[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 207 / MARZO 2025 (CCXXXVIII)


moderna

Artisti dei fornelli
i "Masterchef" dei banchetti rinascimentali

di Massimo Manzo


In un immaginario “Masterchef” ambientato nel Rinascimento, sarebbero stati chiamati senza dubbio a svolgere il ruolo di giudici, e chissà come avrebbero trattato i piatti dei concorrenti. Oggi i loro nomi sono quasi sconosciuti al grande pubblico, eppure Martino de’ Rossi, Bartolomeo Scappi e Cristoforo Messisbugo furono degli acclamati “professionisti dei fornelli”, con un curriculum da far invidia ai più blasonati cuochi del Terzo Millennio.

 

Astri nascenti

 

Tra XV e XVI secolo, mentre i grandi artisti immortalavano papi, imperatori e grandi signori a colpi di pennello e scalpello, in cucina regnavano fuoriclasse in grado di mandare in estasi i loro palati, organizzando spettacolari banchetti con portate altamente ricercate. «Nel corso del Rinascimento cominciano a registrarsi cambiamenti notevoli nella posizione sociale dei cuochi», racconta Antonella Campanini, docente di Storia dell’Alimentazione all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. «Prima di allora, erano poco che semplici servi, ma le cose iniziarono a cambiare quando, nelle città, il ceto artigianale cominciò una piccola scalata sociale arrivando a ricoprire posizioni di rilievo».  Ad aprire la nuova stagione fu Maestro Martino, alias Martino de’ Rossi, della cui vita privata sappiamo peraltro pochissimo. Nato attorno al 1430 in un villaggio della Valle del Blenio, nel Ticino, iniziò la sua avventura nelle cucine del duca Francesco Sforza, dove si trasferì intorno al 1461 imbandendo le mense della corte meneghina. Ma è poco dopo che farà il salto di qualità, spostandosi a Roma e diventando il cuoco personale del cardinale Lodovico Trevisan (Camerlengo e patriarca di Aquileia) e di due papi, Paolo II e Sisto IV.

 

Principe dei cuochi

 

Il Trevisan era un rinomato ghiottone, e ciò permise a Martino di sbizzarrirsi ideando nuove ricette e iniziando l’opera che lo renderà famoso: il Libro de Arte Coquinaria. A “pubblicizzarne” i contenuti in tutta Europa ci penserà nel 1475 l’amico umanista Bartolomeo Sacchi (detto Platina), che nel volume gastronomico De honesta voluptate et valetudine trascriverà in latino ben 240 ricette del “Maestro”, definendolo il “principe dei cuochi”. «Innovando la tradizione medievale, Martino creò un ricettario in volgare pensato per un vasto pubblico, dove ritroviamo molte istruzioni pratiche su come preparare i piatti, a partire dalle dosi e dalle caratteristiche degli ingredienti», spiega l’esperta. Tra le altre cose, per indicare tempi di cottura comprensibili a tutti Martino ricorse a uno stratagemma geniale, invitando il lettore a recitare popolari preghiere una o più volte a seconda del tipo di preparazione. Il tempo di “doi paternostri”, e i ravioli in brodo erano cotti a puntino. Nei ricettari di Martino c’era di tutto: piatti di pesce, carne, verdure, uova e frutta elencati in ordine di portata e in base agli ingredienti. Qualche esempio? Capretto arrosto in sapore, “maccaroni” alla siciliana, torta di ciliegie, una miriade di arrosti di selvaggina e di “frictelle” (dal pesce alle erbe amare). E tra una bontà e l’altra, fanno capolino gli antenati della mostarda alla vicentina (con senape e uva passa), della finanziera alla piemontese (composta da frattaglie di pollo, vitello e manzo) e persino una nuova e fortunatissima parola: “polpetta”, usata però per descrivere un involtino di carne allo spiedo. Non bastasse, Martino anticipò una tendenza comune nel Rinascimento, cioè l’utilizzo dello zucchero. Le sue ricette avrebbero soddisfatto i palati più raffinati dell’epoca, eppure oggi alcuni dei suoi accostamenti, come le “lasagne de pelle de cappone”, sarebbero improponibili.

 

Il cuoco dei papi

 

Dopo aver servito la corte pontificia, verso il 1484 Martino si ritrovò a Milano alle dipendenze del militare Gian Giacomo Trivulzio, presso il quale concluse la carriera, ma la sua eredità fu raccolta dal più celebre chef del secolo successivo: Bartolomeo Scappi. Originario di Dumenza (Varese), dove nacque intorno al 1500, questi balzò agli onori delle cronache nel 1536, quando fu incaricato dal cardinale Lorenzo Campeggi di preparare un pranzo in onore dell’imperatore Carlo V, in visita a Roma. Dovendo fare a meno di carne, uova e formaggi (si era in periodo quaresimale e tali alimenti erano vietati), Scappi si sfogò proponendo verdure, frutta, dolci e decine di varietà di pesce, tra cui lucci, storioni, trote, triglie e alici, cucinate nei modi più diversi. Sempre nell’Urbe, Scappi servì il cardinale Rodolfo Pio da Carpi e nel 1549 sfamò con le sue raffinate portate i porporati riuniti per più di due mesi in conclave. Nel 1564 assurgerà quindi al rango di “cuoco segreto” (personale) di Pio IV, mantenendo la carica durante il pontificato del successore, Pio V. Accontentare i gusti di quest’ultimo, noto per l’estrema morigeratezza, non fu peraltro facile, tanto che Scappi dovette pensare una sorta di “dieta macrobiotica” ante litteram, composta da verdure e cibi leggeri. Alla fine della carriera (morirà nel 1577), mise nero su bianco la sua immensa esperienza ai fornelli redigendo l’Opera (1570), il più importante best seller gastronomico del Cinquecento. Si tratta di uno scritto con più di mille ricette, un’infinità di consigli (dall’igiene dei locali alla conservazione delle vivande) e moltissime immagini, che lo rendono un antesignano dei moderni manuali illustrati di cucina. Nell’Opera, Scappi ci ha tra l’altro lasciato innovazioni culinarie non da poco, come la sigillatura della carne prima della cottura, l’infarinatura e l’impanatura.
 
Maestri di cerimonie
 
Se Maestro Martino e Bartolomeo Scappi furono chef “stellati” insuperabili, quando si trattava di organizzare un banchetto memorabile nessuno poteva competere con Cristoforo Messisbugo. Di origini fiamminghe, operò come scalco presso il duca Alfonso I d’Este di Ferrara nella prima metà del XVI secolo, scrivendo una “guida” dettagliatissima
comprendente ricette e consigli pratici per organizzare pranzi perfetti. Intitolata Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale, tale opera fu pubblicata nel 1549 (un anno dopo la morte dell’autore), consacrandolo ai posteri. «Dopo aver viaggiato nei principali paesi europei, tornando a Ferrara Messisbugo aveva dato vita a una forma assai elaborata di banchetto, dove le varie portate fondevano i gusti spagnoli, tedeschi e francesi con le usanze e tradizioni ferraresi», scrive Pierluigi Ridolfi nel libro Cucina Rinascimentale (Donzelli). «In cucina la sua gratificazione stava nell’inventare nuovi piatti, come i gamberi con le pesche, ma abbandonò presto i fornelli per occuparsi di tutto quello che riguardava l’organizzazione delle cerimonie, preferendo coordinare il lavoro degli altri». Alfonso inviò spesso Messisbugo in missioni diplomatiche per suo conto, e in una di queste le doti dello scalco colpirono a tal punto Carlo V da spingerlo a concedergli il prestigioso titolo di “conte palatino”. Il suo capolavoro, tuttavia, rimane la realizzazione del banchetto in onore dei novelli sposi Ercole II (figlio di Alfonso) e Renata di Francia, tenutosi a Ferrara il 24 gennaio 1529. Per soddisfare la vanità di Alfonso, Messisbugo imbastì una tavola lunga 40 metri con tanto di sculture di zucchero raffiguranti le mitiche fatiche di Ercole, travolgendo i 104 invitati con una lunghissima sequela di portate, incluse innumerevoli varietà di pesce e selvaggina, ostriche, formaggi, gelatine, dolci e frutta. Gli ospiti furono allietati da musiche, danze e spettacoli teatrali, compresa la prima di una commedia di Ludovico Ariosto, la Cassaria. Il risultato fu un trionfo entrato nella Storia a cui seguirono, nei decenni successivi, feste altrettanto ricche organizzate dall’allievo ed erede di Messisbugo, Giovanni Battista Rossetti, autore del trattato Dello Scalco (1584), “nel quale si contengono qualità di uno Scalco perfetto”. È proprio Rossetti uno dei primi a menzionare gli antenati dei cappellacci di zucca (piatto tipico di Ferrara), guadagnandosi anche lui un posto speciale nell’olimpo dei masterchef, figli di un’epoca in cui l’arte la faceva da padrone, anche in cucina.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]