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N. 26 - Febbraio 2010
(LVII)
ISTITUZIONI E ASSISTENZA PUBBLICA IN ITALIA TRA FASCISMO E REPUBBLICA
gli Enti Comunali di Assistenza - Parte II
di Maria Giovanna Pipino
Il
passaggio
dall’EOA
all’ECA
fu
caratterizzato
da
due
importanti
cambiamenti:
il
primo
si
può
dedurre
dal
nome
stesso.
La
presenza
dell’aggettivo
“comunale”
nel
nome
del
nuovo
ente
sta
infatti
ad
indicare
la
vicinanza
all’amministrazione
piuttosto
che
al
Partito,
elemento
che
invece
aveva
caratterizzato
l’EOA,
attraverso
la
cui
gestione
il
PNF
aveva
cercato
di
ampliare
la
propria
presenza
diretta
nelle
strutture
socio-economiche
e
nella
vita
sociale.
L’obiettivo
di
tale
cambiamento
era
quello
di
rendere
l’assistenza
ancora
più
capillare
e di
«sganciarla
dalla
dimensione
del
consenso
per
farla
entrare
in
quella
del
diritto».
L’altro
importante
elemento
di
diversità
tra
i
due
enti
riguardava
l’ambito
di
intervento.
L’ECA
si
sarebbe
occupato
esclusivamente
dell’assistenza
generica
e
dalla
sua
giurisdizione
sarebbe
rimasta
estranea
l’assistenza
infantile,
che,
insieme
alla
tutela
ai
disoccupati,
era
stato
uno
dei
punti
di
forza
dell’EOA.
Attraverso
queste
modifiche
l’assistenza
compiva
un
passo
decisivo
per
assurgere
a
funzione
di
Stato,
mentre
si
assisteva
alla
specializzazione
dell’azione
del
Partito,
che
si
sarebbe
dedicato,
insieme
ad
enti
come
l’ONMI,
alla
tutela
della
“razza”
e
delle
“nuove
generazioni”.
La
legge
istitutiva
degli
enti
comunali
di
assistenza
è
composta
da
12
articoli
contenenti
le
disposizioni
relative
alla
costituzione,
alla
composizione,
alle
fonti
di
finanziamento
e
alle
funzioni
del
nuovo
ente.
Il
primo
articolo
della
legge
istitutiva
dell’Ente
Comunale
di
Assistenza
prevedeva
l’istituzione
di
un
ente
in
ogni
comune
del
Regno
con
lo
scopo
di
assistere
gli
individui
e le
famiglie
che
si
trovino
in
condizioni
di
particolare
necessità.
La
razionalizzazione
del
sistema
assistenziale
determinò,
oltre
allo
scioglimento
degli
Enti
Opere
Assistenziali,
anche,
come
si è
detto,
la
cancellazione
delle
ormai
antiche
Congregazioni
di
Carità,
che
con
la
data
di
entrata
in
vigore
della
legge
(1
luglio
1937)
vennero
soppresse.
Le
Congregazioni
di
carità
fino
a
quel
momento
avevano
gestito
l’attività
e
l’amministrazione
di
tutte
le
istituzioni
pubbliche
(le
IPAB)
dedite
all’assistenza
generica.
Tali
istituti,
che,
in
virtù
della
legge
Crispi
del
1890
n.
6972,
avevano
mantenuto
statuti
propri,
personalità
giuridica
e i
patrimoni
erano
propri,
rimasti
distinti,
ma,
in
attuazione
degli
articoli
6 e
7
della
nuova
norma,
dovettero
ricadere
sotto
l’amministrazione
dell’ECA
con
estinzione
della
personalità
e
fusione
dei
patrimoni:
Inoltre
la
legge,
oltre
a
disporre,
entro
un
anno,
la
fusione
con
l’Ente
di
istituti
aventi
come
fine
l’assistenza
generica,
prevedeva
che
si
potesse
provvedere
«con
decreto
reale,
su
proposta
del
ministro
per
l’interno
al
decentramento»
al
distacco
dall’ECA,
di
tutti
gli
enti
con
scopi
specifici
e
diversi
dall’assistenza
generica,
come
ospedali,
ricoveri
di
vecchi
ed
inabili,
orfanotrofi,
ecc.,
al
fine
di
garantirne
la
completa
autonomia
amministrativa.
I
compiti
dell’ECA
relativi
all’assistenza
generica
erano
molto
vasti
e
comprendevano
l’erogazione
di
sussidi
in
denaro
o in
natura,
come
i
pasti
per
i
poveri
e il
ricovero
notturno,
la
cura
degli
interessi
dei
poveri
con
l’assunzione
della
rappresentanza
legale
davanti
alle
autorità
amministrative
e
giudiziarie
e di
vari
altri
provvedimenti
finalizzati
a
soddisfare
bisogni
immediati.
L’individuazione
di
bisognosi
avveniva
attraverso
la
formazione
di
elenchi
dei
poveri,
variabili
su
istanza
dei
richiedenti,
attraverso
i
quali
«si
procedeva
a
una
vera
e
propria
schedatura
degli
strati
meno
abbienti
della
popolazione.
Per
la
realizzazione
di
tali
elenchi,
gli
addetti
si
avvalevano
sempre
più
frequentemente
delle
visitatrici
fasciste,
ovvero
donne
fasciste
appartenenti
al
Fascio
zona,
che
visitavano
le
famiglie
bisognose
a
scopo
di
assistenza
morale
e
materiale,
con
speciale
cura
per
ciò
che
riguarda
la
maternità
e
l’infanzia,
riferendo
periodicamente
alla
Segretaria
del
Fascio
dalla
quale
dipendevano.
Questo
sistema
dava
all’Ente
un
carattere
discrezionale
nell’erogazione
delle
prestazioni,
che
dimostrava
la
permanenza
della
tradizionale
impostazione
caritativa
dell’assistenzialismo
italiano.
D’altra
parte,
l’esistenza
di
un
completo
schedario
anagrafico
dei
capi
delle
famiglie
assistite,
che
riportava
la
situazione
di
ognuna
di
esse,
ne
garantiva
un
perfetto
e
dettagliato
controllo.
Ogni
famiglia
aveva
infatti
una
cartella
personale
dove
venivano
riportate
mensilmente
tutte
le
assegnazioni
di
viveri,
sussidi,
etc…,
in
modo
da
poter
monitorare
costantemente
la
quantità
di
ciò
che
veniva
distribuito.
L’organizzazione
dello
schedario
avveniva
quindi
su
base
“familiare”
a
dimostrazione
di
come
l’assistenza
fosse
principalmente
rivolta
alla
famiglia,
che
doveva
essere
permeata
dei
valori
fascisti
per
la
creazione
del
consenso.
A
questo
scopo
la
donna
svolgeva
un
ruolo
fondamentale:
oltre
alle
visitatrici
fasciste,
che
portavano
aiuti
morali
e
materiali,
propagandando
le
leggi
sociali
e le
provvidenze
del
regime,
c’erano
le
massaie
rurali
fasciste,
che
si
occupavano
della
propaganda
e
dell’assistenza
in
campagna
e le
assistenti
sociali
fasciste,
che
curavano
le
relazioni
sociali
nelle
fabbriche,
propagandando
le
leggi
di
tutela
del
lavoro.
Attraverso
questi
strumenti
il
regime
volle
plasmare
una
famiglia
che
appoggiasse
lo
Stato
e
che
ne
fosse
una
copia
in
miniatura.
Non
a
caso
si
giunse
a
riprodurre
a
livello
familiare
l’autoritarismo
dello
Stato
mediante
il
ritorno
ad
una
struttura
patriarcale,
anche
mediante
l’estromissione
della
donna
dal
mondo
del
lavoro.
Si
giunse
così,
da
un
lato,
a
una
diminuzione
notevole
di
manodopera
femminile
nelle
fabbriche,
sostituita
da
uomini
padri
di
famiglia,
dall’altro
a un
impiego
sempre
più
diffuso
di
donne
in
ambito
sociale
in
qualità
di
assistenti
sociali,
visitatrici
ecc.
La
presenza
e il
rafforzamento
della
famiglia
patriarcale
rendeva
più
semplice
la
compilazione
degli
schedari
anagrafici
e
permetteva
all’ECA
di
stilare
dettagliatamente
la
relazione
annuale
sull’attività
svolta
all’interno
del
comune
di
riferimento
prevista
dalla
legge.
Il
programma
assistenziale
doveva
essere
inviato
dai
prefetti
al
Ministero
dell’Interno
e
doveva
tenere
presente
i
bisogni
di
quei
soggetti
non
raggiunti
da
altre
provvidenze
già
predisposte
dal
regime.
In
tale
relazione
doveva
quindi
essere
specificato
il
numero
degli
assistiti
(appartenenti
a
diverse
categorie:
invalidi,
disoccupati,
famiglie
numerose,
bisognosi,
decaduti
economicamente,
ammalati,
ecc.)
e
l’entità
dei
sussidi
in
natura,
in
denaro
o
per
mezzo
della
distribuzione
di
viveri
(rancio
del
popolo,
effetti
di
vestiario,
combustibili,
effetti
lette
ricci,
ecc.)
L’istituzione
degli
ECA,
quindi,
razionalizzò
l’erogazione
dell’assistenza
coordinandola
a
livello
centrale
per
renderla
il
più
capillare
possibile,
ma
anche
uniforme
su
tutto
il
territorio
nazionale.
Tale
intento
fu
reso
ancora
più
chiaro
dall’articolo
2
della
legge
istitutiva,
il
quale
disponeva
che
l’amministrazione
di
ogni
ente
fosse
affidata
ad
un
organo
collegiale,
il
comitato,
presieduto
dal
podestà.
Affidare
la
presidenza
dell’ente
al
podestà,
rappresentante
periferico
del
governo,
dava
all’ente
stesso
la
parvenza
di
una
diretta
dipendenza
dalle
sfere
governative
(togliendo
quella
autonomia
che
aveva
diversamente
caratterizzato
le
Congregazioni
di
Carità).
Le
attività
degli
ECA
avrebbero
dovuto
iniziare
a
funzionare
dopo
circa
un
mese
dall’approvazione
della
legge.
Data
la
ristrettezza
dei
tempi,
il
Ministero
dell’Interno
autorizzò
i
prefetti
a
rimandare
la
costituzione
dell’amministrazione
vera
e
propria
e ad
affidare
provvisoriamente
la
gestione
dell’ente
ad
un’amministrazione
straordinaria
composta
da
soli
tre
membri:
il
podestà,
la
segretaria
dei
Fasci
femminili
e un
rappresentante
del
segretario
del
Fascio
locale.
Tale
amministrazione
avrebbe
dovuto
favorire
in
tempi
brevi
il
passaggio
al
vero
e
proprio
comitato
del
quale
avrebbero
dovuto
far
parte,
oltre
ai
tre
membri
già
presenti
nell’amministrazione
straordinaria,
i
rappresentanti
delle
associazioni
sindacali.
Tali
rappresentanti
erano
dovevano
essere
nominati
dal
prefetto
su
terne
proposte
dalle
associazioni
sindacali
e
durare
in
carica
quattro
anni
con
possibilità
di
riconferma.
La
presenza
di
rappresentanti
sindacali
all’interno
dell’amministrazione
dell’ECA,
dimostra
come
il
sindacato
fosse
uno
dei
soggetti
operanti
nel
settore
assistenziale.
A
questo
proposito
è
possibile
trovare
un
chiaro
riscontro
con
la
legge
istitutiva
del
nuovo
ordinamento
sindacale,
la
quale
prevedeva
che
le
associazioni
dei
datori
di
lavoro
e
dei
lavoratori
dovessero
perseguire
scopi
di
assistenza,
di
istruzione
e di
educazione
morale
e
nazionale.
L’affidamento
ai
sindacati
di
tali
compiti
aveva
come
probabile
obiettivo
quello
di
promuovere
l’idea
che
i
lavoratori
potessero
trovare
una
risposta
ai
loro
problemi
solo
nell’ambito
corporativo,
disincentivando
qualunque
altra
forma
di
organizzazione
pericolosa
per
la
stabilità
del
sistema.
Per
quanto
riguardava
le
fonti
di
finanziamento,
la
legge,
nell’art.4,
dettava
precise
disposizioni:
comunali
di
assistenza
della
provincia
stessa,
c)
con
le
elargizioni
della
provincia,
del
comune
e di
altri
enti
L’ente
comunale
di
assistenza
provvede
al
raggiungimento
dei
suoi
fini:
a)
con
le
rendite
del
suo
patrimonio
e di
quello
delle
istituzioni
pubbliche
di
assistenza
e
beneficenza
che
esso
amministra
(…);
b)
con
le
somme
che
gli
sono
annualmente
assegnate
sul
provento
dell’addizionale
istituita
con
regio
decreto-legge
30
dicembre
1936
, n.
2171.
A
tal
uopo
il
ministro
per
l’interno
dispone
il
riparto,
tra
le
province
del
regno,
della
parte
di
detto
provento
a
ciò
destinata
(…);
il
prefetto
distribuisce
la
quota
attribuita
alla
rispettiva
provincia
tra
gli
enti
pubblici
e di
privati.
La
scarsa
disponibilità
finanziaria
fu
uno
dei
problemi
principali
con
cui
gli
Enti
Comunali
di
Assistenza
dovettero
fare
i
conti
per
tutta
la
durata
della
loro
esistenza.
Fin
dalla
loro
nascita
gli
ECA
ebbero
a
disposizione
scarse
risorse:
in
primo
luogo,
gli
ECA
non
poterono
beneficiare
del
patrimonio
proveniente
dagli
enti
pre-esistenti.
Infatti,
formalmente
gli
EOA
non
possedevano
nessuno
degli
immobili
destinati
all’amministrazione
o ai
servizi
specifici
(refettori,
cucine,
dormitori),
che
rimasero
di
proprietà
delle
Federazioni
fasciste,
perciò
non
fu
possibile
per
i
nuovi
Enti
incamerare
quel
ricco
patrimonio
immobiliare.
Inoltre,
nonostante
la
legge
prevedesse
la
confluenza
dei
patrimoni
delle
istituzioni
gestite
dalle
Congregazioni
di
Carità
negli
Enti,
questo
avrebbe
difficilmente
portato
giovamento
alle
loro
casse.
Da
un
lato,
infatti,
si
trattava
molto
spesso
di
piccole
istituzioni
dotate
di
scarso
patrimonio,
dall’altro
la
limitazione
delle
attività
affidate
agli
ECA,
finalizzate
esclusivamente
all’assistenza
generica,
restringeva
il
numero
di
istituzioni
assimilabili.
La
legge
disponeva
la
possibilità
di
decentrare
le
istituzioni
aventi
fini
differenti
dall’assistenza
generica,
ma
c’era
un
rifiuto
degli
stessi
ECA
ad
attuarla.
«D’altronde,
il
mantenimento
di
istituzioni
con
scopi
diversi
era
fondamentale
non
solo
ai
fini
delle
rendite
patrimoniali,
ma
anche
per
assicurare
un
margine
per
lo
svolgimento
di
iniziative
non
strettamente
collegate
alle
modalità
dell’assistenza
generica
di
tipo
tradizionale».
In
conformità
alla
legge,
però,
gli
ECA
provvidero
al
decentramento
di
istituzioni
e
quello
dell’assistenza
generica
finì
per
essere
l’unico
servizio
svolto
dagli
ECA.
Un
altro
elemento
che
rese
difficile
l’avvio
dei
nuovi
enti
fu
la
continuazione
dell’impegno
da
parte
del
Pnf
in
ambito
assistenziale.
Come
abbiamo
già
visto,
il
Partito
fascista
era
stato,
fino
ad
allora,
uno
dei
principali
soggetti
attivi
nel
settore
dell’assistenza
attraverso
gli
EOA.
La
fondazione
degli
istituti
di
assicurazione
contro
gli
infortuni
sul
lavoro
(INFAIL)
e di
previdenza
sociale
(INFPS)
con
il
conseguente
ampliamento
delle
assicurazioni
sociali,
ebbe
notevoli
riflessi
sulla
necessità
reale
degli
EOA
e ne
rese
superflua
l’azione.
Il
loro
scioglimento
privò
il
Pnf
di
un
importante
strumento
di
intervento,
ma
la
volontà
di
mantenere
un
ruolo
in
campo
assistenziale
lo
spinse
a
chiedere
che
alle
Federazioni
fosse
mantenuto
il
contributo
necessario
per
continuare
la
gestione
delle
attività
ancora
nelle
loro
mani.
Sotto
la
gestione
del
Partito
erano
rimaste
parecchie
attività,
tra
cui
l’assistenza
climatica,
l’erogazione
di
sussidi
ai
reduci
e
alle
famiglie
bisognose
dei
caduti
fascisti,
inoltre
era
stato
deciso
di
mantenere
funzionanti
gli
EOA
nei
territori
dell’Africa
Orientale
e di
continuare
a
finanziare
la
Befana
fascista.
Nell’ottobre
del
1937
fu
inoltre
promulgata
la
legge
sulla
GIL,
una
nuova
organizzazione
sottoposta
al
PNF,
che
riuniva
in
essa
i
compiti
della
vecchia
ONB,
dei
fasci
giovanili
e
degli
EOA.
La
GIL
infatti
ereditò
la
gestione
del
settore
dell’assistenza
climatica
fino
ad
allora
attribuita
agli
EOA.
«Dal
punto
di
vista
finanziario
la
nascita
della
GIL
determinò
un
ulteriore
sbilanciamento
a
favore
del
partito,
con
conseguente
penalizzazione
delle
risorse
degli
ECA.
Per
legge
infatti
la
GIL,
poteva
avvalersi
non
solo
dei
contributi
del
Partito
Nazionale
Fascista
(…)
ma
anche
delle
somme
provenienti
da
lasciti,
donazioni,
oblazioni
e
sovvenzioni».
In
questo
contesto
caratterizzato
dalla
presenza
di
una
frammentazione
del
settore
nonostante
la
volontà
del
governo
di
creare
un
moderno
sistema
assistenziale
affidato
allo
Stato,
gli
ECA
si
trovarono
in
enormi
difficoltà
finanziarie.
Per
assicurare
il
minimo
indispensabile
alla
sopravvivenza
del
nuovo
ente,
il
governo
emanò
quindi
un
nuovo
decreto
legge
che
ampliava
il
gettito
dell’addizionale
destinato
ai
soli
ECA.
Fu
questo
il
contesto
nel
quale
gli
ECA
furono
relegati
al
solo
settore
dell’assistenza
generica,
un
tipo
di
intervento
limitato
per
lo
più
all’erogazione
di
generi
di
prima
necessità.
Questa
tendenza
può
essere
ricollegata
anche
alla
permanenza
di
una
visione
tradizionalistica
del
Ministero
dell’Interno,
il
quale
percepiva
ancora
l’assistenza
come
strumento
per
il
controllo
dell’ordine
pubblico.
In
ultima
analisi
il
sistema
assistenziale
introdotto
dal
regime
fascista
di
cui
gli
ECA
costituirono
una
parte
determinante,
riuscì
da
un
lato
a
realizzare
una
rete
di
protezione
sociale
generalizzata,
ma
dall’altro
presentò
alcuni
aspetti
negativi.
Innanzi
tutto
la
continuità
con
cui
l’assistenza
venne
utilizzata,
ancora
una
volta,
come
strumento
per
mantenere
l’ordine
pubblico.
Questo
aspetto
è
accentuato
anche
dalla
tendenza
del
regime
a
costruirsi
un
interlocutore
privilegiato
non
tanto
tra
le
classi
meno
abbienti
e
più
bisognose
di
assistenza,
ma
tra
le
classi
medie.
Prevalentemente
da
queste
infatti
si
attendeva
una
risposta
in
termini
di
consenso
e la
politica
sociale
assecondò
tale
strategia.
Il
caso
dei
dipendenti
pubblici
fu
emblematico
di
questo
atteggiamento
tenuto
dal
regime.
Infatti,
per
quella
categoria
di
lavoratori
vennero
create
diverse
“casse
mutue”
per
la
gestione
della
previdenza
e
dell’assistenza
con
agevolazioni
e
trattamenti
di
favore:
tra
i
vari
enti
mutualistici
costituiti
per
i
dipendenti
pubblici
è
possibile
ricordare
l’INADEL,
creato
nel
1925
per
i
dipendenti
degli
enti
locali
e le
rispettive
famiglie
e le
sue
funzioni,
inizialmente
limitate
alla
previdenza,
successivamente
vennero
estese
anche
all’assistenza;
a
questo
fece
seguito,
nel
1934,
l’istituzione
dell’ENPAS
per
i
dipendenti
statali.
Oltre
alla
tutela
previdenziale,
ai
dipendenti
pubblici
furono
diretti
anche
provvedimenti
volti
all’incremento
demografico,
come
la
concessione
di
premi
di
natalità
e
nuzialità.
È
quindi
possibile
rintracciare
una
logica
di
tipo
selettivo
e
categoriale
riscontrabile
nella
differenziazione
dei
benefici,
in
relazione
alle
categorie
di
appartenenza
dei
destinatari.
Lo
Stato
Sociale
fascista
rimase
quindi
caratterizzato
da
una
forte
frammentazione
e da
disparità
di
trattamento
da
soggetto
a
soggetto.
Un
ulteriore
aspetto
che
ostacolò
la
formazione
di
un
sistema
assistenziale
efficiente
e
controllato
dallo
Stato,
fu
la
resistenza
da
parte
delle
Opere
Pie
gestite
dalla
Chiesa.
Sul
versante
delle
Opere
Pie
la
legislazione
fascista
si
era
mossa
in
due
fasi:
nella
prima
si
procedette
ad
un
inasprimento
della
normativa
crispina
con
l’introduzione
dell’obbligo
di
accorpamento
delle
Opere
pie
in
IPAB.
Nella
seconda
fase
la
politica
fascista
in
materia
di
opere
pie
diventò
meno
ostile
alla
Chiesa
data
la
necessità
di
avere
l’appoggio
del
clero
cattolico
per
rafforzare
il
proprio
potere.
L’atto
finale
che
sancì
la
divisione
dei
compiti
tra
Stato
e
Chiesa
fu
il
Concordato
del
1929,
ma
la
riorganizzazione
del
sistema
di
erogazione
dell’assistenza
introdotta
con
gli
ECA,
che
aveva
l’obiettivo
di
affidare
ad
organi
statali
il
controllo
dell’assistenza
e
della
beneficenza,
rischiava
di
intaccare
il
monopolio
cattolico
della
gestione
delle
prestazioni
caritative.
Lo
Stato
sociale
fascista
rimase,
quindi,
caratterizzato
da
una
forte
frammentazione
e il
tentativo
di
modernizzazione
intrapreso
con
l’istituzione
degli
ECA
fu
parziale
e
incompleto
anche
per
via
di
una
causa
contingente.
Infatti,
un
ulteriore
fattore
che
determinò
la
mancanza
di
differenziazione
delle
attività
degli
ECA,
furono
le
condizioni
di
povertà
ancora
diffuse
e
rese
più
gravi
dallo
scoppio
della
Seconda
guerra
mondiale,
che
provocò
un’interruzione
nel
processo
di
modernizzazione,
per
dedicare
le
risorse
prevalentemente
al
sostegno
della
popolazione
colpita
dalla
guerra.
Gli
anni
immediatamente
successivi
la
fine
del
secondo
conflitto
mondiale
segnano
notoriamente
il
definitivo
riconoscimento
dei
diritti
sociali,
che
i
totalitarismi,
usciti
sconfitti
dalla
guerra,
avevano
calpestato
nel
corso
del
primo
dopoguerra.
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