporre obblighi di solidarietà agli altri soggetti, come era avvenuto nello Stato corporativo fascista, ma era suo compito assumerne la responsabilità e agire direttamente. A tale proposito l’ANEA fu incaricata di «effettuare una rilevazione connessa all’esame, con carattere comparativo, delle modalità e dei criteri della prestazione dell’assistenza nell’ambito dell’attività degli ECA in Italia». Da qui l’idea del questionario, il quale fu redatto «prendendo a modello l’ipotesi di un ECA dotato di un’organizzazione il più possibile vasta e completa, che si presume rispondente» e che consentì di colmare un grave vuoto conoscitivo sulla situazione assistenziale.

Dall’Inchiesta emerse un quadro preoccupante della situazione sociale italiana. In primo luogo si cercò di contare le istituzioni che componevano l’intricata rete di assistenza italiana: ben 40.000 enti e istituzioni tra pubblici e privati, scoordinati l’uno dall’altro, ognuno dei quali preposto ad una specifica categoria di persone. La possibilità (non il diritto) di ottenere assistenza da un determinato ente, dipendeva dal possesso di certi requisiti che dovevano essere ogni volta dimostrati.

In secondo luogo, fu messa in luce la gravità della situazione degli Enti comunali di assistenza, che all’epoca tutelavano 2.570.000 persone (circa il 5,50% della popolazione italiana): il 95% degli ECA non disponevano di fondi propri, a parte il contributo elargito dallo Stato, il cui gettito complessivo si aggirava attorno agli 11 miliardi di lire, il che significava che a ogni assistito era riservata una quota di 3.000 lire annue per l’assistenza: una cifra irrisoria.

Le indagini statistiche fornirono una fotografia dei problemi sociali dell’epoca, attraverso il rilevamento del tenore di vita della popolazione, valutando aspetti quali l'abitazione, l'alimentazione e l'abbigliamento: migliaia di persone vivevano in condizioni disagiate, per non dire disumane, mettendo in luce una situazione preoccupante.

Di fronte ad una situazione di degrado e povertà ben documentata, Vigorelli sostenne la necessità di trasformare il settore assistenziale "in un vero e proprio sistema di sicurezza sociale" (vol II, p.13).

Su questo aspetto si concentrarono le proposte legislative avanzate della Commissione, che furono, però, limitate. Si suggerì la realizzazione di un maggiore coordinamento nella macchina assistenziale, attraverso la creazione di un ente supervisore in seno al governo. Oltre non si poteva andare nelle condizioni politiche dell’epoca, in cui i tentativi di riforma trovavano un ostacolo insormontabile negli interessi consolidati.

Nonostante gli ostacoli incontrati dall’iniziativa della riforma dell’assistenza, nel corso del decennio, da più parti, si continuò ad insistere sull’argomento, cercando di sensibilizzare non solo le istituzioni, ma anche la società civile su quel fronte.

È del 1956 un articolo pubblicato sulla rivista dell’ANEA “Solidarietà Umana”, in cui si lamenta la mancanza di un testo unico delle leggi sull’assistenza pubblica aggiornato e completo.

L’ANEA auspicava una riforma che contenesse anche la regolamentazione dell’attività degli Enti comunali di assistenza. Innanzi tutto con la riforma erano da attribuirsi all’ECA, oltre alla competenza primaria nell’assolvere compiti di assistenza generica, la competenza di carattere integrativo o surrogatorio nell’assolvere compiti di assistenza specifica (assistenza ai minori abbandonati, agli inabili al lavoro, apertura di Istituti di ricovero post-ospedaliero, etc…), che, dalla fine della guerra gli ECA si erano ritrovati a dover affrontare. Ma, per svolgere tali attività, era necessario aumentare la disponibilità finanziaria degli enti, osservazione, questa, che rientrava nella discussione relativa all’addizionale ECA del 5%, che non veniva del tutto devoluta agli enti comunali di assistenza. Il 3% di quella addizionale, infatti, era distribuito alle province e solo il rimanente 2% era devoluto agli ECA.

La riforma del settore assistenziale, pur essendo auspicata e pur essendo oggetto di discussione in sedi istituzionali, non venne realizzata. Le ragioni di questa mancata realizzazione, vanno ricercate nella volontà della classe dirigente di allora di non alterare lo status quo. Buona parte del ceto politico di governo e l’intero fronte conservatore avevano interesse a mantenere il vigente frammentato meccanismo di elargizione, caratterizzato da molteplici enti e istituti, che costituivano un apparato fortemente burocratico e clientelare, terreno fertile per il fenomeno della corruzione.

È possibile elencare le diverse tipologie di enti preposti all’assistenza, per una breve panoramica della moltitudine di livelli di intervento: Enti pubblici nazionali di assistenza, tra cui l’ONMI, l’ENAOLI (Ente nazionale di assistenza agli orfani dei lavoratori italiani), l’ENPMF (Ente nazionale per la protezione morale del fanciullo), l’ONOG (Opera nazionale orfani di guerra), ecc.; altri enti pubblici tra cui gli ECA e le IPAB; enti ed associazioni privati riconosciuti giuridicamente dallo Stato, detti anche enti morali; enti, associazioni, fondazioni non riconosciuti dallo Stato; molte competenze, infine, afferivano a vari ministeri e alle Prefetture.

Dal punto di vista organizzativo, il panorama istituzionale assistenziale risultava generalmente accentrato e verticistico (in particolar modo per quanto riguardava gli enti statali, i ministeri, le Prefetture) e fortemente burocratizzate. Le fitte maglie della burocrazia causavano ingenti spese e sprechi e tendevano a trasformare gli interventi assistenziali in mere risposte formali, senza porre attenzione alla risoluzione dei veri problemi sociali, che potevano essere affrontati solo con una sincera solidarietà umana.

Alcuni enti pubblici avevano un’articolazione periferica molto capillare e vicina alla popolazione, ma il distacco dai problemi degli assisiti, dovuto all’organizzazione prettamente burocratica, impediva quell’empatia e quella comprensione del bisogno o del disagio, che avrebbe potuto facilitare la risoluzione definitiva del problema. Inoltre, le decisioni relative alle modalità di funzionamento erano prese dall’alto e distribuite in modo gerarchico. Questo, se si escludevano gli enti locali (Comuni), impediva qualsiasi tipo di controllo da parte dei cittadini sulle concrete risposte ai loro bisogni.

L’impostazione settorializzata e parziale dell’assistenza non faceva altro che dare risposte inefficaci ai cittadini bisognosi, per le cui situazioni spesso erano competenti più istituzioni: ad esempio, un minore illegittimo in difficoltà economiche e comportamentali era seguito dall’ONMI, dall’ECA, da un’IPAB (se ricoverato in istituto), dall’ENPMF, dal Ministero di Grazia e Giustizia, ciascuno dei quali era competente per un singolo aspetto.

Si creavano, di conseguenza, situazioni di sovrapposizione degli interventi, completamente slegati tra loro, poiché mancava totalmente una linea unitaria che li coordinasse. La causa ti tutto ciò era l’assenza del concetto di sicurezza sociale e della percezione dell’assistenza come prevenzione e non come rimedio provvisorio del bisogno.

Inoltre, la coesistenza di istituzioni pubbliche e private (sancita dalla stessa Costituzione) non solo ostacolò lo sviluppo della complementarietà tra gli interventi, ma consentì la salvaguardia di poteri e privilegi.

Infatti, in particolare la dirigenza democristiana, che mantenne le redini del potere per tutto il decennio, vide nel carattere particolaristico e clientelare delle politiche sociali uno strumento per la gestione del consenso a livello locale e nazionale. In Italia il welfare state si sviluppò per precisa volontà dei gruppi dirigenti, non tanto con quegli intenti redistributivi caratteristici di altre realtà europee, quanto piuttosto di mantenerla il più possibile inalterata rispetto al passato.

Un altro elemento che ostacolò l’approvazione di una riforma organica dell’assistenza fu l’ostilità del mondo cattolico all’affermarsi del ruolo dello Stato sul fronte dell’assistenza e della previdenza. Il rischio era che la Chiesa dovesse cedere una parte dei suoi poteri in un ambito dove, per secoli, aveva esercitato quasi un monopolio.

Questo timore ebbe ripercussioni sul rapporto tra Vaticano e partito di governo, la Dc, che riuscì ad ottenere un largo consenso elettorale, pressoché in tutte le consultazioni elettorali degli anni Cinquanta, grazie anche alla mobilitazione del mondo cattolico, di cui era il rappresentante politico.

È evidente che potenti pressioni puntavano a vanificare qualsiasi tentativo di riforma. Inoltre, come sostiene Ginsborg: «la maggioranza della Dc guardava con sospetto alle riforme. Essa era disposta a promuovere aggiustamenti parziali del sistema, che limitassero le tensioni sociali, ma non voleva modificare la struttura fondamentale».

Nell’arco di un decennio dalla fine della guerra, all’entusiasmo post-bellico, subentrò un profondo scetticismo sulla possibilità di ammodernare il sistema assistenziale italiano. Su questo fronte l’ANEA fu sempre molto presente e propositiva e volle dare un nuovo impulso alla volontà riformatrice convocando il Congresso nazionale degli ECA dal 9 al 12 novembre 1957.

Tema principale del Congresso fu la necessità di una riforma fortemente reclamata, poiché la legislazione vigente risultava inadeguata alle esigenze di un moderno sistema assistenziale. Il punto di partenza doveva essere la Costituzione, la quale esigeva che fossero protetti i deboli, curati i malati e assistiti gli inabili, in altre parole, doveva essere assicurata la cosiddetta “protezione sociale”.

L’ANEA fu, quindi, l’ispiratrice dell’ultimo disegno di legge di riforma degli anni Cinquanta, Riforma degli Enti comunali di assistenza e della altre istituzioni pubbliche di assistenza, presentata in Parlamento nel 1960, che aveva lo scopo di rendere più funzionali e più aderenti alla realtà gli istituti assistenziali, facendo dell’attività assistenziale un vero e proprio cardine della vita sociale del Paese. Ma anche questa proposta di riforma non venne messa in atto.

Da tutto ciò si capisce come, nonostante la riconosciuta inefficacia del sistema assistenziale italiano, le cui mancanze erano state nascoste all’opinione pubblica durante il fascismo in nome del prestigio e dell’efficienza, non si arrivò ad una sintesi tra le diverse posizioni.

Durante tutti gli anni Cinquanta, quindi, l’attività del Parlamento non seppe mettere in pratica i nuovi orientamenti costituzionali e fu disattesa l’ipotesi di una riforma organica del settore assistenziale, mantenendo inalterato il panorama frammentato e molteplice degli enti adibiti ad attività di previdenza e assistenza, che spesso si sovrapponevano creando da un lato confusione e conflitti di competenze, dall’altro sprechi elevati.

Anzi, gli anni ’50 fecero registrare un aumento dell’istituzionalizzazione, con una crescita degli istituti di ricovero pubblici e privati da 4.917 del 1952 a 5.544 del 1961. Lo strumento di intervento più capillare rimase però l’ente comunale di assistenza, che coinvolgeva anche il maggior numero di assistiti: nel 1952 risultavano assistere mediamente quasi 60 persone ogni 1.000 abitanti (i Comuni, invece, ne assistevano direttamente, nello stesso anno, solo 10 ogni 1.000 abitanti), ma con una spesa media per ogni assistito irrilevante, pari cioè a £ 3.800 annue, che si abbassava ulteriormente nelle regioni meridionali dove aumentava il numero degli assistiti.

Ma nell’Italia che si avviava al boom economico, uscendo dalla secolare arretratezza e correndo verso i consumi di massa, si pensava che grazie allo sviluppo, miseria ed emarginazione sarebbero scomparse.

In questo contesto nazionale di grande dibattito attorno alla questione della riforma dello stato sociale, a livello locale per l’ECA di Monza gli anni cinquanta furono anni di forte impegno sul fronte dell’assistenza ai bisognosi, per i quali furono garantite le consuete prestazioni di assistenza generica, parallelamente, come già ricordato in precedenza, a nuovi impegni assunti per far fronte alle nuove necessità.

Il decennio ’60 fu, al contrario, ricco di spinte innovative. In particolare conobbe la diffusione del concetto di “sicurezza sociale” e di “servizi sociali”, permise di interpretare l’assistenza non più come rimedio temporaneo, ma come un servizio finalizzato a prevenire l’insorgere del bisogno.

Iniziarono a sorgere le prime scuole per assistenti sociali, ovvero figure professionali con una formazione adeguata a riconoscere i problemi psico-sociali degli assistiti, capaci di andare alla radice del bisogno e di trovare i metodi e gli strumenti per “estirparla”.

Accanto a questo nuovo modo di concepire l’assistenza, in quegli anni si sviluppò la presa di coscienza dei guasti provocati nel tessuto sociale dai processi di inurbamento e di industrializzazione causati dal “boom economico” degli anni ’50.

Si posero le basi culturali del Welfare State, la cui importanza e necessità fu accentuata dalla protesta studentesca sul finire degli anni Sessanta, che, criticando il sistema vigente, chiedeva un rinnovamento che rendesse, tra l’altro, l’apparato assistenziale più efficiente e idoneo a rispondere alle istanze economico-sociali dell’epoca.

Il processo di sensibilizzazione della società civile fece aprire gli anni Settanta con la prospettiva di una grande trasformazione nella politica assistenziale del Paese.

Soprattutto quando si fecero più forti e pressanti le rivendicazioni dei movimenti collettivi e più teso il livello di scontro sociale, vennero prese una serie di misure, come l’istituzione degli asili nido comunali, nel 1971, dei consultori, nel 1975, o la soppressione tra il 1975 e il 1977 di alcuni enti assistenziali come l’ONMI e gli ECA.

Inoltre, l’istituzione delle Regioni e il conseguente decentramento delle competenze assistenziali furono, effettivamente, un elemento “rigenerante” per il sistema assistenziale italiano, che conobbe una nuova stagione, grazie al maggior coordinamento e alla maggiore efficacia delle attività.

Bisognerà, però, attendere il nuovo millennio per avere in Italia una legge quadro di riforma del sistema assistenziale. Nel 2000 venne, infatti, approvata la legge n. 328

"Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali", che diede finalmente una configurazione complessiva al sistema dei Servizi sociali.

 



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.