[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 152 / AGOSTO 2020 (CLXXXIII)


moderna

La meteora murattiana

Dalla campagna d’Italia al Proclama di Rimini

di Giulia Iacovelli

 

Con la campagna d’Italia, condotta da Napoleone nel 1796, si inaugura apparentemente una nuova stagione di subalternità della penisola a una potenza straniera. Di questa armata francese la figura principale per i successivi venti anni di storia d’Italia è Gioacchino Murat.

 

Ultimo degli undici figli di un oste, Gioacchino Murat nasce nel 1767 in Occitania. Per consentirgli di avere migliori prospettive di vita, i genitori lo indirizzano verso la carriera ecclesiastica, spingendolo a entrare in seminario. Tuttavia, sin da subito il giovane Gioacchino dimostra una spiccata passione per il mondo militare, per il quale sceglie di abbandonare il cammino che la famiglia ha scelto per lui.

 

La decisione di Murat di arruolarsi inaugura una storia personale che è esempio della mobilità sociale divenuta possibile nella Francia post-rivoluzionaria. Viene notato da Napoleone Bonaparte, all’epoca Capo di Stato maggiore, nel corso delle azioni militari per sedare le rivolte che insanguinano Parigi a sei anni dalla Rivoluzione.

 

Bonaparte, a seguito di quelle operazioni, viene nominato Comandante dell’Armata destinata a recarsi in Italia per affrontare il Regno di Sardegna, lo Stato pontificio e il Sacro Romano Impero. Decide di portare Murat con sé in qualità di primo aiutante di campo, consentendogli così, da un lato, di iniziare a sentirsi parte della grande storia che sarà l’età napoleonica e, dall’altro, di vedere per la prima volta la terra che tanto importante sarà nella sua vita pubblica, osservandone con attenzione la frammentazione politica che contrasta nettamente con lo spirito nazionale che caratterizza invece la Francia.

 

La vittoria dell’esercito guidato dal Comandante corso sugli avversari dell’antico regime è schiacciante. È solo l’inizio della vertiginosa ascesa, militare prima e politica poi, che egli intende condividere con gli uomini più capaci e leali che gli sono stati vicini in questa prima campagna.

 

Tre anni dopo egli vuole Murat di nuovo al suo fianco nell’Armata d’Oriente in Egitto. Si tratta di una campagna difficile, nella quale il contingente francese deve misurarsi con le asperità di un campo di battaglia prevalentemente desertico e persino con una epidemia di peste. La vittoria francese è peraltro effimera, poiché destinata a essere ribaltata dalla successiva sconfitta nella campagna di Siria, che implica in definitiva un indebolimento dell’esagono nelle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo.

 

Resta il coraggio dimostrato ancora una volta da Napoleone e il suo carisma, che attrae sulla sua figura un consenso tale da portarlo il 18 brumaio (9 novembre) 1799 a diventare Console della Repubblica francese, assieme a Emmanuel Sieyès e Roger Ducos. Ciò avviene a seguito di un vero e proprio colpo di Stato nella cui riuscita Murat, distintosi anche nel corso della campagna d’Egitto in quanto a capacità di comando e strategia, ha un ruolo fondamentale. È infatti lui a forzare la decisione dell’Assemblea dei Cinquecento, facendovi irruzione alla guida di un comparto di fanteria e inducendola a dare pieni poteri al triumvirato.

 

La ricompensa non tarda ad arrivare: Gioacchino è nominato Comandante della Guardia dei Consoli. Tuttavia, è l’ingresso nella famiglia dell’astro nascente Napoleone a rappresentare la vera svolta. Bonaparte, dopo mesi di resistenza, nel gennaio del 1800 cede infatti alla richiesta del Comandante di sposare la sua sorella minore Carolina: un matrimonio d’amore, inizialmente osteggiato da Napoleone, il quale avrebbe desiderato per la più brillante delle donne della sua famiglia un’unione con un uomo di rango più elevato. Carolina riuscirà però a restare centrale tra i Bonaparte, pur senza sposare un nobile, a differenza delle sorelle Elisa e Paolina. Peraltro, dal 2 dicembre 1804, data dell’incoronazione di Napoleone nella Cattedrale di Notre Dame, è necessario riferirsi a loro come alla famiglia imperiale.

  

I Bonaparte appartengono alla piccola nobiltà corsa, il che li rende a malapena Francesi e tendenzialmente sgraditi all’aristocrazia parigina. Ciò nonostante controllano ora il trono più importante d’Europa e hanno l’enorme ambizione di condurre sotto il proprio controllo una vasta parte del continente. Questo richiede una imponente politica di alleanze, che Napoleone non esita a portare avanti utilizzando il vincolo più forte che esista, quello di sangue.

 

Nel giro di pochi anni aumenta il controllo sulle articolazioni dell’Impero, coinvolgendo attivamente i suoi familiari: ne sono esempi le nomine dei fratelli Luigi, Gerolamo e Giuseppe rispettivamente a Re d’Olanda, di Westfalia e di Napoli (dove si inaugura così il “decennio francese”).

 

In questo scenario, i Murat, Gioacchino e Carolina, sono inizialmente isolati. Certo, non mancano i riconoscimenti per le mirabili azioni militari del Comandante, nominato nel 1805 Grand Aigle, il prestigioso titolo onorifico oggi noto come Grand Croix della Legion d’onore.

 

Tuttavia, soprattutto alla luce della stima particolare che lega Napoleone alla sorella minore, questa condizione di scarsa valorizzazione politica risulta difficile da protrarre a lungo. I coniugi non nascondono l’ambizione di ricevere un Regno e per giunta un Regno importante, come quello di Spagna. Ambizione frustrata dall’incostanza dei rapporti tra l’Imperatore e Murat, che spingono il primo a scegliere per il trono di Madrid suo fratello Giuseppe. Il Regno di Napoli, a sua volta, torna così nella disponibilità dell’Imperatore.

 

A questo punto nemmeno l’assegnazione di tale trono a Gioacchino è pacifica: il resto della famiglia imperiale preferirebbe infatti una indicazione di Carolina. Viene infine individuata una soluzione di mediazione: nel 1808, a 41 anni, Gioacchino è nominato Re di Napoli e di Sicilia, con il diritto di trasmettere il potere con la regola del maggiorascato, fatta salva però la possibilità per Carolina di succedere al marito.

 

Inizia per il Mezzogiorno della penisola una stagione breve, ma caratterizzata da uno sviluppo e una prosperità notevoli. L’Italia in cui Gioacchino torna non è molto diversa da quella che ha conosciuto nel 1796. Alla condizione di profonda instabilità politica e di assenza di un sentimento nazionale, si aggiungono le difficoltà economiche e sociali di un Sud dominato da aristocrazia ed enti ecclesiastici che nulla fanno per agevolare un suo riscatto.

 

Murat è animato da un forte spirito riformista, nella consapevolezza che, seppur un semplice ripiego rispetto al tanto ambito trono di Spagna, quello di Napoli è comunque un Regno, che può essere trasformato, arricchito, rafforzato militarmente e reso centrale nelle dinamiche della politica europea.

 

Rivoluzionaria, nell’Italia dell’inizio dell’Ottocento, è l’adozione del Codice civile entrato in vigore in Francia nel 1804, che rappresenta uno dei principali balzi in avanti della modernità. 2.281 articoli divisi, oltre a una sezione preliminare, in tre parti: persone, beni e proprietà. Per il Sud Italia naturalmente è il fatto che sia la legge e non la religione a normare la vita familiare e sociale dell’individuo, unito al superamento del regime feudale, a rompere tabù che hanno per secoli limitato il potenziale di sviluppo dell’area e della sua mentalità.

 

Murat sceglie anche di affrontare ulteriori questioni problematiche: l’assenza di una identità nazionale e la presenza di numerose diseguaglianze territoriali, che impediscono l’affermazione di un principio di coesione. Sul piano delle politiche di costruzione nazionale egli dalla costituzione di un esercito. Supera infatti la formazione disordinata e occasionale incaricata della difesa del Regno, introducendo la Guardia nazionale e la coscrizione.

 

Porta avanti una serie di riforme istituzionali: in particolare la riorganizzazione della burocrazia sulla base di criteri di merito e non più di clientelismo e la riforma dell’esercizio del potere giudiziario.

 

A Murat si deve il primo grande sforzo di colmare la frattura centro/periferia al Meridione, investendo in infrastrutture di collegamento e in profonde trasformazioni urbanistiche, e la “statistica murattiana”, indagine approfondita sullo stato economico e sociale del Regno.

 

Tutto ciò sarebbe però vano senza l’impegno della nuova famiglia reale a promuovere una cultura napoletana impregnata di stile Impero. L’attenzione che la corte guidata da Gioacchino e Carolina presta al mecenatismo nei confronti di intellettuali e artisti si riflette anche nel lavoro che viene svolto per riformare il mondo dell’università, che conosce per la prima volta in Italia notevoli incentivi agli studi scientifici.

  

Il vento del cambiamento portato dai Bonaparte è però osteggiato da un numero crescente di Stati e case regnanti, che non condividono l’idea, oggettivamente modernissima, di una Europa unificata sotto l’insegna dell’aquila francese a spese delle loro corone. Le fratture che caratterizzano l’Italia diventano i contorni di uno scacchiere prezioso per le coalizioni antinapoleoniche, che non esitano a sfruttare la frustrazione delle terre italiche a loro vantaggio.

 

Murat comprende che il suo Regno, che pure sta conoscendo una fase di rinascita, è in pericolo: non basterà la soddisfazione dei sudditi per le nuove infrastrutture e un esercito degno di questo nome a tutelare il suo trono in caso di caduta del cognato.

 

È in questo quadro che si innesta l’intuizione più brillante del Re di Napoli, destinato a renderlo un punto di riferimento per la successiva età risorgimentale. Innanzitutto, nel novembre del 1813 suggerisce a Napoleone di promuovere una semplificazione del quadro politico italiano, da limitare, a suo avviso, a due soli Regni: il suo a Sud e uno da assegnare a Eugène de Beauharnais, figlio maggiore di Josephine, prima moglie dell’Imperatore, a Nord, con l’esclusione del Piemonte e di Genova.

 

La ritrosia di Bonaparte a mettere in pratica questa soluzione spinge Murat tra le braccia degli Austriaci, che promettono di tutelare il suo trono in cambio di una rottura con il governo di Parigi. Gioacchino gioca però ora una sua partita: sa che, se riuscirà nell’impresa, ritenuta fino a quel momento impossibile, di “redimere l’Italia” e di unificarla sotto una sola corona, non basterà il crollo dell’Impero napoleonico né l’assenza dell’appoggio austriaco a far vacillare il suo potere. Avanza verso Nord, in una palese sfida alla Francia, ma Napoleone lo ferma subito, nel febbraio del 1814, tornando sui suoi passi e accettando la proposta dei due Regni. La questione italiana resta dunque aperta e Gioacchino rientra a Napoli.

 

Tuttavia, nel giro di pochi mesi, la storia d’Europa subisce un’accelerazione notevole. A partire dal marzo del 1814 si susseguono l’occupazione austro-prussiana di Parigi, il Trattato di Fontainebleu del 14 aprile che prevede l’abdicazione di Napoleone in favore del figlio e il suo trasferimento all’isola d’Elba, la restaurazione del Regno di Luigi XVIII lo stesso mese e la fuga di Napoleone dal confino, che lo riporta a Parigi il 20 marzo 1815.

 

È proprio durante la marcia di Bonaparte verso la capitale che riprende vigore il progetto di Murat, il quale torna ufficialmente dalla parte dei Francesi, dichiarando dunque guerra all’Austria che intanto minaccia il Nord Italia. Gioacchino risale il Paese e coordina le operazioni dal suo nuovo quartier generale ad Ancona.

 

Insieme al suo Capo di Stato maggiore Millet de Villeneuve, redige un documento fondamentale per la storia d’Italia. È il 30 marzo 1815 e vede la luce il Proclama di Rimini, che ha l’obiettivo di incentivare gli Italiani a unirsi a una causa di libertà e di costruzione di una nazione.

 

Il Proclama si apre con la parola “Italiani”: destinatari del testo sono infatti i cittadini della penisola “dall’Alpi allo Stretto di Scilla”, in una visione quanto mai chiara e inclusiva di Italia, che il testo sottolinea essere definita da confini naturali.

 

Il documento sostiene che sia la Provvidenza a chiamarli tutti a uno sforzo per realizzare finalmente la propria indipendenza. Approfondisce il tema del glorioso passato dello stivale e della effettiva possibilità di una nuova era di grandezza che abbia inizio proprio con la liberazione da ogni oppressione: “Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni, e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni”.

 

Informa gli Italiani dello stato della situazione dell’esercito che intende battersi per la loro liberazione: si tratta di quarantamila uomini (diecimila in meno degli Austriaci dislocati in Italia) “comandati dal loro Re”, il quale porta avanti un “magnanimo disegno”. Chiede agli Italiani di unirsi a queste file per far sentire una “libera voce” che “parli in nome della patria a ogni petto veramente Italiano”.

 

Si spinge anche, come da buona tradizione francese, che accompagna a ogni svolta storica una revisione importante dell’impianto istituzionale, a immaginare una Costituzione: “Stringetevi in salda unione, e un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una Costituzione degna del secolo e di voi, garantisca la vostra libertà e prosperità interna, tosto che il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza”. Termina assegnando due attributi all’Italia, che è “felice” e “indipendente”.

 

È importante notare questo riferimento alla felicità, che era tornato molte volte nel contesto della Rivoluzione atlantica. Tuttavia, si tratta di un concetto che, seppur presente già negli auspici di Machiavelli sul futuro della penisola, non appartiene certo all’immaginario italiano: eppure ha senso in questo quadro, dal momento che, se il tentativo di Murat avesse avuto successo, l’Italia sarebbe stata per sempre legata a quella tradizione valoriale. L’intera stagione bonapartista è infatti figlia della Rivoluzione.

 

Non è un caso che il Re di Napoli si firmi nel Proclama Gioacchino Napoleone, rivendicando l’appartenenza alla famiglia imperiale che ha sviluppato una visione di Europa di cui secondo Murat l’Italia unita dovrebbe assolutamente far parte.

 

Questo accorato appello non sortisce però l’effetto sperato. I volontari che aderiscono al progetto non possono in alcun modo incidere sulle più ampie evoluzioni che interessano il continente. A Waterloo il 18 giugno 1815 Napoleone è sconfitto dalla settima coalizione delle potenze europee contro di lui, i cui protagonisti sono Regno Unito, Russia, Austria e Prussia. Il 23 giugno Napoleone abdica per la seconda volta e, sotto tutela degli Inglesi, viene condotto a Sant’Elena, proprio nel cuore di quell’oceano che aveva collegato le rivoluzioni di fine Settecento, dove, sei anni dopo, avranno fine i suoi giorni.

 

È ormai solo questione di tempo prima che anche il trono di Murat, a seguito del Congresso di Vienna, vada incontro alla restaurazione del precedente dominio dei Borbone. Tale passaggio a Ferdinando IV, al quale spetta la corona una volta venuta meno la linea di successione napoleonica, avverrà in modo repentino, con l’arresto di Gioacchino a Pizzo Calabro l’8 ottobre, dove era sbarcato con un piccolo contingente di soldati al fine di tentare la riconquista del Meridione.

 

Viene sottoposto a processo da parte di un tribunale militare, che non ha in realtà la competenza a giudicare un generale né tantomeno un Re che non ha abdicato e che quindi ha il diritto a un giudizio da parte dei suoi pari. A nulla vale la contestazione tentata da Murat, che viene così fucilato il 13 ottobre 1815, dopo aver chiesto e ottenuto di guidare lui stesso il plotone incaricato di eseguire la sentenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Bollati Giulio, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Giulio Einaudi Editore, Torino 1996.

D’Errico Sergio, L’importanza del Proclama di Rimini di Gioacchino Murat del 30 marzo 1815, in “Rivista di diritto e storia costituzionale del Risorgimento”, 2015.

De Lorenzo Renata, Murat, Salerno Editrice, Roma 2011.

Ellul Jacques, Histoire des Institutions, Presses Universitaires de France, Paris 1961 (trad. it. Storia delle istituzioni. L’età moderna e contemporanea: dal XVI al XIX secolo, Ugo Mursia Editore, Milano 1981).

Galasso Giuseppe, L’importanza fondamentale di Murat offuscata dal mito borbonico, in “Corriere del Mezzogiorno”, 25 maggio 2015.

Graziano Manlio, The Failure of Italian Nationhood. The Geopolitics of a Troubled Identity, Palgrave Macmillan, New York 2010.

Landon William J., Politics, Patriotism, and Language. Niccolò Machiavelli’s “Senior Patria” and the Creation of an Italian National Identity, Peter Lang Publishing, New York 2005.

Mieli Paolo, Murat, il re francese che avviò il Risorgimento, in “Corriere della sera”, 22 marzo 2011.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]