N. 63 - Marzo 2013
(XCIV)
ASSISTENZA DEI POVERI TRA XIII E XIV SECOLO
Prato, centro tessile nel basso medioevo
di Lorenzo Magnolfi
La
seconda
meta
del
Duecento
e i
primi
anni
del
secolo
successivo,
sono
il
periodo
in
cui
Prato,
così
come
Firenze
e
molte
altre
città
in
Italia,
raggiunge
il
culmine
della
sua
fioritura
economica
e
sociale.
All’interno
della
seconda
cerchia
delle
mura
vivevano
15000
abitanti,
mentre
il
contado
ne
contava
12000,
ripartiti
in
circa
6500
fuochi,
dei
quali
4000
tra
città
murata
e
sobborghi,
i
restanti
2500
nel
distretto.
L’attività
economica
principale
era
la
lavorazione
della
lana,
ripartita
in
tutte
le
sue
numerosi
fasi
e
volta
alla
produzione
di
panni
per
l’uso
interno,
ma
soprattutto
per
l’esportazione
anche
oltre
i
confini
della
penisola.
Fin
dall’inizio
del
XII
sec.
furono
installate
in
Prato
le
prime
gualchiere
per
la
follatura
dei
tessuti,
operazione
questa
resa
possibile
dall’abbondanza
di
acque
della
Val
di
Bisenzio.
Nel
1285
i
lanaioli
erano
110,
senza
contare
i
proprietari
dei
tiratoi,
i
cimatori,
i
gualchierai
e i
tintori.
Salta
agli
occhi
come
in
questo
anno
si
contassero
in
città
(ci
sia
concesso
di
parlare
di
“città”,
anche
se
ancora
Prato
di
fatto
non
lo
era)
ben
17
Arti
con
763
iscritti,
un
numero
insolitamente
alto
per
un
centro
ritenuto
minore.
Nel
1298
le
Arti
diventano
24 e
non
sono
conteggiati
i
cambiatori,
i
gualchierai,
i
biadaioli,
gli
agrimensori,
i
figulinai
di
Figline,
i
fornaciai
e i
padroni
dei
mulini.
Quest’ultimo
tipo
di
opifici,
azionati
sempre
dalla
forza
motrice
delle
acque
del
Bisenzio
e
delle
gore
che
da
esso
si
dipartivano,
ebbero
una
certa
importanza
nella
crescita
economica
pratese
e
gli
ritroveremo
molte
volte
citati
negli
scritti
dell’ospedale
del
Ceppo.
Qui
si
portava
infatti
a
macinare
il
grano
da
cui
si
ricavava
la
farina
per
fare
il
pane
da
distribuire
ai
poveri.
Prato
sullo
scorcio
finale
del
Duecento
è
quindi
un
centro
manifatturiero
in
pieno
fermento,
favorito
anche
dalla
posizione
geografica
sulle
direttrici
est-ovest
e
nord-sud,
il
cui
sviluppo
dura
ininterrotto
da
circa
un
secolo.
L’abitato
ha
inoltre
un’aria
cosmopolita
a
causa
della
presenza
di
numerosi
artigiani
forestieri,
provenienti
da
altre
parti
d’Italia,
ma
pure
da
paesi
europei
anche
molto
lontani.
Il
destino
di
Prato
non
fu
molto
diverso
da
quello
della
potente
vicina
Firenze,
così
come
le
cause
che
le
portarono
ad
una
lunga
fase
di
regresso
economico,
politico
e
sociale.
Il
punto
più
basso
di
questo
decadimento
fu
senz’altro
la
crisi
che
investì
tutta
l’Europa
nelle
prima
metà
del
XIV
sec.,
alla
quale
seguì
il
terribile
flagello
della
Peste
Nera.
Quello
però
non
fu
altro
che
il
traguardo
finale
di
un
processo
iniziato
almeno
quarant’anni
prima.
Restando
nell’ambito
pratese
vediamo
come
la
città
fu
vessata
a
più
riprese
da
carestie
che
si
susseguivano
ad
intervalli
di
tempo
ravvicinati.
Ve
ne
furono
nel
1283-84,
nel
1298
e
quelle
più
dure
si
verificarono
tra
il
1328-30
e il
1339.
In
più
una
grave
epidemia
di
vaiolo
colpì
soprattutto
i
fanciulli
nel
1335.
Se
il
contado
di
Prato
era
già
duramente
provato
da
questa
serie
di
cattive
annate,
la
situazione
peggiorò
in
modo
irreparabile
al
tempo
della
guerra
con
Castruccio
Castracani.
Il
condottiero
lucchese,
vincitore
ad
Altopascio,
mise
infatti
a
ferro
e
fuoco
le
campagne
intorno
a
Prato
nella
sua
avanzata
verso
Firenze,
danneggiando
gravemente
molte
ville
e
case
da
signore.
Anche
le
perdite
di
vite
umane
furono
ingenti
e
privarono
la
comunità
di
una
parte
non
piccola
della
sua
forza
lavoro.
La
generalizzata
congiuntura
economica
negativa
andrà
di
pari
passo
col
rallentare,
per
non
dire
con
la
battuta
d’arresto,
dell’accrescimento
demografico
e
del
processo
di
urbanizzazione
che
durerà
diversi
secoli.
Tutta
questa
serie
di
eventi
negativi,
succedutisi
nell’arco
di
trent’anni,
resero
la
città
assai
più
debole:
“La
città
aveva
perso
il
suo
slancio.
L’ingerenza
fiorentina
negli
affari
di
Prato
venne
sempre
più
a
pesare;
il
conferimento
della
signoria
della
città
agli
Angiò,
fu
soltanto
un
espediente
che
servì
a
dilazionare,
ma
non
ad
evitare,
la
perdita
dell’autonomia
politica”.
Prato
divenne
un’enclave
del
Regno
di
Napoli
nel
territorio
della
Repubblica
di
Firenze
(1326)
e
per
un
breve
periodo
vi
fu
anche
l’illusione
di
aver
ottenuto
la
tanto
agognata
dignità
cittadina.
Il
re
Roberto
infatti
concesse
a
Prato
il
titolo
di
civitas
oltre
al
privilegio
di
battere
moneta,
il
gigliato
pratese.
Si
trattava
però
più
che
altro
di
un
escamotage
per
agevolare
il
prelievo
delle
tasse
e
imporre
prestiti
forzosi.
Il
23
febbraio
1351
aveva
fine,
con
la
vendita
a
Firenze
per
la
somma
di
17500
fiorini
d’oro,
l’indipendenza
di
Prato.
Come
accadde
per
Firenze,
lo
spazio
edificabile
all’interno
della
terza
cerchia
di
mura
(realizzata
a
più
riprese
tra
il
1338
e il
1382)
risultò
sovrabbondante
per
una
popolazione
diminuita
di
un
terzo.
Ampie
aree
rimasero
vuote,
prive
di
costruzioni,
dando
a
Prato
l’aria
di:
“una
città
di
conventi,
di
fraterie
e di
spedali,
immersi
negli
orti
e
nei
campi”.
A
chi
appartenevano
dunque
tutti
questi
presidi
della
fede
che
così
larga
parte
ebbero
nello
sviluppo
dell’identità
cittadina?
Un
buon
numero
di
essi,
monasteri,
ospedali,
chiese,
oratori
e
cappelle
afferivano
alla
galassia
degli
ordini
mendicanti.
Tra
questi
i
Francescani
giunsero
per
primi
in
città
nel
1228.
Cinquant’anni
dopo
fu
la
volta
di
Agostiniani,
Domenicani
e
Carmelitani,
mentre
gli
ultimi
a
stabilirsi
nella
sulle
rive
del
Bisenzio
furono
i
Servi
di
Maria
negli
anni
‘20
del
XIV
sec.
Superfluo
sarebbe
qui
soffermarsi
sull’importanza
che
ebbero
tali
ordini,
sia
a
livello
materiale
che
spirituale,
in
tutti
i
centri
urbani
dove
vennero
accolti.
Basterà
ricordare
che
l’opera
di
evangelizzazione
e la
proposta
di
una
vita
più
attiva,
non
relegata
nei
recinti
claustrali,
gli
fece
di
sovente
acquisire
grande
consenso
presso
il
popolo.
Man
mano
che
la
loro
influenza
cresceva,
le
autorità
cittadine
iniziarono
ad
affidargli
compiti
di
rilievo
nel
mantenimento
della
pace
sociale,
nell’assistenza
ai
bisognosi
e
nel
contrasto
agli
eretici.
Il
rilievo
assunto
dai
mendicanti
andò
di
contro
a
erodere
la
sfera
di
competenza
delle
parrocchie
rette
dal
clero
secolare,
col
quale
sorsero
conflitti
anche
di
una
certa
durezza.
Da
parte
loro
i
frati
svolsero
una
certa
opera
di
propaganda
in
favore
delle
istituzioni
comunali,
nelle
quali
non
di
rado
erano
impegnati
personalmente
con
le
mansioni
più
varie:
distribuzione
di
elemosine,
sovrintendenza
a
lavori
pubblici,
ambasciate
o
gestione
della
tesoreria.
Parallelamente
agli
ordini
mendicanti,
maschili
e
femminili,
fiorirono
le
congregazioni
di
laici,
tra
le
quali
spiccano
i
pinzocheri
e le
pinzochere
del
Terz’ordine
francescano.
È
proprio
nell’ambito
dei
terziari
francescani
che
vanno
ricercate
le
radici
dell’ospedale
del
Ceppo
dei
poveri
di
Prato.
Essi
erano
riuniti
in
un’organizzazione
detta
la
Regola
dei
Coniugati
del
Terz’ordine
di
san
Francesco,
retta
da
due
ministri
e
comprendente
anche
le
pinzochere.
Così
come
era
accaduto
per
i
frati,
molti
terziari
divennero
potenti
e
furono
chiamati
a
ricoprire
incarichi
nell’amministrazione
del
Comune.
Grazie
ad
un
ingente
lascito
del
ricco
mercante,
banchiere
e
terziario
Monte
di
Turigno
Pugliesi,
il
14
marzo
1283
nacque
il
Ceppo,
detto
in
seguito
“Vecchio”
per
distinguerlo
da
quello
“Nuovo”
sorto
nel
1410
per
volontà
e
con
i
denari
di
Francesco
di
Marco
Datini.
Quella
dei
legati
testamentari
pro
remedio
animae
era
una
pratica
comune
a
tutti
i
ceti
sociali,
ma
in
particolare
presso
agiati
uomini
d’affari
e
facoltosi
mercanti.
Sentendo
approssimarsi
il
momento
supremo
della
morte,
specie
coloro
che
in
vita
avevano
maneggiato
grandi
somme
di
denaro,
magari
prestandolo
a
tassi
d’usura,
avvertivano
il
bisogno
di
riscattare
se
stessi
e la
loro
anima.
Lasciare
per
iscritto
la
volontà
di
devolvere
a
fin
di
bene
una
parte
più
o
meno
consistente
delle
proprie
fortune
o
farlo
quando
ancora
si
era
in
vita,
era
la
miglior
forma
di
investimento
che
si
poteva
fare
in
vista
delle
ricompense
celesti.
La
sede
dell’ospedale
era
nel
borgo
di
porta
a
Corte
vicino
al
Castello
dell’Imperatore,
dove
oggi
passa,
non
a
caso,
la
via
detta
“del
Ceppo
Vecchio”.
Essa
si
componeva
di
tre
case
con
portico
che
dava
sulla
strada
verso
la
chiesa
di
San
Tommaso
alla
Cannuccia,
dal
quale
si
accedeva
anche
al
piccolo
oratorio
e
all’orto
cintato
con
pozzo.
Soccorrere
“a
poveri
verghongnosi
e a
infermi
e
femine
di
parto
che
fossero
in
istrema
necessità”,
oltre
che
ai
prigionieri
delle
carceri
cittadine
e
del
contado,
era
l’intento
principale
che
si
prefiggeva
il
nuovo
ente
assistenziale.
Torneremo
più
avanti
su
questo
punto,
approfondendo
modi
e
forme
di
tali
opere
caritative.
Nel
primi
dodici
anni
di
vita
la
scelta
degli
ufficiali
addetti
alla
gestione
del
Ceppo
avvenne
all’interno
della
Regola
dei
Coniugati,
fino
a
quando
nel
1295
l’ospedale
passò
sotto
il
controllo
diretto
del
Comune.
Quando
il
Ceppo
dei
poveri
inizia
la
sua
attività,
Prato
è un
centro
dove
operano
già
numerosi
enti
assistenziali:
“Tra
XII
e XV
secolo
gli
‘spedali’
a
Prato
furono
molti,
alcuni
di
limitata
vita
e
mezzi,
altri
di
notevole
importanza
grazie
a
rilevanti
risorse
patrimoniali
che
si
andarono
consolidando
col
tempo”.
Molti
piccoli
ricoveri
dotati
di
pochi
letti
erano
sorti
nei
sobborghi
e
lungo
le
principali
vie
di
comunicazione
per
fornire
assistenza
soprattutto
ai
pellegrini.
Si
hanno
notizie
di
un
nosocomio
chiamato
“Misericordia”
sin
dal
XII
sec.
e da
esso
probabilmente
prese
origine
l’omonima
e
illustre
istituzione
nata
a
inizio
Duecento.
Fino
alla
prima
metà
del
Trecento
la
malattia
più
temuta
era
la
lebbra,
vuoi
per
gli
orribili
segni
che
lasciava
sui
corpi,
interpretati
in
genere
come
una
punizione
divina,
vuoi
per
il
timore
del
contagio.
A
Prato
il
luogo
dove
venivano
isolate
le
persone
affette
da
questo
morbo
era
la
“casa
degli
infetti”
presso
il
Ponte
Petrino.
Questa
sorta
di
lazzeretto
cessò
praticamente
di
esistere
quando
sopraggiunse
in
tutta
Europa
una
nuova
minaccia,
quella
della
peste
bubbonica.
Non
è
opportuno
dilungarsi
ora
sulla
storia
dei
singoli
enti
assistenziali
pratesi,
tema
sviluppato
in
passato
da
insigni
studiosi.
Sarà
qui
sufficiente
rammentare
che
accanto
a
una
miriade
di
ospizi
minori,
di
modeste
possibilità
ricettive
e
limitati
patrimoni,
gli
ospedali
maggiori
della
città
erano
due:
la
Misericordia
sopra
menzionata
e
quello
di
San
Silvestro,
detto
anche
“del
Dolce”,
dal
nome
del
suo
fondatore,
Dolce
dei
Mazzamuti.
La
Misericordia
sorgeva
nella
parte
sud-occidentale
della
città,
fuori
da
porta
Fuia
e
venne
inglobata
nella
cerchia
delle
mura
trecentesche,
andando
a
costituire
un
blocco
compatto
di
edifici
nella
stessa
area
dove
secoli
dopo
verrà
costruito
il
moderno
ospedale
di
Prato.
Il
Dolce
era
situato
invece
nella
zona
orientale
dell’abitato,
tra
il
convento
del
Carmine
e
l’attuale
piazza
San
Marco.
Ingente
fu
la
quantità
di
beni
accumulata
dai
due
enti,
soprattutto
grazie
ai
sopra
menzionati
lasciti
testamentari,
tanto
che
fin
dal
1254
la
gestione
della
Misericordia
entrò
a
far
par
parte
delle
competenze
del
Comune.
Oltre
all’assistenza
ai
malati,
altri
compiti
erano
la
distribuzione
di
elemosine,
anche
a
singoli
questuanti,
contribuire
all’accumulo
di
scorte
di
grano
da
ridistribuire
in
periodo
di
carestia,
fornire
la
dote
a
ragazze
povere
e
perfino
borse
di
studio
per
studenti
pratesi
a
Pisa:
“Nel
complesso
un
sistema
assistenziale
imponente
per
un
centro
urbano
ormai
di
piccole
dimensioni”.
Si
pensi
che
al
principio
del
XV
sec.
il
numero
di
letti
disponibili
per
gli
infermi
nei
due
luoghi
di
cura
principali
arrivava
a
59,
mentre
quelli
riservati
ai
pellegrini
erano
23;
si
toccava
così
la
ragguardevole
media
di
un
letto
ogni
60
abitanti.
A
Firenze
ad
esempio
i
letti
dei
quattro
ospedali
maggiori
erano
350,
quindi
uno
ogni
100
abitanti.
Se
la
Prato
di
oggi
è
ancora
debolmente
legata
da
un
sottile
filo
di
lana
rosso
al
suo
passato
di
centro
tessile
di
primo
rilievo,
vi è
una
continuità
anche
per
quanto
riguarda
la
salute
e la
cura
dei
malati.
Continuità
concreta
di
attività,
luoghi
e di
nomi.
“Ospedale
della
Misericordia
e
Dolce”.
È
questa
infatti
la
denominazione
ufficiale
dell’ospedale
civile
di
Prato,
il
cui
atto
di
nascita
si
può
far
risalire
al
1545,
quando
il
granduca
Cosimo
I
decretò
che
il
Dolce,
ormai
in
decadenza
fin
dal
sanguinoso
saccheggio
del
1512,
fosse
unito
alla
meno
dissestata
Misericordia.
Il
funzionamento
del
Ceppo
Vecchio
era
basato
su
una
struttura
relativamente
semplice
ed
efficiente.
I
due
Ministri
della
Regola
dei
Coniugati
sceglievano
due
uomini
di
riguardo,
denominati
fattori,
procuratori
o “chamarlinghi”,
responsabili
soprattutto
della
gestione
delle
finanze
e
delle
questioni
amministrative,
assimilabili
agli
“spedalinghi”
presenti
in
tanti
altri
ospedali.
Sempre
i
Ministri
della
Regola
eleggevano
poi
quattro
“buoni
uomini”,
tutti
di
provata
onestà,
ognuno
competente
per
un
quartiere
cittadino.
Otto
porte
principali
si
aprivano
nelle
mura
di
Prato
ed
erano
queste,
raggruppate
a
coppie,
che
davano
il
nome
a
ciascuna
ripartizione:
si
avevano
così
il
quartiere
di
porta
San
Giovanni
e
porta
al
Travaglio,
quello
di
porta
Gualdimari
e
porta
Fuia,
quello
di
porta
Santa
Trinita
e
porta
a
Corte
e
infine
quello
di
porta
Capodiponte
e
porta
a
Tiezi.
Come
accadeva
per
Firenze,
i
confini
dei
quartieri
non
erano
chiusi
dalle
mura,
ma
si
prolungavano
anche
nel
contado.
I
quattro
consiglieri
erano
in
genere
tutti
affiancati
da
un’altra
persona
fidata,
che
li
coadiuvava
nello
svolgere
uno
dei
compiti
più
importanti,
ovvero
quello
di
determinare
con
discrezione
chi
fossero
i
cittadini
o i
comitatini
bisognosi
di
aiuto.
La
provenienza
sociale
di
questi
cittadini,
diremo
oggi
“impegnati
nel
sociale”,
poteva
essere
la
più
varia.
Molti
di
essi
hanno
un
mestiere;
così
ad
esempio
quei
“Bonachorso
chalçolaio”,
“maestro
Guido”
e
“Chorsellino
fabro”,
i
nomi
dei
quali
ricorrono
più
volte.
La
maggior
parte
di
loro
appartiene
al
ceto
dei
piccoli
artigiani
o
commercianti,
magari
proprietari
di
botteghe.
Dedicarsi
a
un’attività
caritativa
avrà
senz’altro
sottratto
del
tempo
al
lavoro
quotidiano.
Erano
previsti
a
tal
proposito,
piccoli
rimborsi
spese,
specie
per
coloro
che
si
recavano
a
portare
il
pane
nelle
ville,
operazione
per
la
quale
si
rendeva
necessario
noleggiare
un
asino
e un
carro:
“Frate
Puccio
Bonaiunte
per
vettura
di
ij
somiere
e
per
sue
spese
quando
portò
lo
pane
per
le
ville
demo
s. v
e d.
j”.
La
vera
ricompensa
che
ci
si
attendeva
dall’aver
fatto
del
bene
a
poveri
e
bisognosi
della
città,
era
però
la
salvezza
dell’anima
o
magari
una
permanenza
il
più
breve
possibile
in
Purgatorio.
A
conferma
di
ciò
vediamo
che
i
camarlinghi
del
Ceppo
ricevono
dieci
lire
di
paga
per
un
anno
di
salario,
ma
il
compenso
non
viene
intascato
dagli
interessati,
poiché
si
dispone
che
lo
spendano
per
comprare
“suole
buone”
ad
alcuni
frati
e
“panno
romagnolo”
da
usare
per
confezionare
vesti
ai
meno
fortunati.
L’attività
del
Ceppo
veniva
suddivisa
in
due
semestri:
il
primo
a
partire
dalle
calende
di
agosto
fino
a
febbraio,
il
secondo
da
febbraio
all’agosto
successivo.
I
quattro
consiglieri
erano
cambiati
alla
scadenza
di
ogni
semestre,
probabilmente
per
evitare
così
che
si
potesse
incorrere
in
favoritismi
a
vantaggio
di
singoli
assistiti,
oltre
che
per
mantenere
il
Ceppo
in
una
posizione
di
imparzialità.
All’inizio
di
ogni
semestre
sono
puntualmente
registrate
le
entrate
e le
uscite
dell’ospedale,
delle
quali
sono
responsabili
i
due
procuratori.
La
maggior
parte
delle
entrate
registrate
provengono
dai
poderi
di
campagna
che
il
Ceppo
possedeva
nel
contado
di
Prato.
Si
tratta
in
larga
misura
di
cereali,
soprattutto
grano,
con
i
quali
i
fittavoli
pagavano
i
loro
canoni:
“Puccio
Arrendevili
e
Lotto
di
messer
Donato
ci
rapresentaro
e ci
diedero
per
lo
Ceppo
vj
moggia
e vj
staia
di
grano”.
“Avemo
dallo
Schiatta
Saracioni
di
Miccina
ij
moggia
e
xxiij
staia
di
grano”.
Non
di
rado
le
quantità,
come
in
questi
due
casi,
sono
davvero
molto
ingenti,
ammontando
a
2740,5
litri
nel
primo
versamento
e a
1297,17
nel
secondo.
In
genere,
però,
non
si
arrivava
a
superare
le
30
staia
di
frumento.
Poteva
capitare
che
alcuni
locatari
pagassero
in
denaro,
anziché
con
prodotti
naturali,
caso
questo
comunque
più
raro.
Da
notare
i
casi
di
fittavoli
insolventi,
contro
i
quali
si
procedeva
ad
uno
“staggimento”,
ovvero
un
sequestro
delle
loro
masserizie
preceduto
da
un’attenta
stima.
Tra
i
beni
posseduti
dall’ente
vi
erano
alcuni
mulini
che
venivano
dati
in
gestione
in
cambio
di
un
affitto
in
natura:
“Anche
ci
diede
Aghinello
mugnaio
del
Ceppo
vij
staia
grano
per
l’affitto
del
molino”.
“Corso
mugnaio
del
Ceppo
ci
regò
a dì
xj
di
novembre
istaia
di
grano
iiij”,
dove
forse
non
è
casuale
che
il
pagamento
avvenga
proprio
l’11
novembre,
in
occasione
della
festa
di
san
Martino.
In
questo
giorno
infatti
i
contadini
dovevano
tradizionalmente
“rendere
ragione”
ai
padroni
della
conduzione
delle
terre
che
gli
erano
state
affidate.
Accanto
al
grano
troviamo
tutta
quella
serie
di
cereali
inferiori
un
tempo
molto
diffusi
nelle
nostre
campagne
e
oggi
quasi
del
tutto
dimenticati:
crusca,
biada,
spelda,
panico
e
saggina,
pur
essendo
meno
nutrienti
del
frumento,
costituivano
comunque
un
importante
alternativa,
specie
in
periodi
di
avversità
climatiche
e
carestie.
Un’altra
voce
d’entrata
erano
le
somme
ricavate
dalla
vendita
di
prodotti
agricoli
coltivati
nei
campi
di
proprietà,
tra
i
quali
compaiono
“chaulli”
e
pastinache,
erbe
della
famiglia
delle
ombrellifere
dalle
radici
commestibili.
Di
un
certo
rilievo
dovevano
essere
poi
le
offerte
in
moneta
sonante,
devolute
da
cittadini
generosi,
sia
per
la
salvezza
della
propria
anima
che
per
quella
di
un
parente
defunto:
“Anche
avemo
da
messer
Giovanni
per
l’anima
di
monna
Tambella
sua
madre
s.
xx”.
Abbiamo
già
accennato
ai
lasciti
testamentari
che,
specie
quando
provenivano
da
persone
abbienti,
comprendevano
denaro
liquido,
case
e
terreni.
Passiamo
ora
alle
uscite.
Molteplici
e
variegate
erano
le
spese
sostenute
dal
Ceppo.
Si
rimborsano
i
due
ministri
che
sono
andati
in
udienza
dal
vescovo
di
Pistoja
o si
paga
uno
dei
numerosi
notai
con
i
quali
l’ospedale
aveva
continuamente
a
che
fare
per
la
stesura
di
contratti,
compromessi,
vendite,
acquisti
e
testamenti.
Sono
presenti
in
più
punti
minute
annotazioni
che
costituiscono
per
noi
preziosi
frammenti
della
vita
quotidiana
del
tempo:
“Anche
demo
a
Lapo
da
Bisenço,
per
channe
e
per
channuccie
che
ss’aoperaro
alla
chiudenda
dell’orto,
s.
ij”.
In
tre
momenti
dell’anno,
a
Natale,
Pasqua
e
Pentecoste,
che
sono
poi
le
maggiori
festività
cristiane,
si
metteva
in
moto,
immaginiamo
con
un
notevole
dispendio
di
energie,
tutto
un
apparato
volto
alla
cottura
e
alla
distribuzione
di
pane
ai
poveri.
Era
questa
infatti
l’attività
principale
nella
quale
erano
impegnati
gli
uomini
e le
donne
del
Ceppo:
“Questo
si è
lo
chonsiglo
che
ci
diedero,
che
noi
facessimo
fare
tanto
pane
che
si
ne
desse
ij
pani
per
bocha
di
caschuno
povero
di
Prato
e
delle
borghora
e
delle
ville”.
Il
pane,
principale
elemento
umano,
ha
rivestito
presso
molti
popoli
e
culture,
un
forte
valore
magico-sacrale:
uno
su
tutti
il
significato
evangelico
attribuitagli
dal
cristianesimo.
È
inoltre
diventato
in
passato
un
proverbiale
e
provvidenziale
scudo
contro
la
fame.
Nella
Prato
del
basso
medioevo:
“quando
i
‘buoni
uomini’
dei
Ceppi
e
delle
altre
organizzazioni
assistenziali
elargivano
nelle
consuete
ricorrenze
farina
e
pane
agli
indigenti
pratesi,
avranno
pur
compiuto
nella
forma
un
rito
antico
di
suggestiva
religiosità,
ma
per
prima
cosa
garantivano
nella
sostanza
ai
beneficiati
qualche
giorno
di
minor
preoccupazione”.
Tutto
iniziava
con
la
raccolta
dei
cereali
nei
campi
e la
loro
macinatura
nei
mulini
del
contado.
La
farina
veniva
poi
setacciata
(abburattatura),
operazione
spesso
compiuta
da
donne,
così
come
la
preparazione
dell’impasto.
Alle
donne
spettava
anche
la
cucitura
dei
sacchi
per
conservare
la
farina
(è
annotato
perfino
il
costo
del
filo
per
cucirli
e
della
corda
per
chiuderli)
e il
confezionamento
dei
panni
bianchi
che
si
usava
mettere
sul
pane
quando
era
pronto.
Seguiva
poi
la
fase
fondamentale
della
cottura
nei
forni.
Dovendo
cuocere
moltissime
forme
di
pane,
si
superano
abbondantemente
le
migliaia,
erano
necessarie
notevoli
quantità
di
legna
da
ardere:
“Anche
demo
in
ischope,
frasche
ed
ischegie
che
furono
some
xxxj,
montarono
in
somma
ll.
iiij
s.
xiij
d.
x”.
Non
ci
si
dimentica
nemmeno
di
registrate
la
spesa
per
l’olio
messo
nell’impasto:
“Anche
demo
all’Alberto
per
j
quarto
d’olio
che
ss’aoperò
quando
si
fece
lo
pane
per
Natale,
d.
xvj”.
Infine
si
provvedeva
alla
distribuzione
dei
pani
ai
poveri
della
città
e
del
distretto,
culmine
dell’attività
caritativa
del
Ceppo.
A
questo
compito
erano
deputati
membri
della
Regola,
mentre
asini
e
carri
venivano
presi
a
nolo
e,
lo
si è
accennato
in
precedenza,
naturalmente
si
segnavano
anche
i
loro
costi.
Ad
ogni
incaricato
dell’ospedale
era
assegnato
un
quartiere
dell’abitato
oppure
una
villa
del
contado.
Nel
periodo
da
noi
preso
in
considerazione,
a
cavallo
tra
XIII
e
XIV
sec.,
gli
insediamenti
sparsi
tra
pianura,
collina
e
montagna,
erano
47,
molti
dei
quali
posti
anche
a
svariati
chilometri
dal
centro
abitato
(pensiamo
a
Schignano,
Vaiano
o
Montepiano
nella
Val
di
Bisenzio),
ma
comunque
tutti
capillarmente
raggiunti
dalla
carità
dei
“buoni
uomini”
del
Ceppo.
Le
distribuzioni
di
pane
in
occasione
di
particolari
festività
religiose
non
erano
però
l’unica
opera
di
beneficenza
dell’ospedale.
Ad
essa
si
affiancava
una
più
continuativa
elemosina,
sotto
forma
di
quantità
variabili
di
farina.
Nella
maggior
parte
dei
casi
se
ne
dava
un
quarto
di
staio
(4,56
litri)
a
persona,
quantità
che
poteva
aumentare
a
mezzo
staio
(9,
13
litri),
specie
per
donne
sole
e
partorienti.
In
situazioni
di
grave
indigenza,
oppure
quando
le
bocche
da
sfamare
erano
numerose,
cresceva
di
conseguenza
anche
la
generosità:
“Anche
demo
alla
mogle
di
Chorso,
impagolata,
da
Pupigliano,
molto
povera
e
chon
grande
famigla,
ij
staia
biada”.
La
farina
era
sia
di
frumento,
riservata
in
particolare
ad
ammalati,
donne
gravide
e
poveri
vergognosi,
che
di
cereali
inferiori,
indicati
genericamente
col
termine
“biade”,
per
i
poveri
comuni
della
città
e
delle
campagne
circostanti,
come
nel
caso
appena
citato.
Dobbiamo
soffermarci
ora
su
una
questione
fondamentale:
chi
erano
le
persone
che
beneficiavano
dell’attività
dell’ospedale?
Prima
di
rispondere
a
questa
domanda,
è
necessario
fare
una
precisazione
sull’idea
di
povertà
e
sulle
conseguenze
che
tale
condizione
aveva
nel
vissuto
quotidiano
del
tempo.
È
risaputo
che
nell’Europa
basso
medievale
gran
parte
della
popolazione
viveva
in
miseria.
Prato
non
faceva
eccezione:
Almeno
metà
della
popolazione
si
trovava
in
uno
stato
di
indigenza,
percentuale
che
poteva
arrivare
a
2/3
nelle
campagne
e
nelle
ville.
Livelli
così
alti
di
miserabili
erano
dovuti
in
parte
alla
massiccia
presenza
in
città
di
lavoratori
salariati
non
specializzati,
legati
alle
attività
manifatturiere
e in
particolare
a
quella
laniera.
In
quello
stesso
1329,
vero
annus
horribilis
di
grave
carestia,
quando
a
Siena
si
chiusero
le
porte
dell’ospedale
di
Santa
Maria
della
Scala
e i
poveri
vennero
malamente
cacciati
dalla
città,
a
Prato
si
adottò
un
provvedimento
per
bandire
i
miserabili
forestieri
che
non
pagavano
le
tasse
al
Comune
o
non
erano
in
grado
di
combattere.
Una
disposizione
analoga
si
ebbe
anche
nel
1383
e
non
si
andò
tanto
per
il
sottile,
se è
vero
che
i
rettori
e i
famigli
della
Misericordia
e
del
Dolce
scacciarono
i
poveri
a
bastonate.
Per
chi
nasceva
nella
classi
più
infime
della
popolazione,
la
miseria
era
una
sorta
di
male
cronico
che
accompagnava,
con
scarsissime
possibilità
di
riscatto,
i
meno
fortunati
dalla
culla
alla
tomba.
Tornando
al
quesito
iniziale,
si
denota
come
la
maggior
parte
degli
assistiti
fossero
poveri
che
potremmo
definire
“comuni”,
ovvero
persone
che
lavoravano
guadagnandosi
a
mala
pena
lo
stretto
necessario
per
sfamarsi
e
pagare
la
pigione
della
casa
in
cui
vivevano.
Come
abbiamo
già
avuto
modo
di
vedere,
negli
elenchi
dei
poveri
della
terra
di
Prato,
compare
un
certo
numero
di
donne
incinte,
stato
che
rendeva
ancor
più
difficoltosa
la
sopravvivenza
in
condizioni
così
precarie:
“Anche
demo
a
donna
Ciuta
chasiera
(che
viveva
in
affitto)
Sandri
dal
Chorso,
aprovollaci
Cenni
Sarto,
era
in
parto,
j
staio
grano”.
Da
notare
qui
che
l’incaricato
dell’ospedale,
delegato
a
supervisionare
l’effettiva
condizione
di
bisogno
della
donna,
è un
sarto,
a
ulteriore
conferma
che
la
maggior
parte
di
questi
funzionari
provenisse
dalla
piccola
o
piccolissima
borghesia.
La
beneficenza
del
Ceppo
toccava
anche
i
pii
ordini
religiosi
di
frati
e
monache
presenti
in
città:
“Li
frati
di
san
Francesco
ebbero
per
lemosina
iij
staia
di
grano”.
Analoghe
donazioni
venivano
riservate
in
favore
di
Domenicani
e
Agostiniani.
Un’altra
attività
che
non
si
trascurava
era
poi
l’assistenza
ai
carcerati,
i “pregioni”.
Si
pensi
che
nel
1302,
altro
anno
di
carestia,
a
Prato
furono
liberati
dodici
carcerati
poveri,
dato
che
non
arrivavano
più
le
elemosine
per
sfamarli.
Infine
quella
che
è
senz’altro
la
categoria
di
poveri
più
interessante,
ovvero
i
poveri
vergognosi.
Sono
così
denominati
nelle
fonti
quegli
individui
che,
abituati
ad
una
vita
onorevole
e
relativamente
agiata,
hanno
subito
un
repentino
calo
delle
loro
fortune
e
non
vogliono
rendere
manifesta
questa
nuova
infelice
condizione
agli
occhi
della
comunità:
“demo
alla
mogle
Cherevellucci
povera,
vergongnosa,
[...]
j
staio
di
grano”
e
più
sotto:
“Anche
demo
a
madonna
Valletta
mogle
che
ffue
del
Mula,
aprovollaci
Martino
per
povera
vergongnosa,
j
staio
grano”.
In
entrambi
gli
esempi
citati,
ma
si
tratta
in
realtà
della
maggioranza
dei
casi,
le
povere
vergognose
sono
vedove,
rimaste
prive
del
prezioso
sostentamento
del
marito.
È
questa
inoltre
la
miseria
improvvisa
nella
quale
poteva
cadere
il
commerciante
fallito,
il
piccolo
artigiano
che
si
infortunava
o il
proprietario
terriero
che
non
sopravviveva
a
una
serie
di
annate
cattive.
Insomma,
siamo
di
fronte
a un
vasto
campionario
degli
elementi
più
deboli
della
società:
orfani,
vedove,
anziani
in
primis,
donne
sole
o
con
molti
figli,
persone
inabili
al
lavoro
e
malati.
Pur
non
intraprendendo
forme
di
promozione
sociale
o di
assistenza
continuativa
per
questa
massa
di
sofferenti,
il
Ceppo
almeno
gli
forniva
un
aiuto
e un
conforto
preziosi.
Malgrado
non
ci
sia
capitato
di
trovare
riferimenti
a
riguardo
scorrendo
le
carte
del
Ceppo,
è
plausibile
che
anche
qualche
forestiero,
malato
o
caduto
in
disgrazia,
abbia
trovato
aiuto
in
quest’ospedale.
Si è
già
accennato
in
precedenza
alla
presenza
in
Prato
di
lavoratori
stranieri
legati
in
special
modo
all’Arte
della
lana
e
alla
funzione
di
snodo
viario
e
commerciale
che
la
città
del
Bisenzio
rivestiva.
Molti
viaggiatori
e
pellegrini,
che
giungevano
anche
dai
lembi
più
estremi
d’Europa,
vi
passavano
e
soggiornavano
e
poteva
accadere
che
si
ammalassero
durante
il
tragitto.
Soli
e
senza
l’appoggio
di
parenti
o
amici,
gli
unici
luoghi
in
cui
ricevere
le
cure
necessarie,
erano
gli
ospedali
cittadini.
Avrebbe
poco
senso
anche
solo
tentare
di
fare
un
confronto
tra
le
istituzioni
assistenziali
odierne
e
quelle
di
allora.
Troppo
grandi
sono
le
differenze
a
livello
demografico
e di
risorse
disponibili.
Ciò
non
toglie
che
si
possa
restare
stupiti
dallo
sforzo
compiuto,
dalla
profusione
di
mezzi
e
dall’impegno
di
tanti
uomini
e
donne
che
si
adoperarono
per
cercare
di
render
più
sopportabili
tante
sfortunate
esistenze.
Concludendo
ci
limiteremo
a
esprimere
una
nostra
impressione.
Malgrado
la
grande
fortuna
che
gli
studi
storico-sociali
hanno
avuto,
specie
nella
seconda
metà
del
‘900,
la
maggior
parte
delle
persone
non
ha
acquisito,
a
nostro
avviso,
la
consapevolezza
che
buona
parte
delle
istituzioni
assistenziali,
alle
quali
ci
rivolgiamo
tutt’ora,
trae
le
proprie
origini
da
quel
medioevo
che
il
senso
comune
avverte
ancora
come
oscuro
e
negativo.
La
Misericordia
di
Prato,
l’ospedale
di
Santa
Maria
Nuova
e
l’Istituto
degli
Innocenti
a
Firenze,
solo
per
fare
alcuni
esempi,
sono
la
testimonianza
concreta
e
tangibile
di
una
continuità
col
nostro
passato
che
dobbiamo
cercare
costantemente
di
valorizzare.