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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

ISTITUZIONI E ASSISTENZA PUBBLICA IN ITALIA TRA FASCISMO E REPUBBLICA
gli Enti Comunali di Assistenza - Parte I

di Maria Giovanna Pipino

 

Quello sugli Enti Comunali di Assistenza è uno studio particolarmente interessante, che mi ha permesso di approfondire la conoscenza di una realtà su cui, purtroppo, non esiste un’ampia bibliografia di riferimento.

Nonostante il ruolo importante che gli ECA hanno ricoperto per circa un quarantennio nell’ambito dell’assistenza generica ai più bisognosi, sull’argomento non esistono particolari studi o approfondimenti, che riescano a fornire un quadro completo di tale realtà.

Dallo studio che ho condotto per realizzare questo lavoro, emerge in modo chiaro la rilevanza di un ente come l’ECA all’interno di un sistema assistenziale pur imperfetto e lacunoso come quello italiano.

Oggi l’assistenza in Italia è regolata da una legge quadro, la n. 328 approvata nel 2000, che conferisce al sistema assistenziale una struttura e un ordinamento ben precisi, i quali hanno consentito di superare il caos legislativo che fino ad allora caratterizzò la materia.

Quello dell’assistenza e dei Servizi Sociali è un mondo complesso e proprio in questo mondo rientrano gli ECA, in quanto facenti parte di quel complesso e articolato panorama di istituzioni, che, nel periodo qui considerato, dagli anni Trenta ai primissimi anni Sessanta, costituiva il sistema assistenziale italiano.

Il ventennio fascista ereditò dall’Italia liberale un sistema costituito da una miriade di istituzioni, soprattutto cattoliche, finalizzate per lo più alla beneficienza e alla carità. In questo quadro in cui il concetto vero e proprio di “assistenza” non era si ancora sviluppato e in cui era assente un coordinamento tra le diverse istituzioni presenti, si inserì l’intervento del regime.

La nascita di enti assistenziali e previdenziali come gli ECA, l’ONMI, l’INFPS, l’INFAIL ed altri, diede corpo alla politica assistenziale fascista, che andava letta nell’ottica della ricerca del consenso.

L’istituzione degli enti comunali di assistenza, avvenuta nel 1937, deve, inoltre, essere interpretata come la volontà del regime fascista di costruire un organo non tanto capace di rispondere ai bisogni “immediati e temporanei” delle persone, come scritto nella legge istitutiva, quanto in grado di evitare che situazioni di estrema povertà e disagio che potessero creare disordini sociali.

Nonostante quella degli ECA fosse sostanzialmente una funzione di polizia, il loro ruolo crebbe di importanza soprattutto negli anni della seconda guerra mondiale, in cui ebbero un ruolo determinante non solo nell’assistenza generica, ma anche nell’assistenza specifica ai profughi e ai reduci, la cui gestione venne delegata dai Comuni agli ECA.

Il contributo assistenziale fornito dagli ECA negli anni del conflitto, ma soprattutto nel primo dopoguerra, grazie anche alla presenza capillare di tali istituzioni su tutto il territorio italiano, ne consentì la sopravvivenza anche dopo l’esperienza fascista.

Nell’Italia repubblicana degli anni Quaranta e Cinquanta, l’aumento delle funzioni e delle attività che coinvolse gli ECA, dovuto alle difficili condizioni socio-economiche di buona parte della popolazione, contribuì a rendere la vita degli ECA particolarmente difficile soprattutto sul piano finanziario, dovendo fronteggiare, oltre che gli scarsi finanziamenti, una serie di sprechi dovuti in particolar modo alle spese di amministrazione e all’eccessiva burocratizzazione.

Inoltre, molti tra gli Enti comunali di assistenza caddero nella complessa rete dei rapporti partioclartistico-clientelari, che caratterizzarono la maggior parte degli enti pubblici sorti nell’Italia della prima repubblica.
Di contro ad aspetti negativi e criticabili come questi, non è possibile negare il ruolo importante che gli ECA ricoprirono grazie alla loro caratteristica primaria, ovvero quella di essere enti locali, distribuiti in modo capillare in ogni Comune e di essere, quindi, conoscitori del territorio di competenza e più vicini alle esigenze delle persone.

Alla salita al potere del fascismo, il settore dell’assistenza in Italia era regolato da una legislazione ridotta a poche leggi approvate dai governi liberali di fine Ottocento. In epoca di liberalismo e quindi di minima ingerenza dello Stato in ambito socio-economico, i primi governi dell’Italia liberale traducevano l’“assistenza” con la mera “beneficenza” finalizzata al mantenimento dell’ordine pubblico.

Nei primi anni del Novecento si possono inquadrare i primi reali cambiamenti: la progressiva industrializzazione favorì la maturazione di una prospettiva differente attraverso cui guardare ai problemi di natura sociale e si sviluppò la consapevolezza che nel ciclo produttivo occorresse avere persone in salute.

Lo sviluppo industriale e il conseguente diffondersi di nuovi bisogni determinarono i primi consistenti interventi statali nel settore dell’assistenza, ma occorrerà attendere l’avvento del fascismo per assistere ad un cambiamento di prospettiva.

Nell’iniziare la sua opera di revisione e di organizzazione, il regime si trovò di fronte a una situazione di estesa e fiorente presenza dell’iniziativa privata a fronte di una quasi nulla l’azione dello Stato.

Al contrario, la concezione assistenziale fascista prevedeva un intervento più esteso rispetto alla mera carità privata (volta esclusivamente al conforto contro la miseria e la malattia del singolo) e all’intervento dello stato liberale (mirante ad assistere unicamente i più poveri e disagiati per ragioni di ordine pubblico).

Lo Stato sociale fascista può infatti essere considerato come «un processo di progressiva trasformazione del sistema di protezione sociale creato in età liberale», finalizzata a realizzare un preciso disegno politico e ideologico.

Dal punto di vista ideologico, le riforme apportate dal fascismo vanno lette in una prospettiva totalitaria: nelle intenzioni di Mussolini c’era il raggiungimento di un interesse superiore, che superasse quelli individuali e rispondesse, invece, ad un interesse di superiorità della Nazione.

In ultima analisi ciò a cui mirava il regime era la riorganizzazione della società al fine di permettere la liberazione di nuove energie capaci di ripercuotersi positivamente su di essa, portando un aumento di produttività e di ricchezza per lo Stato.

Tale visione si inseriva perfettamente nell’interpretazione organicistica dello Stato presente nell’ideologia fascista. Lo Stato era interpretato come un “super-organismo biologico” del quale le persone rappresentavano le cellule.

Così come in ogni organismo ben funzionante le cellule sono strutturalmente organizzate, anche lo Stato avrebbe dovuto diventare l’organizzatore della vita sociale dei propri cittadini per garantire il “buon funzionamento” di ogni sua parte.

È su queste basi che, da un lato, si procedette alla creazione dell’organizzazione corporativa in campo economico, al fine di inquadrare all’interno di precise organizzazioni lavoratori e datori di lavoro e, dall’altro, all’introduzione di una legislazione sociale molto articolata con lo scopo di organizzare sistematicamente la vita di ogni individuo dalla nascita alla morte.

Il primo importante provvedimento adottato dal regime fu il Regio Decreto del 30 dicembre 1923, che modificava la legge crispina del 1890 sulle Istituzioni Pubbliche di Beneficenza. La riforma rientrava nel contesto di una generale fascistizzazione mirante a «controllare le élites locali, che avevano individuato nelle istituzioni pubbliche di beneficenza e nelle Congregazioni di Carità uno dei feudi del loro potere politico, e a ridurre l’influenza delle gerarchie ecclesiastiche con il ridimensionamento delle Opere Pie».

Quest’ultimo obiettivo fallì per l’opposizione netta del clero cattolico. La situazione trovò una soluzione solo con la firma del Concordato tra Stato e Chiesa (11 febbraio 1929), sopra ricordato, che sanciva, tra l’altro, una sorta di divisione dei compiti assistenziali tra Stato e Chiesa: il primo si sarebbe occupato delle attività in cui il «contenuto assistenziale veniva a fondersi con obiettivi di socializzazione politica e di organizzazione totalizzante del tempo libero; la Chiesa aveva una delega di gestione delle più tradizionali attività di assistenza agli anziani, agli inabili e ai soggetti marginali».

Per quanto riguarda invece la maggiore presenza e il maggior controllo dello Stato nel settore dell’assistenza, i primi provvedimenti furono finalizzati al rafforzamento dei poteri di controllo del Ministero dell’Interno e, di conseguenza, delle prefetture. Ai prefetti fu affidato il compito di coordinare le varie forme di assistenza e beneficenza nei singoli comuni, di vigilare sulla gestione delle Congregazioni di Carità e, infine, di ordinare inchieste sugli uffici e gli atti amministrativi delle IPAB.

La legge introdusse un’importante modifica mutando la denominazione delle “Istituzioni Pubbliche di Beneficenza” (IPB) in “Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza” (IPAB) . Aggiungendo il termine “assistenza” , si allargava il bacino d’utenza, poiché nella definizione rientravano non solo le istituzioni caritative, ma anche quelle che miravano a scopi generali di benessere e miglioramento economico e morale della società.

Dal punto di vista politico, i motivi che spinsero Mussolini ad intervenire sul piano dell’assistenza furono essenzialmente tre. In primo luogo il sostegno alla politica demografica del regime. Uno dei punti fondamentali del programma fascista, infatti, fu l’incremento demografico dell’Italia, sulla base dell’idea che la potenza e la ricchezza di un paese si misurasse sul numero di uomini.

In secondo luogo, le novità introdotte in ambito di protezione sociale erano finalizzate anche alla creazione di un’opinione pubblica favorevole al regime. Fondamentale fu il lavoro svolto da grandi strutture pubbliche quali l’ONB, l’OND, l’ONMI, che costituirono uno strumento privilegiato di collegamento tra lo Stato e la famiglia e vennero utilizzate anche a fini propagandistici.

La ricerca del consenso delle masse avvenne anche con altri mezzi, in particolare condizionando, in modo coercitivo, la stampa e l’opinione pubblica.

Proprio sulla stampa si può riscontrare la volontà di intervenire in ambiti ritenuti fondamentali per l’ideologia fascista, in particolar modo quello della crescita demografica e dell’infanzia, affidandone le competenze a enti pubblici.

A questo proposito, ad esempio, il Cardinale Arcivescovo di Monza richiamava l’attenzione sulla famiglia e sull’importanza dell’avvenire delle Nazioni legando il patriottismo alla presenza di famiglie numerose. «Condannate le famiglie alla sterilità e sarà condannata la Nazione allo spopolamento».

Sempre relativamente alla politica demografica del governo, l’articolo proseguiva informando su un comunicato del podestà che stabiliva «un esonero dalla tassa di famiglia a quelle con almeno otto figli conviventi con i genitori». La sensibilità verso la famiglia resa esplicita in questo articolo, dimostrava che il governo aveva iniziato una politica della crescente natalità con una serie di provvedimenti tra i quali la creazione dell’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia.

L’ONMI istituzione creata nel 1925, aveva il compito di provvedere, mediante organi provinciali e comunali, all’assistenza e alla protezione delle gestanti e delle madri indigenti, dei bambini bisognosi, abbandonati, maltrattati o anormali. Oltre all’assistenza diretta, compito dell’ONMI era anche quello di diffondere la conoscenza delle norme di igiene prenatale ed infantile.

Un altro ente con funzioni di assistenza nel settore infantile fu l’Opera Nazionale Balilla (ONB), creata nel 1926. Si trattava di un ente morale per l'assistenza e l'educazione fisica e morale della gioventù, che venivano svolte in strutture gestite dal PNF (colonie e campeggi per la gioventù). L'iscrizione all'Opera non era obbligatoria, ma erano riservati ai soli soci i numerosi servizi offerti, tra cui le attività sportive, i campeggi e l'invio alle colonie montane, marine ed elioterapiche.

Nel 1925 venne istituito un altro ente, non dedicato all’infanzia, ma all’assistenza generalizzata: l’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), i cui scopi primari erano legati alla promozione del sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori intellettuali e manuali, con istituzioni dirette a sviluppare le loro capacità fisiche, intellettuali e morali allontanandoli dalle pericolose conseguenza dell’ozio.

Attraverso enti come quelli appena descritti lo Stato totalitario arrivava ad occuparsi di tutti gli aspetti della vita del popolo, regolando il tempo libero, organizzando i momenti di incontro e il vivere quotidiano nell’ottica di un avvicinamento delle masse allo Stato fascista.

Sul fronte del consenso, ebbe un ruolo fondamentale il contenimento della crisi economica degli anni ’20 e ’30, accompagnato da un’opera di riassetto del sistema di protezione sociale introdotto per fronteggiare il fenomeno della disoccupazione. All’interno di questo contesto, il processo di riorganizzazione del settore assistenziale svolse un’altra importante funzione: quella di rispondere all’esigenza di nascondere gli effetti economico-sociali che le scelte di politica economica di Mussolini e la contingente crisi del 1929 stavano provocando. Per rispondere alla difficile situazione economica, venne ulteriormente ampliata la legislazione sociale al fine di estendere le tutele ai lavoratori mediante l’introduzione di istituti tutt’oggi esistenti.

Il 1933 fu l’anno della fondazione dell’INFPS (Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale) e l’INFAIL (Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione Contro gli Infortuni sul Lavoro). Vennero inoltre ampliate in senso familiare le assicurazioni sociali con la creazione nel 1934 della Cassa nazionale per gli assegni familiari agli operai dell’industria, finanziata dai datori di lavoro in modo che i salari fossero integrati in rapporto al numero dei figli da mantenere. L’obiettivo degli assegni familiari uniti alla retribuzione, era quello di raggiungere il perfetto “salario familiare”, ma il loro ammontare era irrisorio serviva a mala pena a compensare le forti riduzioni salariali dovute alla crisi economica.

Sul fronte dell’assistenza le iniziative furono prese direttamente dal Partito Nazionale Fascista che assunse un ruolo sempre più importante nel coordinarne le attività. L’acquisizione di funzioni assistenziali da parte del PNF era stata fino a quel momento graduale e si era inserita nella ricerca di accettazione sociale del fascismo. Lo Statuto del 1926 attribuì una serie di funzioni di cura e di controllo nel campo economico e sociale, che estendevano l’attività del partito ampliando le sfere di ingerenza nella vita sociale.

Il processo di infiltrazione del PNF nel settore dell’assistenza subì un’accelerazione in seguito alle conseguenze economico-sociali della “Grande Crisi”, che, secondo le disposizioni di Mussolini, le Federazioni avrebbero dovuto affrontare in maniera sistematica.

Nel 1931 vennero quindi istituiti gli EOA (Enti Opere assistenziali) come Enti a “gestione speciale” del PNF, presenti in ogni Comune e gestiti dal segretario federale del partito. Tali strutture godevano di ampia autonomia amministrativa, ma la loro dipendenza dal partito permetteva di amministrare, ma non di possedere i beni e le strutture utilizzati per le attività assistenziali.

Inizialmente gli EOA nacquero come enti preposti alla riorganizzazione delle colonie climatiche infantili, ma, per rispondere all’aggravarsi delle condizioni economiche, furono riconvertiti all’erogazione di assistenza generica. Il conseguente ampliamento delle attività gestite dal partito portò ad un conflitto con il Ministero dell’Interno tanto che le decisioni del PNF relative al settore assistenziale apparvero come un tentativo di prevaricare l’autorità statale a livello locale dei prefetti, in nome di un rafforzamento dei segretari federali. Il raggiungimento di un compromesso portò a un accordo secondo cui il PNF avrebbe gestito, tramite gli EOA, l’assistenza generica limitatamente al periodo invernale.

I compiti degli EOA, però, crebbero costantemente e l’assistenza divenne permanente e praticata in modo capillare sul territorio. L’attività degli EOA diede la possibilità al PNF di acquistare il ruolo di tramite tra lo Stato e gli individui, andando a integrare l’azione assistenziale prevista dalle leggi.

Il massiccio impegno del partito sul fronte assistenziale deve essere visto in relazione alle scelte operate dal regime in campo previdenziale fin dal 1923, quando le modifiche alla legislazione sulle assicurazioni sociali avevano stabilito il ridimensionamento dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, che aveva escluso tutti i lavoratori agricoli. Alla luce di questi provvedimenti, l’intervento assistenziale del Pnf «acquisì i connotati di una vera e propria camera di compensazione delle carenze della tutela assicurativa». L’intervento del Pnf offriva inoltre due importanti vantaggi: da un lato la disponibilità di manodopera a basso costo e dall’altro la possibilità di controllare uno strato sociale facilmente permeabile dalle idee di rivolta.

Le funzioni svolte dagli EOA rispondevano a due tipologie: assistenza e consulenza per rispondere ai bisogni dei disoccupati; assistenza nelle questioni igienico-sanitarie, tesa alla tutela dell’infanzia, di cui le colonie infantili rappresentavano l’intervento più importante. Il continuo ampliamento delle funzioni degli EOA, che nel triennio 1935-1937 estesero l’assistenza alle famiglie dei richiamati in Africa Orientale e dei volontari in Spagna, complicò la gestione e l’organizzazione degli Enti stessi.

In quegli anni, di fronte alle difficoltà finanziarie incontrate dagli EOA, si sviluppò un dibattito sulle esigenze di una riforma del settore assistenziale. Occorreva superare istituti antichi e obsoleti, come le Opere Pie e le Congregazioni di Carità, e si imponeva la necessità di riorganizzare l’assistenza sulla base dell’esperienza degli EOA. Si pensò, quindi, di istituire un nuovo ente, presente in ogni Comune, che avrebbe coordinato l’attività assistenziale assorbendo le funzioni e i patrimoni delle Congregazioni di Carità e degli EOA, delle IPAB e di tutte le altre opere aventi fini di assistenza generica.

Il dibattito si concluse con la costituzione degli Enti Comunali di Assistenza (ECA), istituiti con la legge n. 847 del 3 giugno 1937. La decisione del governo rientrava in un progetto di ammodernamento e razionalizzazione del sistema assistenziale italiano, che basato sulla presenza di troppi istituti obsoleti e non coordinati nelle loro attività.

La realizzazione degli Enti comunali di assistenza fu l’ultima tappa di quel percorso intrapreso dal regime volto a creare uno Stato sociale ampio e in grado di occuparsi di ogni materia, che, come abbiamo già visto, era volto al “potenziamento” della nazione da un lato e alla costruzione di un ampio consenso dall’altro.

 



 

 

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