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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
ISTITUZIONI E ASSISTENZA PUBBLICA IN ITALIA TRA FASCISMO E REPUBBLICA
gli Enti Comunali di Assistenza - Parte I
di Maria Giovanna Pipino
Quello
sugli
Enti
Comunali
di
Assistenza
è
uno
studio
particolarmente
interessante,
che
mi
ha
permesso
di
approfondire
la
conoscenza
di
una
realtà
su
cui,
purtroppo,
non
esiste
un’ampia
bibliografia
di
riferimento.
Nonostante
il
ruolo
importante
che
gli
ECA
hanno
ricoperto
per
circa
un
quarantennio
nell’ambito
dell’assistenza
generica
ai
più
bisognosi,
sull’argomento
non
esistono
particolari
studi
o
approfondimenti,
che
riescano
a
fornire
un
quadro
completo
di
tale
realtà.
Dallo
studio
che
ho
condotto
per
realizzare
questo
lavoro,
emerge
in
modo
chiaro
la
rilevanza
di
un
ente
come
l’ECA
all’interno
di
un
sistema
assistenziale
pur
imperfetto
e
lacunoso
come
quello
italiano.
Oggi
l’assistenza
in
Italia
è
regolata
da
una
legge
quadro,
la
n.
328
approvata
nel
2000,
che
conferisce
al
sistema
assistenziale
una
struttura
e un
ordinamento
ben
precisi,
i
quali
hanno
consentito
di
superare
il
caos
legislativo
che
fino
ad
allora
caratterizzò
la
materia.
Quello
dell’assistenza
e
dei
Servizi
Sociali
è un
mondo
complesso
e
proprio
in
questo
mondo
rientrano
gli
ECA,
in
quanto
facenti
parte
di
quel
complesso
e
articolato
panorama
di
istituzioni,
che,
nel
periodo
qui
considerato,
dagli
anni
Trenta
ai
primissimi
anni
Sessanta,
costituiva
il
sistema
assistenziale
italiano.
Il
ventennio
fascista
ereditò
dall’Italia
liberale
un
sistema
costituito
da
una
miriade
di
istituzioni,
soprattutto
cattoliche,
finalizzate
per
lo
più
alla
beneficienza
e
alla
carità.
In
questo
quadro
in
cui
il
concetto
vero
e
proprio
di
“assistenza”
non
era
si
ancora
sviluppato
e in
cui
era
assente
un
coordinamento
tra
le
diverse
istituzioni
presenti,
si
inserì
l’intervento
del
regime.
La
nascita
di
enti
assistenziali
e
previdenziali
come
gli
ECA,
l’ONMI,
l’INFPS,
l’INFAIL
ed
altri,
diede
corpo
alla
politica
assistenziale
fascista,
che
andava
letta
nell’ottica
della
ricerca
del
consenso.
L’istituzione
degli
enti
comunali
di
assistenza,
avvenuta
nel
1937,
deve,
inoltre,
essere
interpretata
come
la
volontà
del
regime
fascista
di
costruire
un
organo
non
tanto
capace
di
rispondere
ai
bisogni
“immediati
e
temporanei”
delle
persone,
come
scritto
nella
legge
istitutiva,
quanto
in
grado
di
evitare
che
situazioni
di
estrema
povertà
e
disagio
che
potessero
creare
disordini
sociali.
Nonostante
quella
degli
ECA
fosse
sostanzialmente
una
funzione
di
polizia,
il
loro
ruolo
crebbe
di
importanza
soprattutto
negli
anni
della
seconda
guerra
mondiale,
in
cui
ebbero
un
ruolo
determinante
non
solo
nell’assistenza
generica,
ma
anche
nell’assistenza
specifica
ai
profughi
e ai
reduci,
la
cui
gestione
venne
delegata
dai
Comuni
agli
ECA.
Il
contributo
assistenziale
fornito
dagli
ECA
negli
anni
del
conflitto,
ma
soprattutto
nel
primo
dopoguerra,
grazie
anche
alla
presenza
capillare
di
tali
istituzioni
su
tutto
il
territorio
italiano,
ne
consentì
la
sopravvivenza
anche
dopo
l’esperienza
fascista.
Nell’Italia
repubblicana
degli
anni
Quaranta
e
Cinquanta,
l’aumento
delle
funzioni
e
delle
attività
che
coinvolse
gli
ECA,
dovuto
alle
difficili
condizioni
socio-economiche
di
buona
parte
della
popolazione,
contribuì
a
rendere
la
vita
degli
ECA
particolarmente
difficile
soprattutto
sul
piano
finanziario,
dovendo
fronteggiare,
oltre
che
gli
scarsi
finanziamenti,
una
serie
di
sprechi
dovuti
in
particolar
modo
alle
spese
di
amministrazione
e
all’eccessiva
burocratizzazione.
Inoltre,
molti
tra
gli
Enti
comunali
di
assistenza
caddero
nella
complessa
rete
dei
rapporti
partioclartistico-clientelari,
che
caratterizzarono
la
maggior
parte
degli
enti
pubblici
sorti
nell’Italia
della
prima
repubblica.
Di
contro
ad
aspetti
negativi
e
criticabili
come
questi,
non
è
possibile
negare
il
ruolo
importante
che
gli
ECA
ricoprirono
grazie
alla
loro
caratteristica
primaria,
ovvero
quella
di
essere
enti
locali,
distribuiti
in
modo
capillare
in
ogni
Comune
e di
essere,
quindi,
conoscitori
del
territorio
di
competenza
e
più
vicini
alle
esigenze
delle
persone.
Alla
salita
al
potere
del
fascismo,
il
settore
dell’assistenza
in
Italia
era
regolato
da
una
legislazione
ridotta
a
poche
leggi
approvate
dai
governi
liberali
di
fine
Ottocento.
In
epoca
di
liberalismo
e
quindi
di
minima
ingerenza
dello
Stato
in
ambito
socio-economico,
i
primi
governi
dell’Italia
liberale
traducevano
l’“assistenza”
con
la
mera
“beneficenza”
finalizzata
al
mantenimento
dell’ordine
pubblico.
Nei
primi
anni
del
Novecento
si
possono
inquadrare
i
primi
reali
cambiamenti:
la
progressiva
industrializzazione
favorì
la
maturazione
di
una
prospettiva
differente
attraverso
cui
guardare
ai
problemi
di
natura
sociale
e si
sviluppò
la
consapevolezza
che
nel
ciclo
produttivo
occorresse
avere
persone
in
salute.
Lo
sviluppo
industriale
e il
conseguente
diffondersi
di
nuovi
bisogni
determinarono
i
primi
consistenti
interventi
statali
nel
settore
dell’assistenza,
ma
occorrerà
attendere
l’avvento
del
fascismo
per
assistere
ad
un
cambiamento
di
prospettiva.
Nell’iniziare
la
sua
opera
di
revisione
e di
organizzazione,
il
regime
si
trovò
di
fronte
a
una
situazione
di
estesa
e
fiorente
presenza
dell’iniziativa
privata
a
fronte
di
una
quasi
nulla
l’azione
dello
Stato.
Al
contrario,
la
concezione
assistenziale
fascista
prevedeva
un
intervento
più
esteso
rispetto
alla
mera
carità
privata
(volta
esclusivamente
al
conforto
contro
la
miseria
e la
malattia
del
singolo)
e
all’intervento
dello
stato
liberale
(mirante
ad
assistere
unicamente
i
più
poveri
e
disagiati
per
ragioni
di
ordine
pubblico).
Lo
Stato
sociale
fascista
può
infatti
essere
considerato
come
«un
processo
di
progressiva
trasformazione
del
sistema
di
protezione
sociale
creato
in
età
liberale»,
finalizzata
a
realizzare
un
preciso
disegno
politico
e
ideologico.
Dal
punto
di
vista
ideologico,
le
riforme
apportate
dal
fascismo
vanno
lette
in
una
prospettiva
totalitaria:
nelle
intenzioni
di
Mussolini
c’era
il
raggiungimento
di
un
interesse
superiore,
che
superasse
quelli
individuali
e
rispondesse,
invece,
ad
un
interesse
di
superiorità
della
Nazione.
In
ultima
analisi
ciò
a
cui
mirava
il
regime
era
la
riorganizzazione
della
società
al
fine
di
permettere
la
liberazione
di
nuove
energie
capaci
di
ripercuotersi
positivamente
su
di
essa,
portando
un
aumento
di
produttività
e di
ricchezza
per
lo
Stato.
Tale
visione
si
inseriva
perfettamente
nell’interpretazione
organicistica
dello
Stato
presente
nell’ideologia
fascista.
Lo
Stato
era
interpretato
come
un
“super-organismo
biologico”
del
quale
le
persone
rappresentavano
le
cellule.
Così
come
in
ogni
organismo
ben
funzionante
le
cellule
sono
strutturalmente
organizzate,
anche
lo
Stato
avrebbe
dovuto
diventare
l’organizzatore
della
vita
sociale
dei
propri
cittadini
per
garantire
il
“buon
funzionamento”
di
ogni
sua
parte.
È su
queste
basi
che,
da
un
lato,
si
procedette
alla
creazione
dell’organizzazione
corporativa
in
campo
economico,
al
fine
di
inquadrare
all’interno
di
precise
organizzazioni
lavoratori
e
datori
di
lavoro
e,
dall’altro,
all’introduzione
di
una
legislazione
sociale
molto
articolata
con
lo
scopo
di
organizzare
sistematicamente
la
vita
di
ogni
individuo
dalla
nascita
alla
morte.
Il
primo
importante
provvedimento
adottato
dal
regime
fu
il
Regio
Decreto
del
30
dicembre
1923,
che
modificava
la
legge
crispina
del
1890
sulle
Istituzioni
Pubbliche
di
Beneficenza.
La
riforma
rientrava
nel
contesto
di
una
generale
fascistizzazione
mirante
a
«controllare
le
élites
locali,
che
avevano
individuato
nelle
istituzioni
pubbliche
di
beneficenza
e
nelle
Congregazioni
di
Carità
uno
dei
feudi
del
loro
potere
politico,
e a
ridurre
l’influenza
delle
gerarchie
ecclesiastiche
con
il
ridimensionamento
delle
Opere
Pie».
Quest’ultimo
obiettivo
fallì
per
l’opposizione
netta
del
clero
cattolico.
La
situazione
trovò
una
soluzione
solo
con
la
firma
del
Concordato
tra
Stato
e
Chiesa
(11
febbraio
1929),
sopra
ricordato,
che
sanciva,
tra
l’altro,
una
sorta
di
divisione
dei
compiti
assistenziali
tra
Stato
e
Chiesa:
il
primo
si
sarebbe
occupato
delle
attività
in
cui
il
«contenuto
assistenziale
veniva
a
fondersi
con
obiettivi
di
socializzazione
politica
e di
organizzazione
totalizzante
del
tempo
libero;
la
Chiesa
aveva
una
delega
di
gestione
delle
più
tradizionali
attività
di
assistenza
agli
anziani,
agli
inabili
e ai
soggetti
marginali».
Per
quanto
riguarda
invece
la
maggiore
presenza
e il
maggior
controllo
dello
Stato
nel
settore
dell’assistenza,
i
primi
provvedimenti
furono
finalizzati
al
rafforzamento
dei
poteri
di
controllo
del
Ministero
dell’Interno
e,
di
conseguenza,
delle
prefetture.
Ai
prefetti
fu
affidato
il
compito
di
coordinare
le
varie
forme
di
assistenza
e
beneficenza
nei
singoli
comuni,
di
vigilare
sulla
gestione
delle
Congregazioni
di
Carità
e,
infine,
di
ordinare
inchieste
sugli
uffici
e
gli
atti
amministrativi
delle
IPAB.
La
legge
introdusse
un’importante
modifica
mutando
la
denominazione
delle
“Istituzioni
Pubbliche
di
Beneficenza”
(IPB)
in
“Istituzioni
Pubbliche
di
Assistenza
e
Beneficenza”
(IPAB)
.
Aggiungendo
il
termine
“assistenza”
, si
allargava
il
bacino
d’utenza,
poiché
nella
definizione
rientravano
non
solo
le
istituzioni
caritative,
ma
anche
quelle
che
miravano
a
scopi
generali
di
benessere
e
miglioramento
economico
e
morale
della
società.
Dal
punto
di
vista
politico,
i
motivi
che
spinsero
Mussolini
ad
intervenire
sul
piano
dell’assistenza
furono
essenzialmente
tre.
In
primo
luogo
il
sostegno
alla
politica
demografica
del
regime.
Uno
dei
punti
fondamentali
del
programma
fascista,
infatti,
fu
l’incremento
demografico
dell’Italia,
sulla
base
dell’idea
che
la
potenza
e la
ricchezza
di
un
paese
si
misurasse
sul
numero
di
uomini.
In
secondo
luogo,
le
novità
introdotte
in
ambito
di
protezione
sociale
erano
finalizzate
anche
alla
creazione
di
un’opinione
pubblica
favorevole
al
regime.
Fondamentale
fu
il
lavoro
svolto
da
grandi
strutture
pubbliche
quali
l’ONB,
l’OND,
l’ONMI,
che
costituirono
uno
strumento
privilegiato
di
collegamento
tra
lo
Stato
e la
famiglia
e
vennero
utilizzate
anche
a
fini
propagandistici.
La
ricerca
del
consenso
delle
masse
avvenne
anche
con
altri
mezzi,
in
particolare
condizionando,
in
modo
coercitivo,
la
stampa
e
l’opinione
pubblica.
Proprio
sulla
stampa
si
può
riscontrare
la
volontà
di
intervenire
in
ambiti
ritenuti
fondamentali
per
l’ideologia
fascista,
in
particolar
modo
quello
della
crescita
demografica
e
dell’infanzia,
affidandone
le
competenze
a
enti
pubblici.
A
questo
proposito,
ad
esempio,
il
Cardinale
Arcivescovo
di
Monza
richiamava
l’attenzione
sulla
famiglia
e
sull’importanza
dell’avvenire
delle
Nazioni
legando
il
patriottismo
alla
presenza
di
famiglie
numerose.
«Condannate
le
famiglie
alla
sterilità
e
sarà
condannata
la
Nazione
allo
spopolamento».
Sempre
relativamente
alla
politica
demografica
del
governo,
l’articolo
proseguiva
informando
su
un
comunicato
del
podestà
che
stabiliva
«un
esonero
dalla
tassa
di
famiglia
a
quelle
con
almeno
otto
figli
conviventi
con
i
genitori».
La
sensibilità
verso
la
famiglia
resa
esplicita
in
questo
articolo,
dimostrava
che
il
governo
aveva
iniziato
una
politica
della
crescente
natalità
con
una
serie
di
provvedimenti
tra
i
quali
la
creazione
dell’Opera
Nazionale
per
la
Maternità
e
l’Infanzia.
L’ONMI
istituzione
creata
nel
1925,
aveva
il
compito
di
provvedere,
mediante
organi
provinciali
e
comunali,
all’assistenza
e
alla
protezione
delle
gestanti
e
delle
madri
indigenti,
dei
bambini
bisognosi,
abbandonati,
maltrattati
o
anormali.
Oltre
all’assistenza
diretta,
compito
dell’ONMI
era
anche
quello
di
diffondere
la
conoscenza
delle
norme
di
igiene
prenatale
ed
infantile.
Un
altro
ente
con
funzioni
di
assistenza
nel
settore
infantile
fu
l’Opera
Nazionale
Balilla
(ONB),
creata
nel
1926.
Si
trattava
di
un
ente
morale
per
l'assistenza
e
l'educazione
fisica
e
morale
della
gioventù,
che
venivano
svolte
in
strutture
gestite
dal
PNF
(colonie
e
campeggi
per
la
gioventù).
L'iscrizione
all'Opera
non
era
obbligatoria,
ma
erano
riservati
ai
soli
soci
i
numerosi
servizi
offerti,
tra
cui
le
attività
sportive,
i
campeggi
e
l'invio
alle
colonie
montane,
marine
ed
elioterapiche.
Nel
1925
venne
istituito
un
altro
ente,
non
dedicato
all’infanzia,
ma
all’assistenza
generalizzata:
l’Opera
Nazionale
Dopolavoro
(OND),
i
cui
scopi
primari
erano
legati
alla
promozione
del
sano
e
proficuo
impiego
delle
ore
libere
dei
lavoratori
intellettuali
e
manuali,
con
istituzioni
dirette
a
sviluppare
le
loro
capacità
fisiche,
intellettuali
e
morali
allontanandoli
dalle
pericolose
conseguenza
dell’ozio.
Attraverso
enti
come
quelli
appena
descritti
lo
Stato
totalitario
arrivava
ad
occuparsi
di
tutti
gli
aspetti
della
vita
del
popolo,
regolando
il
tempo
libero,
organizzando
i
momenti
di
incontro
e il
vivere
quotidiano
nell’ottica
di
un
avvicinamento
delle
masse
allo
Stato
fascista.
Sul
fronte
del
consenso,
ebbe
un
ruolo
fondamentale
il
contenimento
della
crisi
economica
degli
anni
’20
e
’30,
accompagnato
da
un’opera
di
riassetto
del
sistema
di
protezione
sociale
introdotto
per
fronteggiare
il
fenomeno
della
disoccupazione.
All’interno
di
questo
contesto,
il
processo
di
riorganizzazione
del
settore
assistenziale
svolse
un’altra
importante
funzione:
quella
di
rispondere
all’esigenza
di
nascondere
gli
effetti
economico-sociali
che
le
scelte
di
politica
economica
di
Mussolini
e la
contingente
crisi
del
1929
stavano
provocando.
Per
rispondere
alla
difficile
situazione
economica,
venne
ulteriormente
ampliata
la
legislazione
sociale
al
fine
di
estendere
le
tutele
ai
lavoratori
mediante
l’introduzione
di
istituti
tutt’oggi
esistenti.
Il
1933
fu
l’anno
della
fondazione
dell’INFPS
(Istituto
Nazionale
Fascista
della
Previdenza
Sociale)
e
l’INFAIL
(Istituto
Nazionale
Fascista
per
l’Assicurazione
Contro
gli
Infortuni
sul
Lavoro).
Vennero
inoltre
ampliate
in
senso
familiare
le
assicurazioni
sociali
con
la
creazione
nel
1934
della
Cassa
nazionale
per
gli
assegni
familiari
agli
operai
dell’industria,
finanziata
dai
datori
di
lavoro
in
modo
che
i
salari
fossero
integrati
in
rapporto
al
numero
dei
figli
da
mantenere.
L’obiettivo
degli
assegni
familiari
uniti
alla
retribuzione,
era
quello
di
raggiungere
il
perfetto
“salario
familiare”,
ma
il
loro
ammontare
era
irrisorio
serviva
a
mala
pena
a
compensare
le
forti
riduzioni
salariali
dovute
alla
crisi
economica.
Sul
fronte
dell’assistenza
le
iniziative
furono
prese
direttamente
dal
Partito
Nazionale
Fascista
che
assunse
un
ruolo
sempre
più
importante
nel
coordinarne
le
attività.
L’acquisizione
di
funzioni
assistenziali
da
parte
del
PNF
era
stata
fino
a
quel
momento
graduale
e si
era
inserita
nella
ricerca
di
accettazione
sociale
del
fascismo.
Lo
Statuto
del
1926
attribuì
una
serie
di
funzioni
di
cura
e di
controllo
nel
campo
economico
e
sociale,
che
estendevano
l’attività
del
partito
ampliando
le
sfere
di
ingerenza
nella
vita
sociale.
Il
processo
di
infiltrazione
del
PNF
nel
settore
dell’assistenza
subì
un’accelerazione
in
seguito
alle
conseguenze
economico-sociali
della
“Grande
Crisi”,
che,
secondo
le
disposizioni
di
Mussolini,
le
Federazioni
avrebbero
dovuto
affrontare
in
maniera
sistematica.
Nel
1931
vennero
quindi
istituiti
gli
EOA
(Enti
Opere
assistenziali)
come
Enti
a
“gestione
speciale”
del
PNF,
presenti
in
ogni
Comune
e
gestiti
dal
segretario
federale
del
partito.
Tali
strutture
godevano
di
ampia
autonomia
amministrativa,
ma
la
loro
dipendenza
dal
partito
permetteva
di
amministrare,
ma
non
di
possedere
i
beni
e le
strutture
utilizzati
per
le
attività
assistenziali.
Inizialmente
gli
EOA
nacquero
come
enti
preposti
alla
riorganizzazione
delle
colonie
climatiche
infantili,
ma,
per
rispondere
all’aggravarsi
delle
condizioni
economiche,
furono
riconvertiti
all’erogazione
di
assistenza
generica.
Il
conseguente
ampliamento
delle
attività
gestite
dal
partito
portò
ad
un
conflitto
con
il
Ministero
dell’Interno
tanto
che
le
decisioni
del
PNF
relative
al
settore
assistenziale
apparvero
come
un
tentativo
di
prevaricare
l’autorità
statale
a
livello
locale
dei
prefetti,
in
nome
di
un
rafforzamento
dei
segretari
federali.
Il
raggiungimento
di
un
compromesso
portò
a un
accordo
secondo
cui
il
PNF
avrebbe
gestito,
tramite
gli
EOA,
l’assistenza
generica
limitatamente
al
periodo
invernale.
I
compiti
degli
EOA,
però,
crebbero
costantemente
e
l’assistenza
divenne
permanente
e
praticata
in
modo
capillare
sul
territorio.
L’attività
degli
EOA
diede
la
possibilità
al
PNF
di
acquistare
il
ruolo
di
tramite
tra
lo
Stato
e
gli
individui,
andando
a
integrare
l’azione
assistenziale
prevista
dalle
leggi.
Il
massiccio
impegno
del
partito
sul
fronte
assistenziale
deve
essere
visto
in
relazione
alle
scelte
operate
dal
regime
in
campo
previdenziale
fin
dal
1923,
quando
le
modifiche
alla
legislazione
sulle
assicurazioni
sociali
avevano
stabilito
il
ridimensionamento
dell’assicurazione
obbligatoria
contro
la
disoccupazione,
che
aveva
escluso
tutti
i
lavoratori
agricoli.
Alla
luce
di
questi
provvedimenti,
l’intervento
assistenziale
del
Pnf
«acquisì
i
connotati
di
una
vera
e
propria
camera
di
compensazione
delle
carenze
della
tutela
assicurativa».
L’intervento
del
Pnf
offriva
inoltre
due
importanti
vantaggi:
da
un
lato
la
disponibilità
di
manodopera
a
basso
costo
e
dall’altro
la
possibilità
di
controllare
uno
strato
sociale
facilmente
permeabile
dalle
idee
di
rivolta.
Le
funzioni
svolte
dagli
EOA
rispondevano
a
due
tipologie:
assistenza
e
consulenza
per
rispondere
ai
bisogni
dei
disoccupati;
assistenza
nelle
questioni
igienico-sanitarie,
tesa
alla
tutela
dell’infanzia,
di
cui
le
colonie
infantili
rappresentavano
l’intervento
più
importante.
Il
continuo
ampliamento
delle
funzioni
degli
EOA,
che
nel
triennio
1935-1937
estesero
l’assistenza
alle
famiglie
dei
richiamati
in
Africa
Orientale
e
dei
volontari
in
Spagna,
complicò
la
gestione
e
l’organizzazione
degli
Enti
stessi.
In
quegli
anni,
di
fronte
alle
difficoltà
finanziarie
incontrate
dagli
EOA,
si
sviluppò
un
dibattito
sulle
esigenze
di
una
riforma
del
settore
assistenziale.
Occorreva
superare
istituti
antichi
e
obsoleti,
come
le
Opere
Pie
e le
Congregazioni
di
Carità,
e si
imponeva
la
necessità
di
riorganizzare
l’assistenza
sulla
base
dell’esperienza
degli
EOA.
Si
pensò,
quindi,
di
istituire
un
nuovo
ente,
presente
in
ogni
Comune,
che
avrebbe
coordinato
l’attività
assistenziale
assorbendo
le
funzioni
e i
patrimoni
delle
Congregazioni
di
Carità
e
degli
EOA,
delle
IPAB
e di
tutte
le
altre
opere
aventi
fini
di
assistenza
generica.
Il
dibattito
si
concluse
con
la
costituzione
degli
Enti
Comunali
di
Assistenza
(ECA),
istituiti
con
la
legge
n.
847
del
3
giugno
1937.
La
decisione
del
governo
rientrava
in
un
progetto
di
ammodernamento
e
razionalizzazione
del
sistema
assistenziale
italiano,
che
basato
sulla
presenza
di
troppi
istituti
obsoleti
e
non
coordinati
nelle
loro
attività.
La
realizzazione
degli
Enti
comunali
di
assistenza
fu
l’ultima
tappa
di
quel
percorso
intrapreso
dal
regime
volto
a
creare
uno
Stato
sociale
ampio
e in
grado
di
occuparsi
di
ogni
materia,
che,
come
abbiamo
già
visto,
era
volto
al
“potenziamento”
della
nazione
da
un
lato
e
alla
costruzione
di
un
ampio
consenso
dall’altro.
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