N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
VIRTù E DEBOLEZZE IN
L'ASCESA
L'ULTIMO FILM DI LARISA Šepit’ko TRA I "CLASSICI" DI VENEZIA
di Leila
Tavi
L’Ascesa
(Восхождение,
Voshoždenie)
è il
film
più
conosciuto
della
regista
di
origine
ucraina
Larisa
Šepit’ko
(Лари́са
Ефи́мовна
Шепи́тько)
nonché
l’ultimo
che
riuscì
a
portare
a
termine,
prima
del
terribile
incidente
d’auto
in
cui
fu
coinvolta
a
soli
quarantun
anni
nel
1979.
Quando
perse
la
vita,
la
regista
stava
effettuando
alcuni
sopralluoghi
a
Leningrado
con
quattro
membri
della
sua
troupe
per
un
adattamento
del
romanzo
di
Valentin
Grigor'evič
Rasputin
(Валентин
Григорьевич
Распутин)
del
1976,
dal
titolo
Addio
a
Matёra
(Прощание
с
Матёрой).
Con
lei
morì
uno
dei
due
cameraman
di
L’Ascesa,
Vladimir
Čuhnov
(Владимир
Чухнов).
Sarà
suo
marito
Elem
Klimov
(Элем
Германович
Климов)
a
portare
a
termine
nel
1981
per
lei
il
film
Proščanie
(Прощание
–
L’addio)
e a
dedicarle
un
documentario
commemorativo
realizzato
l’anno
precedente
dal
titolo
Larisa
(Лариса).
L’Ascesa
è
ispirato
al
romanzo
del
1970
Gli
ultimi
tre
giorni
(Сотников
-
Sotnikov
-
nella
versione
originale)
di
Vasíl
Uładzímiravič
Býkaŭ
(bielorusso:
Васі́ль
Уладзі́міравіч
Бы́каў,
russo:
Василь
Влади́мирович
Быков);
fu
girato
nel
1976
e si
aggiudicò
l’Orso
d’oro
al
Festival
Internazionale
del
Cinema
di
Berlino
nel
1977.
La
storia
è
ambientata
in
Bielorussia
nell’inverno
del
1942
e
narra
di
due
partigiani,
Boris
Andreevič
Sotnikov
(Борис
Андреевич
Сотников),
interpretato
da
Boris
Grigor’evič
Plotnikov
(Бори́с
Григо́рьевич
Пло́тников),
e
Kolja
Rybak
(Коля
Рыбак),
interpretato
da
Vladimir
Vasil’evič
Gostjuchin
(Влади́мир
Васи́льевич
Гостю́хин).
I
due
si
allontanano
dai
loro
compagni
per
andare
a
cercare
cibo,
ma
sono
presto
catturati
dai
soldati
tedeschi
e
interrogati
da
Portnov
(Портнов),
interpretato
dal
famoso
attore
Anatolij
Alekseevič
Solonicyn
(Анатолий
Алексеевич
Солоницын),
che
nel
film
è un
collaborazionista
con
il
ruolo
di
comandante
della
sezione
locale
della
Hilfspolizei,
la
Polizia
Ausiliaria
Bielorussa
a
supporto
delle
truppe
tedesche,
ma
che
prima
della
guerra
era
un
semplice
direttore
di
un
centro
culturale
e di
un
coro
locale.
Le
scene
iniziali
del
film
in
bianco
e
nero
sono
connotate
da
un
evidente
contrasto
tra
panoramiche
con
un
lungo
movimento
ininterrotto
e
close-up.
Lo
spettatore
percepisce
l’aria
diradata
di
un’ambientazione
surreale
intrappolata
nella
neve,
pochi
i
dialoghi,
il
suono
diegetico
della
tramontana
in
sottofondo.
S’intravede
il
nevischio
sull’obiettivo
della
macchina
da
presa,
si
avverte
l’alito
gelido
dei
partigiani
in
fuga.
Sulla
scena
un
momento
si
parla
tranquillamente
e il
momento
dopo
si
cade
uccisi
dal
nemico.
All’inizio
del
film
si
passa
improvvisamente
dalla
folla
indistinta
alla
solitudine
alla
coppia
degli
sventurati
protagonisti,
che
si
addentra
nella
desolazione
delle
distese
innevate.
Sotnikov
è un
ex
insegnante
di
matematica
che
rappresenta
il
prototipo
dell’eroe
russo,
pronto
al
martirio
come
Cristo
non
per
fede,
ma
per
la
causa
sovietica.
L’altro
protagonista,
Rybak,
all’inizio
del
film
sembra
essere
una
figura
positiva,
che
aiuta
il
suo
compagno
e
gli
dà
coraggio
per
affrontare,
ferito
a
una
gamba
dai
tedeschi,
la
lunga
traversata
del
bosco
in
pieno
inverno,
fino
alla
casa
della
combattiva
Demčicha
(Демчиха),
interpretata
da
Ljudmila
Petrova
Poljakova
(Людми́ла
Петро́вна
Поляко́ва).
Alla
fine
del
film
Rybak
però
tradirà
come
Giuda
per
salvarsi
la
vita,
accettando
di
diventare
un
collaborazionista.
Per
Larisa
Šepit’ko
le
figure
di
Cristo
e
Giuda
sono
eterni
archetipi,
familiari
sia
in
patria
che
all’estero,
che
permettono
di
arrivare
in
brevissimo
tempo
alla
mente
e al
cuore
di
un
vasto
pubblico.
Nel
corso
del
film
lo
spettatore
comprende
chiaramente
che
la
valenza
dei
due
personaggi
è
politica
e
non
religiosa,
nel
tentativo
di
narrare
qualcosa
di
ancora
più
profondo
della
storia
di
un
martire
di
guerra,
una
società
in
cambiamento
che
trent’anni
dopo
la
guerra
comprende
l’importanza
del
dissenso
e
dell’opposizione
anche
del
singolo
al
monolitico
potere
totalitario.
Che
sia
un
Cristo
‘politico
e
ateo’
a
essere
raffigurato
nel
film
lo
evinciamo
da
alcuni
particolari
e
comportamenti
che
riguardano
Sotnikov,
che
è
pronto
a
insultare
e
anche
a
uccidere
Pjotr
Syč
(Пётр
Сыч),
interpretato
da
Sergej
Jakovlev
(Сергей
Яковлев),
il
contadino
che
i
due
partigiani
credono
un
collaborazionista
e al
quale
sottraggono
una
pecora
da
portare
ai
compagni
per
sfamarli.
Lontano
dall’immaginario
comune
cristiano
è il
modello
di
icona
che
Sotnikov
incarna
quando
Rybak
lo
nasconde
tra
i
cespugli,
ferito
e
sanguinante,
per
proteggerlo
dai
tedeschi.
La
ieraticità
dell’immagine
della
sua
testa
coronata
di
spine
svanisce
improvvisamente
alla
visione
del
convulso
movimento
con
cui
l’uomo
cerca
di
spezzare
i
rametti
dei
cespugli,
fino
a
formare
un
vuoto
attorno
a
sé,
fino
a
liberarsi
dei
rovi
che
gli
coprono
il
viso,
mentre
la
neve
gli
invade
il
corpo
intirizzito;
in
sottofondo
la
musica
di
Al'fred
Garrievič
Šnitke
(Альфре́д
Га́рриевич
Шни́тке).
Larisa
Šepit’ko
ha
realizzato
così
una
scena
epifanica,
come
l’ha
definita
Jason
Merrill
della
Michigan
State
University,
in
cui
la
musica
polistilistica
di
Šnitke
sottolinea
l’austerità
e la
ieraticità
delle
immagini
e
allo
stesso
tempo
la
drammaticità
delle
azioni.
Nella
scena
della
prigione
il
martire,
dopo
essere
stato
torturato
e
fatto
marchiare
dal
collaborazionista
Portov
come
un
Untermensch,
nel
tentativo
di
estorcere,
senza
successo,
una
confessione
o
informazioni
su
dove
è
nascosto
il
gruppo
di
partigiani,
sputa
sangue
in
segno
di
disprezzo
in
faccia
al
suo
compagno
Rybak,
che
gli
ha
confessato
di
voler
collaborare
per
avere
salva
la
vita.
Infine
Sotnikov
rappresenta
un
eroe
e
non
una
divinità
quando
fiero
si
reca
al
patibolo
gridando
di
pentirsi
di
non
aver
ucciso
abbastanza
tedeschi,
come
un
moderno
combattente,
protagonista
della
Velikaja
Otečestvennaja
vojna
(Великая
Отечественная
война),
la
grande
guerra
patriottica.
Durante
la
scena
dell’interrogatorio
di
Sotnikov
lo
spettatore
assiste
a
una
sorta
di
rafforzamento
della
volontà
del
partigiano,
che
non
si
piega
alle
torture,
senza
rivelare
il
suo
passato
da
comandante
dell’Armata
Rossa
e la
sua
identità.
Segue
una
presa
di
coscienza
da
parte
sua
di
come
ogni
vero
uomo
sovietico
debba
portare
sulle
proprie
spalle
una
croce
per
la
liberazione
della
patria
dal
demone
del
nazionalsocialismo.
Portov
il
collaborazionista
è
nella
scena
dell’interrogatorio
simile
a
Ponzio
Pilato,
timoroso
di
Sotnikov,
ha
uno
sguardo
fisso
e
vuoto,
con
le
occhiaie
nere,
indice
di
un’insonnia
da
rimorso;
osserva
Sotnikov
come
uno
spettatore
di
spalle
alla
macchina
da
presa,
vestito
come
un
qualsiasi
funzionario
sovietico
che
sta
ancora
svolgendo
il
suo
compito
da
piccolo
e
insignificante
burocrate,
al
quale
Sotnikov
chiede
con
lucida
chiarezza,
nonostante
le
torture
a
lui
inflitte,
dove
si
trovasse
durante
la
guerra,
a
sottolineare
che
Portov
non
ha
fatto
una
scelta
morale,
ma
di
convenienza.
Portov
osserva
attentamente
Sotnikov
mentre
è
torturato
dai
suoi
sicari,
convinto
che
il
dolore
fisico
portato
agli
estremi
possa
trasformare
il
coraggio
e
gli
ideali
di
qualsiasi
uomo
in
paura,
convinto
che
l’essenza
umana
è
solo
materia
fisica
riempita
con
ordinaria
‘merda’.
L’infimo
burocrate
si
ricrede
ben
presto
e
prova
fastidio
nel
notare
l’aura
attorno
al
capo
di
Sotnikov,
che
esce
rafforzato
moralmente
e
spiritualmente
dalla
sofferenza
estrema.
Questa
scena
chiave
del
film
enfatizza
alcuni
temi
ricorrenti
nelle
opere
di
Dostoevskij,
autore
amato
dalla
regista,
come
la
coscienza
intellettuale
e la
scelta
morale
dell’individuo.
In
un’ottica
dostoevskiana
il
personaggio
di
Portov
incarna
l’incapacità
dell’uomo
comune
sovietico
di
scegliere
tra
il
bene
e il
male
per
mancanza
di
libertà.
La
scena
dell’interrogatorio
riporta
alla
mente
dello
spettatore
l’incontro
tra
il
Grande
Inquisitore
e
Cristo
nel
romanzo
I
fratelli
Karamazov
(Братья
Карамазовы
–
Brat’ja
Karamazovy,
1879).
All’inizio
del
film
Sotnikov
sembra
un
personaggio
debole,
quasi
dipendente
da
Rybak,
che
ha
sempre
la
soluzione
per
scampare
al
pericolo,
nel
momento
però
più
critico
del
film,
nel
momento
risolutivo,
in
cui
i
due
guardano
in
faccia
la
morte,
il
primo
diventa
l’eroe
che
addossa
su
di
sé
tutte
le
colpe
nel
tentativo
di
salvare
gli
altri
prigionieri
che
hanno
trascorso
con
lui
la
notte
in
cella:
il
suo
compagno
Rybak,
il
vecchio
contadino
che
avevano
creduto
un
collaborazionista
e
che
invece
aiutava
i
partigiani,
Demčicha
e
un’adolescente
di
religione
ebraica,
Basia
(Бася),
interpretata
da
Victorija
Gol’dentyl
(Виктория
Гольдентул).
Rybak
invece
diventa
il
codardo
della
situazione,
accetta
la
proposta
di
Portnov
di
collaborare
con
i
tedeschi
per
avere
salva
la
vita.
La
drammatica
scena
dell’impiccagione
si
svolge
sotto
lo
sguardo
divertito
e
compiaciuto
degli
ufficiali
nazionalsocialisti
e
davanti
a
uno
sparuto
capannello
di
contadini
del
posto,
attoniti
e
terrorizzati.
Le
esecuzioni
di
piazza
dovevano
essere
da
monito
per
coloro
che
osavano
cospirare
contro
la
Germania
e
contro
il
Führer.
Qualcuno
tra
le
fila
della
Hilfspolizei
si
preoccupa
che
ci
siano
pochi
spettatori,
«Mala
narod
(Мала
народ)»
qualcuno
dice.
Una
musica
da
fiera
di
paese
in
sottofondo.
Rybak
vuole
sorreggere
il
compagno
e
accompagnarlo
fino
alla
forca,
ma
Sotnikov
lo
allontana
con
uno
spintone
e lo
fa
cadere
a
terra,
con
passo
sofferente
ma
deciso
s’incammina
verso
il
patibolo,
trasmettendo
serenità
anche
agli
altri
suoi
concittadini,
che
in
lui
riconoscono
la
speranza,
i
valori,
gli
ideali
e
l’utopia
dei
primi
anni
del
comunismo,
gli
stessi
che
Rybak,
caricatura
di
Stalin,
ha
tradito.
La
prima
a
morire
è la
coraggiosa
Demčicha,
che
per
aver
nascosto
Sotnikov
e
Rybak
nel
suo
granaio,
è
stata
costretta
ad
abbandonare
a se
stessi
i
suoi
bambini
e a
pagare
con
la
sua
stessa
vita,
poi
la
giovane
ebrea,
che
si
mette
da
sola
il
cappio
al
collo
senza
un
attimo
di
esitazione,
poi
il
vecchio
contadino,
al
quale
la
notte
prima
Sotnikov
ha
confessato
le
sue
intenzioni
di
ucciderlo
durante
il
loro
primo
incontro,
perché
lo
ha
creduto
per
errore
un
collaborazionista,
verso
il
quale
i
due
partigiani
hanno
mostrato
sfiducia
e
timore
di
essere
stati
accolti
in
casa
solo
per
essere
traditi
e
consegnati
ai
soldati
tedeschi.
Per
questa
sua
malafede
Sotnikov
ha
chiesto
nella
notte
perdono
al
vecchio
contadino,
che
lo
ha
vegliato
insieme
a
Demčicha
e a
Batja,
supplicati
dallo
stesso
Sotnikov,
affinché
potesse
superare
vivo
la
notte
e
compiere
il
martirio
il
mattino
seguente,
addossandosi
la
colpa
per
la
salvezza
spirituale
del
loro
Paese,
usurpato
e
martoriato
dal
nemico.
Quando
tocca
a
Sotnikov
morire,
il
suo
compagno
è
prostrato
sotto
di
lui,
a
reggere
il
tronco
su
cui
è
stato
fatto
salire
Sotnikov
e
che
ancora
lo
tiene
in
vita.
Prima
di
morire
guarda
verso
la
folla
che
sta
assistendo
al
macabro
spettacolo
e
incrocia
lo
sguardo
di
un
giovane
ragazzo
con
la
budënovka
(Будёновка),
il
tipico
copricapo
morbido
di
lana
indossato
dai
bolscevichi
durante
la
guerra
civile.
Il
ragazzo
lascia
scorrere
le
lacrime
per
il
dolore
nel
vedere
un
eroe
trattato
da
vile
malfattore;
tra
lui
e
Sotnikov
c’è
uno
scambio
di
sorrisi,
per
la
prima
volta
durante
tutto
il
film
lo
spettatore
osserva
Sotnikov
con
un
impercettibile
sorriso
serafico
accennato
sulle
labbra.
L’eroe
si
rende
conto
solo
un
attimo
prima
di
morire
che
il
suo
sacrifico
non
è
vano
e
che
il
ragazzo
con
la
budënovka
rappresenta
un
futuro
migliore
e la
speranza
che
sia
il
bene
a
trionfare
sul
male,
un
bene
solidaristicamente
collettivo,
mai
egotisticamente
individuale.
Mentre
la
morte
si
avvicina,
il
volto
di
Sotnikov
assume
un’espressione
imperscrutabile,
segno
di
un’assoluta
inviolabilità.
Un
sentimento
patriottico
aleggia
tra
protagonisti
e
spettatori
del
martirio,
lo
ritroviamo
nella
vecchia
contadina
che
addita
Rybak
per
due
volte
come
Giuda,
in
Demčicha
e
nel
ragazzo
con
la
budënovka.
L’occupazione
del
nemico
da
un
lato
fiacca
la
resistenza,
ma
dall’altro
rinvigorisce
gli
animi
e
riporta
a un
livello
filosofico
il
dibattito
sulla
guerra,
aggiungendo
uno
spirituale
grado
di
conflittualità
al
brutale
e
disumano
contesto
bellico.
Rybak
guarda
penzolare
la
forca
vuota
che
sarebbe
stata
destinata
a
lui,
poi
ha
ancora
una
volta
la
visione
di
un
partigiano
a
cui
sparano
alle
spalle,
come
quando,
in
una
scena
precedente,
è
con
Sotnikov
e
Demčicha
sul
carro
che
lo
porta
verso
la
stazione
di
polizia
e
vede
sparare
a un
partigiano
alle
spalle;
in
entrambi
i
casi
il
volto
del
partigiano
giustiziato
che
si
volta
verso
la
macchina
da
presa
è
sempre
quello
di
Rybak
ed
egli
stesso
è
testimone
della
morte
della
sua
anima,
mentre
il
suo
corpo
continua
a
vivere
in
una
condizione
di
animalesca
sopravvivenza,
senza
qualità
e
senza
dignità.
Nella
scena
finale
Rybak
prova
a
impiccarsi
con
la
sua
cinta
in
una
latrina,
dopo
un
paio
di
tentativi
rinuncia
e
s’inginocchia
sul
putrido
pavimento
della
latrina,
lo
vediamo
carponi
come
il
cane
che
è
davanti
a
lui
e
che
si
frappone
tra
lui
e la
visione
del
paesaggio
innevato
e
desolato
al
di
là
del
portone
della
stazione
di
polizia,
simbolo
della
libertà
che
ha
rifiutato;
urla
di
dolore,
guaisce,
a
differenza
del
suo
compianto
amico
che
ha
sopportato
con
composta
fierezza
anche
la
marchiatura
riservata
ai
peggiori
criminali.
Poi
Rybak
volge
lo
sguardo
alla
cella
ormai
vuota
dove,
assieme
agli
altri
quattro
compagni
di
sventura
ora
morti,
ha
trascorso
la
notte.
Quella
cella
ha
una
forte
analogia
con
il
sepolcro
da
cui
Cristo
è
risorto
e
trasmette
spiritualità.
La
materializzazione
della
natura
umana
e la
negazione
della
sua
spiritualità,
la
depersonalizzazione
dell’individuo
erano
capisaldi
del
sostrato
ideologico
alla
base
del
totalitarismo
comunista.
Rybak
è
associato
nel
film
a
due
animali:
la
pecora
e il
cane;
la
pecora
che
Rybak
uccide
e
porta
a
spalla
e
quella
che
i
soldati
tedeschi
stanno
scuoiando
mentre
il
carro
che
trasporta
Rybak,
Sotnikov
e
gli
altri
arriva
al
comando
di
polizia.
Una
guardia
del
campo
darà
al
traditore
l’appellativo
di
pelle
di
pecora,
perché
indossa
un
gilet
di
montone,
alludendo
alla
codardia.
Alla
fine
della
tragica
storia,
carponi
e
delirante,
Rybak
è
associato
alla
figura
del
cane
che
gli
sta
davanti
e
che
abbaia
senza
sosta.
Nonostante
le
disumane
condizioni
in
cui
ha
scelto
di
vivere,
è in
preda
ai
rimorsi
di
coscienza
e la
morte
della
sua
anima
è il
castigo
con
cui
sarà
costretto
a
vivere
fino
alla
fine
dei
suoi
giorni
agli
ordini
di
un
padrone.
Per
David
C.
Gillespie,
che
ha
insegnato
russo
per
oltre
trent’anni
all’Università
di
Bath
ed è
esperto
di
cinema
russo,
L’Ascesa
è
uno
dei
film
più
significativi
dell’epoca
di
Brèžnev
e
della
stagnante
calcificazione
culturale
che
seguì
al
disgelo.
Nonostante
l’abbondanza
di
riferimenti
alla
religione
cristiana
il
film
ha
ottenuto
larghi
consensi
tra
le
alte
cariche
e
tra
i
censori
sovietici,
inoltre
è
stato
proiettato
nei
cinema
dell’Unione
Sovietica,
se
pur
con
una
limitata
distribuzione.
In
seguito
alla
vittoria
dell’Orso
d’oro
a
Berlino
nel
1977
a
Larisa
Šepit’ko
fu
concesso
di
prendere
parte
ai
festival
di
Telluride
e di
Toronto
e di
far
parte
della
giuria
a
Berlino
nel
1978;
infine
le
fu
assegnato
post
mortem
un’onorificenza
di
Stato.
In
fondo
la
morale
di
un
incorruttibile
potere
spirituale
che
trionfa
sopra
la
sofferenza
fisica
rappresenta
una
tragica
parabola
con
una
simbologia
religiosa
applicata
a
una
logica
socialista,
che
ha
come
risultato
filmico
una
tragedia
di
genere
metaforico.
L’ascesa
esalta
la
spiritualità
dell’uomo
sovietico,
ma
in
un
modo
diverso
rispetto
a
Tarkovsky
o
agli
altri
registi
della
Nouvelle
Vague
sovietica,
attraverso
un
umanismo
sovietico.
Larisa
Šepit’ko
esprime
con
il
suo
ultimo
film
la
sua
personale
visione
della
vita,
del
senso
della
vita,
con
una
dialettica
in
cui
gli
ideali
cristiani
sono
accostati
a
quelli
dell’utopia
socialista.
La
morale
del
film
mette
in
risalto
come
gli
ideali
del
socialismo
siano
stati
traditi,
corrotti
e
rimaneggiati
al
fine
di
preservare
il
potere
della
classe
dirigente
sovietica,
mentre
dal
punto
di
vista
storico
il
film
si
cimenta
con
l’eredità
staliniana
e
con
il
giudizio
dei
giovani
russi
degli
Anni
Settanta
del
secolo
scorso
sull’operato
delle
generazioni
precedenti,
in
una
visione
umana
della
guerra
tra
sommersi
e
salvati.