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MEDIEVALE


N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

ASSISTENZA DEI POVERI TRA XIII E XIV SECOLO
Prato, centro tessile nel basso medioevo
di Lorenzo Magnolfi

 

La seconda meta del Duecento e i primi anni del secolo successivo, sono il periodo in cui Prato, così come Firenze e molte altre città in Italia, raggiunge il culmine della sua fioritura economica e sociale. All’interno della seconda cerchia delle mura vivevano 15000 abitanti, mentre il contado ne contava 12000, ripartiti in circa 6500 fuochi, dei quali 4000 tra città murata e sobborghi, i restanti 2500 nel distretto.

L’attività economica principale era la lavorazione della lana, ripartita in tutte le sue numerosi fasi e volta alla produzione di panni per l’uso interno, ma soprattutto per l’esportazione anche oltre i confini della penisola. Fin dall’inizio del XII sec. furono installate in Prato le prime gualchiere per la follatura dei tessuti, operazione questa resa possibile dall’abbondanza di acque della Val di Bisenzio. Nel 1285 i lanaioli erano 110, senza contare i proprietari dei tiratoi, i cimatori, i gualchierai e i tintori. Salta agli occhi come in questo anno si contassero in città (ci sia concesso di parlare di “città”, anche se ancora Prato di fatto non lo era) ben 17 Arti con 763 iscritti, un numero insolitamente alto per un centro ritenuto minore.

Nel 1298 le Arti diventano 24 e non sono conteggiati i cambiatori, i gualchierai, i biadaioli, gli agrimensori, i figulinai di Figline, i fornaciai e i padroni dei mulini. Quest’ultimo tipo di opifici, azionati sempre dalla forza motrice delle acque del Bisenzio e delle gore che da esso si dipartivano, ebbero una certa importanza nella crescita economica pratese e gli ritroveremo molte volte citati negli scritti dell’ospedale del Ceppo. Qui si portava infatti a macinare il grano da cui si ricavava la farina per fare il pane da distribuire ai poveri. Prato sullo scorcio finale del Duecento è quindi un centro manifatturiero in pieno fermento, favorito anche dalla posizione geografica sulle direttrici est-ovest e nord-sud, il cui sviluppo dura ininterrotto da circa un secolo. L’abitato ha inoltre un’aria cosmopolita a causa della presenza di numerosi artigiani forestieri, provenienti da altre parti d’Italia, ma pure da paesi europei anche molto lontani.

Il destino di Prato non fu molto diverso da quello della potente vicina Firenze, così come le cause che le portarono ad una lunga fase di regresso economico, politico e sociale. Il punto più basso di questo decadimento fu senz’altro la crisi che investì tutta l’Europa nelle prima metà del XIV sec., alla quale seguì il terribile flagello della Peste Nera. Quello però non fu altro che il traguardo finale di un processo iniziato almeno quarant’anni prima. Restando nell’ambito pratese vediamo come la città fu vessata a più riprese da carestie che si susseguivano ad intervalli di tempo ravvicinati.

Ve ne furono nel 1283-84, nel 1298 e quelle più dure si verificarono tra il 1328-30 e il 1339. In più una grave epidemia di vaiolo colpì soprattutto i fanciulli nel 1335. Se il contado di Prato era già duramente provato da questa serie di cattive annate, la situazione peggiorò in modo irreparabile al tempo della guerra con Castruccio Castracani. Il condottiero lucchese, vincitore ad Altopascio, mise infatti a ferro e fuoco le campagne intorno a Prato nella sua avanzata verso Firenze, danneggiando gravemente molte ville e case da signore. Anche le perdite di vite umane furono ingenti e privarono la comunità di una parte non piccola della sua forza lavoro. La generalizzata congiuntura economica negativa andrà di pari passo col rallentare, per non dire con la battuta d’arresto, dell’accrescimento demografico e del processo di urbanizzazione che durerà diversi secoli.

Tutta questa serie di eventi negativi, succedutisi nell’arco di trent’anni, resero la città assai più debole: “La città aveva perso il suo slancio. L’ingerenza fiorentina negli affari di Prato venne sempre più a pesare; il conferimento della signoria della città agli Angiò, fu soltanto un espediente che servì a dilazionare, ma non ad evitare, la perdita dell’autonomia politica”. Prato divenne un’enclave del Regno di Napoli nel territorio della Repubblica di Firenze (1326) e per un breve periodo vi fu anche l’illusione di aver ottenuto la tanto agognata dignità cittadina. Il re Roberto infatti concesse a Prato il titolo di civitas oltre al privilegio di battere moneta, il gigliato pratese. Si trattava però più che altro di un escamotage per agevolare il prelievo delle tasse e imporre prestiti forzosi. Il 23 febbraio 1351 aveva fine, con la vendita a Firenze per la somma di 17500 fiorini d’oro, l’indipendenza di Prato.

Come accadde per Firenze, lo spazio edificabile all’interno della terza cerchia di mura (realizzata a più riprese tra il 1338 e il 1382) risultò sovrabbondante per una popolazione diminuita di un terzo. Ampie aree rimasero vuote, prive di costruzioni, dando a Prato l’aria di: “una città di conventi, di fraterie e di spedali, immersi negli orti e nei campi”.

A chi appartenevano dunque tutti questi presidi della fede che così larga parte ebbero nello sviluppo dell’identità cittadina? Un buon numero di essi, monasteri, ospedali, chiese, oratori e cappelle afferivano alla galassia degli ordini mendicanti. Tra questi i Francescani giunsero per primi in città nel 1228. Cinquant’anni dopo fu la volta di Agostiniani, Domenicani e Carmelitani, mentre gli ultimi a stabilirsi nella sulle rive del Bisenzio furono i Servi di Maria negli anni ‘20 del XIV sec. Superfluo sarebbe qui soffermarsi sull’importanza che ebbero tali ordini, sia a livello materiale che spirituale, in tutti i centri urbani dove vennero accolti. Basterà ricordare che l’opera di evangelizzazione e la proposta di una vita più attiva, non relegata nei recinti claustrali, gli fece di sovente acquisire grande consenso presso il popolo.

Man mano che la loro influenza cresceva, le autorità cittadine iniziarono ad affidargli compiti di rilievo nel mantenimento della pace sociale, nell’assistenza ai bisognosi e nel contrasto agli eretici. Il rilievo assunto dai mendicanti andò di contro a erodere la sfera di competenza delle parrocchie rette dal clero secolare, col quale sorsero conflitti anche di una certa durezza. Da parte loro i frati svolsero una certa opera di propaganda in favore delle istituzioni comunali, nelle quali non di rado erano impegnati personalmente con le mansioni più varie: distribuzione di elemosine, sovrintendenza a lavori pubblici, ambasciate o gestione della tesoreria. Parallelamente agli ordini mendicanti, maschili e femminili, fiorirono le congregazioni di laici, tra le quali spiccano i pinzocheri e le pinzochere del Terz’ordine francescano. È proprio nell’ambito dei terziari francescani che vanno ricercate le radici dell’ospedale del Ceppo dei poveri di Prato. Essi erano riuniti in un’organizzazione detta la Regola dei Coniugati del Terz’ordine di san Francesco, retta da due ministri e comprendente anche le pinzochere. Così come era accaduto per i frati, molti terziari divennero potenti e furono chiamati a ricoprire incarichi nell’amministrazione del Comune.

Grazie ad un ingente lascito del ricco mercante, banchiere e terziario Monte di Turigno Pugliesi, il 14 marzo 1283 nacque il Ceppo, detto in seguito “Vecchio” per distinguerlo da quello “Nuovo” sorto nel 1410 per volontà e con i denari di Francesco di Marco Datini.

Quella dei legati testamentari pro remedio animae era una pratica comune a tutti i ceti sociali, ma in particolare presso agiati uomini d’affari e facoltosi mercanti. Sentendo approssimarsi il momento supremo della morte, specie coloro che in vita avevano maneggiato grandi somme di denaro, magari prestandolo a tassi d’usura, avvertivano il bisogno di riscattare se stessi e la loro anima. Lasciare per iscritto la volontà di devolvere a fin di bene una parte più o meno consistente delle proprie fortune o farlo quando ancora si era in vita, era la miglior forma di investimento che si poteva fare in vista delle ricompense celesti.

La sede dell’ospedale era nel borgo di porta a Corte vicino al Castello dell’Imperatore, dove oggi passa, non a caso, la via detta “del Ceppo Vecchio”. Essa si componeva di tre case con portico che dava sulla strada verso la chiesa di San Tommaso alla Cannuccia, dal quale si accedeva anche al piccolo oratorio e all’orto cintato con pozzo. Soccorrere “a poveri verghongnosi e a infermi e femine di parto che fossero in istrema necessità”, oltre che ai prigionieri delle carceri cittadine e del contado, era l’intento principale che si prefiggeva il nuovo ente assistenziale. Torneremo più avanti su questo punto, approfondendo modi e forme di tali opere caritative. Nel primi dodici anni di vita la scelta degli ufficiali addetti alla gestione del Ceppo avvenne all’interno della Regola dei Coniugati, fino a quando nel 1295 l’ospedale passò sotto il controllo diretto del Comune.

Quando il Ceppo dei poveri inizia la sua attività, Prato è un centro dove operano già numerosi enti assistenziali: “Tra XII e XV secolo gli ‘spedali’ a Prato furono molti, alcuni di limitata vita e mezzi, altri di notevole importanza grazie a rilevanti risorse patrimoniali che si andarono consolidando col tempo”. Molti piccoli ricoveri dotati di pochi letti erano sorti nei sobborghi e lungo le principali vie di comunicazione per fornire assistenza soprattutto ai pellegrini.

Si hanno notizie di un nosocomio chiamato “Misericordia” sin dal XII sec. e da esso probabilmente prese origine l’omonima e illustre istituzione nata a inizio Duecento. Fino alla prima metà del Trecento la malattia più temuta era la lebbra, vuoi per gli orribili segni che lasciava sui corpi, interpretati in genere come una punizione divina, vuoi per il timore del contagio. A Prato il luogo dove venivano isolate le persone affette da questo morbo era la “casa degli infetti” presso il Ponte Petrino. Questa sorta di lazzeretto cessò praticamente di esistere quando sopraggiunse in tutta Europa una nuova minaccia, quella della peste bubbonica.

Non è opportuno dilungarsi ora sulla storia dei singoli enti assistenziali pratesi, tema sviluppato in passato da insigni studiosi. Sarà qui sufficiente rammentare che accanto a una miriade di ospizi minori, di modeste possibilità ricettive e limitati patrimoni, gli ospedali maggiori della città erano due: la Misericordia sopra menzionata e quello di San Silvestro, detto anche “del Dolce”, dal nome del suo fondatore, Dolce dei Mazzamuti. La Misericordia sorgeva nella parte sud-occidentale della città, fuori da porta Fuia e venne inglobata nella cerchia delle mura trecentesche, andando a costituire un blocco compatto di edifici nella stessa area dove secoli dopo verrà costruito il moderno ospedale di Prato.

Il Dolce era situato invece nella zona orientale dell’abitato, tra il convento del Carmine e l’attuale piazza San Marco. Ingente fu la quantità di beni accumulata dai due enti, soprattutto grazie ai sopra menzionati lasciti testamentari, tanto che fin dal 1254 la gestione della Misericordia entrò a far par parte delle competenze del Comune. Oltre all’assistenza ai malati, altri compiti erano la distribuzione di elemosine, anche a singoli questuanti, contribuire all’accumulo di scorte di grano da ridistribuire in periodo di carestia, fornire la dote a ragazze povere e perfino borse di studio per studenti pratesi a Pisa: “Nel complesso un sistema assistenziale imponente per un centro urbano ormai di piccole dimensioni”. Si pensi che al principio del XV sec. il numero di letti disponibili per gli infermi nei due luoghi di cura principali arrivava a 59, mentre quelli riservati ai pellegrini erano 23; si toccava così la ragguardevole media di un letto ogni 60 abitanti. A Firenze ad esempio i letti dei quattro ospedali maggiori erano 350, quindi uno ogni 100 abitanti.

Se la Prato di oggi è ancora debolmente legata da un sottile filo di lana rosso al suo passato di centro tessile di primo rilievo, vi è una continuità anche per quanto riguarda la salute e la cura dei malati. Continuità concreta di attività, luoghi e di nomi. “Ospedale della Misericordia e Dolce”.

È questa infatti la denominazione ufficiale dell’ospedale civile di Prato, il cui atto di nascita si può far risalire al 1545, quando il granduca Cosimo I decretò che il Dolce, ormai in decadenza fin dal sanguinoso saccheggio del 1512, fosse unito alla meno dissestata Misericordia.

Il funzionamento del Ceppo Vecchio era basato su una struttura relativamente semplice ed efficiente. I due Ministri della Regola dei Coniugati sceglievano due uomini di riguardo, denominati fattori, procuratori o “chamarlinghi”, responsabili soprattutto della gestione delle finanze e delle questioni amministrative, assimilabili agli “spedalinghi” presenti in tanti altri ospedali. Sempre i Ministri della Regola eleggevano poi quattro “buoni uomini”, tutti di provata onestà, ognuno competente per un quartiere cittadino. Otto porte principali si aprivano nelle mura di Prato ed erano queste, raggruppate a coppie, che davano il nome a ciascuna ripartizione: si avevano così il quartiere di porta San Giovanni e porta al Travaglio, quello di porta Gualdimari e porta Fuia, quello di porta Santa Trinita e porta a Corte e infine quello di porta Capodiponte e porta a Tiezi. Come accadeva per Firenze, i confini dei quartieri non erano chiusi dalle mura, ma si prolungavano anche nel contado.

I quattro consiglieri erano in genere tutti affiancati da un’altra persona fidata, che li coadiuvava nello svolgere uno dei compiti più importanti, ovvero quello di determinare con discrezione chi fossero i cittadini o i comitatini bisognosi di aiuto. La provenienza sociale di questi cittadini, diremo oggi “impegnati nel sociale”, poteva essere la più varia. Molti di essi hanno un mestiere; così ad esempio quei “Bonachorso chalçolaio”, “maestro Guido” e “Chorsellino fabro”, i nomi dei quali ricorrono più volte. La maggior parte di loro appartiene al ceto dei piccoli artigiani o commercianti, magari proprietari di botteghe. Dedicarsi a un’attività caritativa avrà senz’altro sottratto del tempo al lavoro quotidiano. Erano previsti a tal proposito, piccoli rimborsi spese, specie per coloro che si recavano a portare il pane nelle ville, operazione per la quale si rendeva necessario noleggiare un asino e un carro: “Frate Puccio Bonaiunte per vettura di ij somiere e per sue spese quando portò lo pane per le ville demo s. v e d. j”.

La vera ricompensa che ci si attendeva dall’aver fatto del bene a poveri e bisognosi della città, era però la salvezza dell’anima o magari una permanenza il più breve possibile in Purgatorio. A conferma di ciò vediamo che i camarlinghi del Ceppo ricevono dieci lire di paga per un anno di salario, ma il compenso non viene intascato dagli interessati, poiché si dispone che lo spendano per comprare “suole buone” ad alcuni frati e “panno romagnolo” da usare per confezionare vesti ai meno fortunati.

L’attività del Ceppo veniva suddivisa in due semestri: il primo a partire dalle calende di agosto fino a febbraio, il secondo da febbraio all’agosto successivo. I quattro consiglieri erano cambiati alla scadenza di ogni semestre, probabilmente per evitare così che si potesse incorrere in favoritismi a vantaggio di singoli assistiti, oltre che per mantenere il Ceppo in una posizione di imparzialità.

All’inizio di ogni semestre sono puntualmente registrate le entrate e le uscite dell’ospedale, delle quali sono responsabili i due procuratori. La maggior parte delle entrate registrate provengono dai poderi di campagna che il Ceppo possedeva nel contado di Prato. Si tratta in larga misura di cereali, soprattutto grano, con i quali i fittavoli pagavano i loro canoni: “Puccio Arrendevili e Lotto di messer Donato ci rapresentaro e ci diedero per lo Ceppo vj moggia e vj staia di grano”. “Avemo dallo Schiatta Saracioni di Miccina ij moggia e xxiij staia di grano”. Non di rado le quantità, come in questi due casi, sono davvero molto ingenti, ammontando a 2740,5 litri nel primo versamento e a 1297,17 nel secondo.

In genere, però, non si arrivava a superare le 30 staia di frumento. Poteva capitare che alcuni locatari pagassero in denaro, anziché con prodotti naturali, caso questo comunque più raro. Da notare i casi di fittavoli insolventi, contro i quali si procedeva ad uno “staggimento”, ovvero un sequestro delle loro masserizie preceduto da un’attenta stima. Tra i beni posseduti dall’ente vi erano alcuni mulini che venivano dati in gestione in cambio di un affitto in natura: “Anche ci diede Aghinello mugnaio del Ceppo vij staia grano per l’affitto del molino”. “Corso mugnaio del Ceppo ci regò a dì xj di novembre istaia di grano iiij”, dove forse non è casuale che il pagamento avvenga proprio l’11 novembre, in occasione della festa di san Martino. In questo giorno infatti i contadini dovevano tradizionalmente “rendere ragione” ai padroni della conduzione delle terre che gli erano state affidate.

Accanto al grano troviamo tutta quella serie di cereali inferiori un tempo molto diffusi nelle nostre campagne e oggi quasi del tutto dimenticati: crusca, biada, spelda, panico e saggina, pur essendo meno nutrienti del frumento, costituivano comunque un importante alternativa, specie in periodi di avversità climatiche e carestie. Un’altra voce d’entrata erano le somme ricavate dalla vendita di prodotti agricoli coltivati nei campi di proprietà, tra i quali compaiono “chaulli” e pastinache, erbe della famiglia delle ombrellifere dalle radici commestibili.

Di un certo rilievo dovevano essere poi le offerte in moneta sonante, devolute da cittadini generosi, sia per la salvezza della propria anima che per quella di un parente defunto: “Anche avemo da messer Giovanni per l’anima di monna Tambella sua madre s. xx”. Abbiamo già accennato ai lasciti testamentari che, specie quando provenivano da persone abbienti, comprendevano denaro liquido, case e terreni.

Passiamo ora alle uscite. Molteplici e variegate erano le spese sostenute dal Ceppo. Si rimborsano i due ministri che sono andati in udienza dal vescovo di Pistoja o si paga uno dei numerosi notai con i quali l’ospedale aveva continuamente a che fare per la stesura di contratti, compromessi, vendite, acquisti e testamenti. Sono presenti in più punti minute annotazioni che costituiscono per noi preziosi frammenti della vita quotidiana del tempo: “Anche demo a Lapo da Bisenço, per channe e per channuccie che ss’aoperaro alla chiudenda dell’orto, s. ij”.

In tre momenti dell’anno, a Natale, Pasqua e Pentecoste, che sono poi le maggiori festività cristiane, si metteva in moto, immaginiamo con un notevole dispendio di energie, tutto un apparato volto alla cottura e alla distribuzione di pane ai poveri. Era questa infatti l’attività principale nella quale erano impegnati gli uomini e le donne del Ceppo: “Questo si è lo chonsiglo che ci diedero, che noi facessimo fare tanto pane che si ne desse ij pani per bocha di caschuno povero di Prato e delle borghora e delle ville”.

Il pane, principale elemento umano, ha rivestito presso molti popoli e culture, un forte valore magico-sacrale: uno su tutti il significato evangelico attribuitagli dal cristianesimo. È inoltre diventato in passato un proverbiale e provvidenziale scudo contro la fame. Nella Prato del basso medioevo: “quando i ‘buoni uomini’ dei Ceppi e delle altre organizzazioni assistenziali elargivano nelle consuete ricorrenze farina e pane agli indigenti pratesi, avranno pur compiuto nella forma un rito antico di suggestiva religiosità, ma per prima cosa garantivano nella sostanza ai beneficiati qualche giorno di minor preoccupazione”.

Tutto iniziava con la raccolta dei cereali nei campi e la loro macinatura nei mulini del contado.

La farina veniva poi setacciata (abburattatura), operazione spesso compiuta da donne, così come la preparazione dell’impasto. Alle donne spettava anche la cucitura dei sacchi per conservare la farina (è annotato perfino il costo del filo per cucirli e della corda per chiuderli) e il confezionamento dei panni bianchi che si usava mettere sul pane quando era pronto.

Seguiva poi la fase fondamentale della cottura nei forni. Dovendo cuocere moltissime forme di pane, si superano abbondantemente le migliaia, erano necessarie notevoli quantità di legna da ardere: “Anche demo in ischope, frasche ed ischegie che furono some xxxj, montarono in somma ll. iiij s. xiij d. x”. Non ci si dimentica nemmeno di registrate la spesa per l’olio messo nell’impasto: “Anche demo all’Alberto per j quarto d’olio che ss’aoperò quando si fece lo pane per Natale, d. xvj”. Infine si provvedeva alla distribuzione dei pani ai poveri della città e del distretto, culmine dell’attività caritativa del Ceppo.

A questo compito erano deputati membri della Regola, mentre asini e carri venivano presi a nolo e, lo si è accennato in precedenza, naturalmente si segnavano anche i loro costi. Ad ogni incaricato dell’ospedale era assegnato un quartiere dell’abitato oppure una villa del contado. Nel periodo da noi preso in considerazione, a cavallo tra XIII e XIV sec., gli insediamenti sparsi tra pianura, collina e montagna, erano 47, molti dei quali posti anche a svariati chilometri dal centro abitato (pensiamo a Schignano, Vaiano o Montepiano nella Val di Bisenzio), ma comunque tutti capillarmente raggiunti dalla carità dei “buoni uomini” del Ceppo.

Le distribuzioni di pane in occasione di particolari festività religiose non erano però l’unica opera di beneficenza dell’ospedale. Ad essa si affiancava una più continuativa elemosina, sotto forma di quantità variabili di farina. Nella maggior parte dei casi se ne dava un quarto di staio (4,56 litri) a persona, quantità che poteva aumentare a mezzo staio (9, 13 litri), specie per donne sole e partorienti. In situazioni di grave indigenza, oppure quando le bocche da sfamare erano numerose, cresceva di conseguenza anche la generosità: “Anche demo alla mogle di Chorso, impagolata, da Pupigliano, molto povera e chon grande famigla, ij staia biada”. La farina era sia di frumento, riservata in particolare ad ammalati, donne gravide e poveri vergognosi, che di cereali inferiori, indicati genericamente col termine “biade”, per i poveri comuni della città e delle campagne circostanti, come nel caso appena citato.

Dobbiamo soffermarci ora su una questione fondamentale: chi erano le persone che beneficiavano dell’attività dell’ospedale?

Prima di rispondere a questa domanda, è necessario fare una precisazione sull’idea di povertà e sulle conseguenze che tale condizione aveva nel vissuto quotidiano del tempo. È risaputo che nell’Europa basso medievale gran parte della popolazione viveva in miseria. Prato non faceva eccezione: Almeno metà della popolazione si trovava in uno stato di indigenza, percentuale che poteva arrivare a 2/3 nelle campagne e nelle ville.

Livelli così alti di miserabili erano dovuti in parte alla massiccia presenza in città di lavoratori salariati non specializzati, legati alle attività manifatturiere e in particolare a quella laniera. In quello stesso 1329, vero annus horribilis di grave carestia, quando a Siena si chiusero le porte dell’ospedale di Santa Maria della Scala e i poveri vennero malamente cacciati dalla città, a Prato si adottò un provvedimento per bandire i miserabili forestieri che non pagavano le tasse al Comune o non erano in grado di combattere. Una disposizione analoga si ebbe anche nel 1383 e non si andò tanto per il sottile, se è vero che i rettori e i famigli della Misericordia e del Dolce scacciarono i poveri a bastonate.

Per chi nasceva nella classi più infime della popolazione, la miseria era una sorta di male cronico che accompagnava, con scarsissime possibilità di riscatto, i meno fortunati dalla culla alla tomba.

Tornando al quesito iniziale, si denota come la maggior parte degli assistiti fossero poveri che potremmo definire “comuni”, ovvero persone che lavoravano guadagnandosi a mala pena lo stretto necessario per sfamarsi e pagare la pigione della casa in cui vivevano. Come abbiamo già avuto modo di vedere, negli elenchi dei poveri della terra di Prato, compare un certo numero di donne incinte, stato che rendeva ancor più difficoltosa la sopravvivenza in condizioni così precarie: “Anche demo a donna Ciuta chasiera (che viveva in affitto) Sandri dal Chorso, aprovollaci Cenni Sarto, era in parto, j staio grano”.

Da notare qui che l’incaricato dell’ospedale, delegato a supervisionare l’effettiva condizione di bisogno della donna, è un sarto, a ulteriore conferma che la maggior parte di questi funzionari provenisse dalla piccola o piccolissima borghesia. La beneficenza del Ceppo toccava anche i pii ordini religiosi di frati e monache presenti in città: “Li frati di san Francesco ebbero per lemosina iij staia di grano”. Analoghe donazioni venivano riservate in favore di Domenicani e Agostiniani. Un’altra attività che non si trascurava era poi l’assistenza ai carcerati, i “pregioni”. Si pensi che nel 1302, altro anno di carestia, a Prato furono liberati dodici carcerati poveri, dato che non arrivavano più le elemosine per sfamarli.

Infine quella che è senz’altro la categoria di poveri più interessante, ovvero i poveri vergognosi.

Sono così denominati nelle fonti quegli individui che, abituati ad una vita onorevole e relativamente agiata, hanno subito un repentino calo delle loro fortune e non vogliono rendere manifesta questa nuova infelice condizione agli occhi della comunità:

“demo alla mogle Cherevellucci povera, vergongnosa, [...] j staio di grano” e più sotto: “Anche demo a madonna Valletta mogle che ffue del Mula, aprovollaci Martino per povera vergongnosa, j staio grano”. In entrambi gli esempi citati, ma si tratta in realtà della maggioranza dei casi, le povere vergognose sono vedove, rimaste prive del prezioso sostentamento del marito. È questa inoltre la miseria improvvisa nella quale poteva cadere il commerciante fallito, il piccolo artigiano che si infortunava o il proprietario terriero che non sopravviveva a una serie di annate cattive.

Insomma, siamo di fronte a un vasto campionario degli elementi più deboli della società: orfani, vedove, anziani in primis, donne sole o con molti figli, persone inabili al lavoro e malati. Pur non intraprendendo forme di promozione sociale o di assistenza continuativa per questa massa di sofferenti, il Ceppo almeno gli forniva un aiuto e un conforto preziosi.

Malgrado non ci sia capitato di trovare riferimenti a riguardo scorrendo le carte del Ceppo, è plausibile che anche qualche forestiero, malato o caduto in disgrazia, abbia trovato aiuto in quest’ospedale. Si è già accennato in precedenza alla presenza in Prato di lavoratori stranieri legati in special modo all’Arte della lana e alla funzione di snodo viario e commerciale che la città del Bisenzio rivestiva. Molti viaggiatori e pellegrini, che giungevano anche dai lembi più estremi d’Europa, vi passavano e soggiornavano e poteva accadere che si ammalassero durante il tragitto. Soli e senza l’appoggio di parenti o amici, gli unici luoghi in cui ricevere le cure necessarie, erano gli ospedali cittadini.

Avrebbe poco senso anche solo tentare di fare un confronto tra le istituzioni assistenziali odierne e quelle di allora. Troppo grandi sono le differenze a livello demografico e di risorse disponibili. Ciò non toglie che si possa restare stupiti dallo sforzo compiuto, dalla profusione di mezzi e dall’impegno di tanti uomini e donne che si adoperarono per cercare di render più sopportabili tante sfortunate esistenze.

Concludendo ci limiteremo a esprimere una nostra impressione. Malgrado la grande fortuna che gli studi storico-sociali hanno avuto, specie nella seconda metà del ‘900, la maggior parte delle persone non ha acquisito, a nostro avviso, la consapevolezza che buona parte delle istituzioni assistenziali, alle quali ci rivolgiamo tutt’ora, trae le proprie origini da quel medioevo che il senso comune

avverte ancora come oscuro e negativo. La Misericordia di Prato, l’ospedale di Santa Maria Nuova e l’Istituto degli Innocenti a Firenze, solo per fare alcuni esempi, sono la testimonianza concreta e tangibile di una continuità col nostro passato che dobbiamo cercare costantemente di valorizzare.



 

 

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