N. 1 - Gennaio 2008
(XXXII)
L’ASCESA DEL PRINCIPE
Limiti e implicazioni della sua autorità
di Maria Siciliano
Nella splendida luce
del primo Rinascimento il volto politico dell’Europa
appare come una galleria di ritratti principeschi:
le apparizioni pubbliche del principe assunsero
ovunque una dimensione tanto teatrale che questi
rese a tutti, in maniera immediata, il suo naturale
dominio del palcoscenico.
Riuscì in modo
spettacolare e quasi assoluto a condizionare i suoi
sudditi a una dedizione totale e incondizionata e tutta
la vita politica d’Europa, nelle sue relazioni
interstatuali, venne scandita al ritmo delle corti
regali.
Il principe, ben lungi
dall’essere nuovo sulla scena, aveva da tempo condiviso
con il papato il dominio del mondo occidentale e difeso
il nobile ideale della Cristianità; ma, quando quel
grande ideale unificatore cominciò a indebolirsi e a
venir meno, si aprirono al principe nuove possibilità di
esercitare il suo potere e, così, impose la sua
autorità anche a costo di ricorre a forme politiche
alternative.
Si trattò di un processo
iniziato agli albori del XV secolo, che vide l’autorità
personale del principe divenire la fonte principale del
potere politico e la figura chiave su cui si focalizzò
l’attenzione.
Dunque, il principe andò
acquistando una posizione predominante, ed è legittimo
chiedersi come riuscì a sostenere quella parte che
richiedeva tanto virtuosismo: ebbene, egli la sostenne
facendo, innanzi tutto, appello alla missione divina del
suo compito.
Nessun sovrano, infatti,
malgrado lo scenario mondano in cui esercitava il suo
ufficio, osava pensare di sfidare i valori spirituali
religiosi. Pertanto, il principe si avvicinò sempre più
a Dio per arricchire il suo potere temporale del
necessario afflato spirituale sentendosi, al tempo
stesso, obbligato a governare secondo i comandamenti di
Dio, nell’esercitare un’autorità che fosse emanazione
della giustizia divina.
A riguardo, nel 1515
Claude de Seyssel affermò che [...] ci si aspettava
che il sovrano rendesse manifesto, con l’esempio e
attraverso segni chiari e visibili, di essere un fervido
osservante della fede e della religione cristiana e di
essere intenzionato ad usare tutto il suo potere per
difenderla e rafforzarla [...].
Indubbiamente, questi
obblighi limitavano, in qualche misura, la libertà
d’azione del sovrano ma, nel contempo, conferivano un
peso maggiore alla sua autorità e lustro alla sua
reputazione. Tutti i sovrani erano consci delle solenni
responsabilità che una tale prossimità con Dio
comportava e quando, anche momentaneamente, le
dimenticavano, vi era qualcuno vicino a ricordargliele.
Erasmo, ad esempio, ammonì
tutti i sovrani d’Europa scrivendo: [...] Se sei un
principe bada che questa è la verità: Gesù Cristo è il
solo signore di ogni cosa. Tu che lo servi naturalmente
come suo inviato devi emularlo al massimo delle tue
possibilità...poiché egli chiederà conto a te più che a
chiunque altro delle tue azioni. Per comprendere
quanto un sovrano finisse per identificarsi con la vita
religiosa del suo regno lo dimostra un singolare quanto
sorprendente esempio del mondo russo, messo in luce
dalla corrispondenza intercorsa tra Ivan il Terribile e
il suo amico boiaro Michele Kurbsky, in cui lo zar
sosteneva che: [...] era suo compito perseverare con
zelo nel guidare il popolo alla luce e alla verità
affinché possa conoscere il solo vero Dio...e il sovrano
ad esso donato da Dio, affinché deponga le armi
micidiali e cessi di condurre una vita perversa poiché
sono queste le cause della fine di un regno [...].
Ma, il primo effetto di un
tale impegno politico – religioso, che si diffuse tanto
in Moscovia quanto in Occidente, fu il diffondersi
dell’opportunistica considerazione che riteneva
giustificabile ogni guerra, in quanto vissuta come
crociata contro gli infedeli, affermazione questa
accettata ampiamente anche da chi era stato notoriamente
avverso a ogni forma di violenza e barbarie.
Per questo, Budè fece
eccezione alla sua generale condanna della guerra per
quei principi cristiani che combattevano contro gli
infedeli per consolidare la fede cattolica e ortodossa;
anche Erasmo, che riteneva la guerra così mostruosa
che alle belve si addice e non agli uomini...che non ha
nulla a che fare con Cristo, lodò, nondimeno,
Sigismondo di Polonia per la sua campagna contro i
Turchi.
Tuttavia, altri
osservatori del tempo quali Guicciardini, Seyssel e
Scipione di Castro riferirono tutti dell’uso
spregiudicato che i principi facevano della religione,
della loro consuetudine di nascondersi dietro
l’investitura divina per mascherare le autentiche
intenzioni alle quali non era legittimo opporsi.
Ciò nonostante, per
conquistare completamente il potere di fatto, il
principe, doveva legittimare il proprio dominio e
ottenere credibilità presso i suoi sudditi; la
magnificenza delle corti europee rifletté, analogamente,
questa preoccupazione.
Fu così, che l’ascesa del
principe si attuò attraverso una serie di consapevoli
autoproclamazioni della propria autorità dinastica
contro quella degli altri. La lotta per la sovranità
elaborò sia una concezione patrimoniale e dinastica
dello stato sia l’assunto secondo il quale l’esistenza
del principe era il presupposto fondamentale
dell’esistenza stessa dello stato.
Secondo tale pensiero, un
sovrano ereditava lo stato così come il figlio di un
proprietario terriero ereditava i possedimenti paterni:
Contarini, ambasciatore veneziano presso la corte russa,
affermò con naturalezza che Mosca apparteneva a Ivan III
e che questi poté disporre, nel suo testamento, della
Moscovia come di una proprietà personale!
Tali opinioni erano
diffuse in tutta Europa. In Francia, Budé li espresse
attraverso la metafora del re- pater familias la cui
famiglia doveva considerarsi sparsa su tutto il
territorio su cui si estendeva la sua sovranità e
giurisdizione. In Spagna, l’imperatore Carlo V, al
momento della sua abdicazione, raccomandò a suo figlio
Filippo II di agire con generosità paterna come
un pastore con il suo gregge.
Per quanto diffusa e
condivisa, l’idea della sovranità e dello stato quale
patrimonio ereditario venne ben presto contestata, anche
da chi l’aveva inizialmente sostenuta.
è il caso
di Jean Bodin nel cui pensiero (Six livres de la
republique - 1576) non sopravvisse nulla della
vecchia concezione patrimoniale dello stato: il
territorio su cui domina il re, un tempo considerato sua
proprietà personale, è ora, per il pensatore francese,
proprietà pubblica della quale il sovrano deve essere il
semplice amministratore e non il proprietario. Nel
pensiero di Bodin vi è, comunque, l’implicito
riconoscimento che, per preservare la stabilità
politica, il potere doveva restare incontestabilmente
nelle mani del re, garante ultimo dell’esistenza dello
stato.
Tale ruolo, compito
precipuo del principe, implicava il dovere di garantire
la sicurezza e la stabilità dello stato, la tutela dei
diritti e dei privilegi di cui godevano i sudditi. In
cambio della fiducia in lui riposta e dell’obbedienza,
doveva assicurare a ogni suddito, giustizia e
protezione.
Scrisse Erasmo:[...]
Colui che afferra il timone dello stato si fa
amministratore degli affari del pubblico, non dei suoi
privati, non deve allontanarsi neppure di un mignolo
dalle leggi [...].
Eppure, come era possibile
conciliare i due aspetti coesistenti della politica del
principe esprimentesi da un alto nel dominio del sovrano
cristiano saldamente basato sui principi di giustizia
universalmente accettati e, dall’altro, nel trionfo del
più bieco opportunismo? La risposta è data da una realtà
politica dinamica in cui era lo stesso principe a
modellare, a volte impercettibilmente, il ruolo da lui
svolto, sia nelle sue funzioni pubbliche che in quelle
private.
Sulla sovrapposizione di
interessi pubblici e interessi privati e sui vantaggi
ottenuti dal principe da questa confusione di ruoli,
così scrisse Guicciardini, nei Ricordi, su
Ferdinando di Spagna: [...] una delle maggiori
fortune che possino avere gli uomini è avere occasione
di poter mostrare che, a quelle cose che loro fanno per
interesse proprio, siano stati mossi per causa di
pubblico bene. Questa fece gloriose le imprese del re
Cattolico, le quali, fatte sempre per sicurtà o
grandezza sua, parvono spesso fatte o per aumento della
fede cristiana o per difesa della Chiesa [...]
Atteggiamento dicotomico,
derivante da una visione confusa dello stato, fu anche
quello tenuto da Luigi IV, riassunto nella famosa
affermazione L’Etat, c’est moi.
Questa espressione,
interpretata solitamente in termini patrimoniali,
sottolineava l’assoluto potere del re di agire come
meglio credeva; tuttavia, potrebbe essere valida anche
l’interpretazione opposta che attribuiva a tale
espressione il riferimento al dovere di Luigi IV di
agire nell’interesse dello stato, anche quando le sue
aspirazioni personali lo spingevano verso altre
direzioni.
Se, da un lato, egli
condusse la politica de la gloire, di stampo
dinastico – patrimoniale, dall’altro, manifestò,
altresì, idee decisamente in conflitto con quelle
precedenti, come emerge da un suo scritto del 1661, in
cui si legge: [...] figlio mio, dobbiamo avere di
mira il bene dei nostri sudditi, assai più del nostro,
poiché siamo la testa di un corpo di cui essi sono le
membra. Soltanto per il loro bene dobbiamo dare loro le
leggi....E’ bello meritare da loro il nome di padre
insieme a quello di signore. [...]
Malgrado ogni nobile
proposito, negli ultimi decenni del XVI secolo, il
crescente e, in alcuni casi, illimitato potere del
principe determinò il punto di rottura dei legami di
lealtà dei suoi sudditi verso la sua persona, mettendo
in discussione la versione legalistica delle sue
responsabilità pubbliche.
Nell’estendere il suo
potere il principe, in sostanza, stava abbandonando il
ruolo passivo di arbitro e garante del bene pubblico,
eludendo i doveri che lo legavano ai suoi sudditi.
Grozio elaborò questo
aspetto sottolineando che: [...] in uno stato civile
che pur essendo monarchico non sia dispotico, il ricorso
ai diritti supremi del sovrano non deve avvenire
indiscriminatamente ma solo se è a vantaggio della
società civile [...].
Per giustificare
l’accresciuta autorità, il principe si appellò alla
ragion di stato, un elemento nuovo nell’idea di
giustizia reale e nell’amministrazione degli affari
dello stato che lo legittimava a imporre ogni genere di
arbitrio volto, molto spesso, alla soddisfazione di
aspirazioni personali.
I sudditi, nella misura in
cui non si opposero, furono di fatto conniventi con le
tendenze del re a ridefinire le basi della sua autorità.
Al contrario, i sovrani
europei finirono per esigere dai loro sudditi
un’accettazione più totale delle loro velleità
personali, del loro più esteso controllo sulle risorse
economiche e sugli individui nonché del
ridimensionamento dei diritti dei governati rispetto a
quelli dei sovrani.
Il quadro politico dei
primi anni del Seicento, totalmente condizionato dal
potere inflazionato del principe, rilevava le prime e
irreversibili incrinature che minavano il sistema
dominante di potere.
Il principe stesso si
trovava a un bivio: da un lato vi erano i vantaggi della
sua autorità assai imbarazzante da giustificare
unicamente in base a criteri personalistici o dinastici,
dall’altro, vi era la sua esposizione al crescente
risentimento dei sudditi che rischiavano di essere
schiacciati dal dispotismo.
Le vecchie risposte sulla
natura ed estensione dell’autorità reale e sui diritti e
gli obblighi dei sudditi non riuscirono più a soddisfare
i nuovi interrogativi circa i limiti della ragion di
stato, le responsabilità pubbliche del potere dei
sovrani e il diritto individuale dei sudditi di
esprimere il proprio dissenso.
Se in alcuni stati la
sovranità fu inequivocabilmente identificata nella
persona del sovrano, in altri, la vera sede della
sovranità non fu chiara e ciò fu dovuto alle diverse
condizioni storiche, alla varietà di tradizioni e
istituzioni e ai diversi gradi di maturità politica
raggiunti dai singoli stati.
Quello che si delineò,
nella ricerca della sovranità, fu una comune tendenza
che avrebbe spinto quasi tutti i paesi d’Europa verso il
concetto di stato impersonale inteso quale entità
astratta, distinta e dai governati e dai governanti.
Lo stato impersonale,
assieme all’idea di nazione avrebbero rappresentato una
nuova forza dinamica che si sarebbe affermata,
definitivamente, solo alla fine del XVIII secolo. |