Artisti dei fornelli
i "Masterchef" dei banchetti
rinascimentali
di Massimo
Manzo
In un immaginario “Masterchef”
ambientato nel Rinascimento,
sarebbero stati chiamati senza
dubbio a svolgere il ruolo di
giudici, e chissà come avrebbero
trattato i piatti dei concorrenti.
Oggi i loro nomi sono quasi
sconosciuti al grande pubblico,
eppure Martino de’ Rossi, Bartolomeo
Scappi e Cristoforo Messisbugo
furono degli acclamati
“professionisti dei fornelli”, con
un curriculum da far invidia ai più
blasonati cuochi del Terzo
Millennio.
Astri nascenti
Tra XV e XVI secolo, mentre i grandi
artisti immortalavano papi,
imperatori e grandi signori a colpi
di pennello e scalpello, in cucina
regnavano fuoriclasse in grado di
mandare in estasi i loro palati,
organizzando spettacolari banchetti
con portate altamente ricercate.
«Nel corso del Rinascimento
cominciano a registrarsi cambiamenti
notevoli nella posizione sociale dei
cuochi», racconta Antonella
Campanini, docente di Storia
dell’Alimentazione all’Università di
Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
«Prima di allora, erano poco che
semplici servi, ma le cose
iniziarono a cambiare quando, nelle
città, il ceto artigianale cominciò
una piccola scalata sociale
arrivando a ricoprire posizioni di
rilievo». Ad aprire la nuova
stagione fu Maestro Martino, alias
Martino de’ Rossi, della cui vita
privata sappiamo peraltro
pochissimo. Nato attorno al 1430 in
un villaggio della Valle del Blenio,
nel Ticino, iniziò la sua avventura
nelle cucine del duca Francesco
Sforza, dove si trasferì intorno al
1461 imbandendo le mense della corte
meneghina. Ma è poco dopo che farà
il salto di qualità, spostandosi a
Roma e diventando il cuoco personale
del cardinale Lodovico Trevisan
(Camerlengo e patriarca di Aquileia)
e di due papi, Paolo II e Sisto IV.
Principe dei cuochi
Il Trevisan era un rinomato
ghiottone, e ciò permise a Martino
di sbizzarrirsi ideando nuove
ricette e iniziando l’opera che lo
renderà famoso: il Libro de Arte
Coquinaria. A “pubblicizzarne” i
contenuti in tutta Europa ci penserà
nel 1475 l’amico umanista Bartolomeo
Sacchi (detto Platina), che nel
volume gastronomico De honesta
voluptate et valetudine trascriverà
in latino ben 240 ricette del
“Maestro”, definendolo il “principe
dei cuochi”. «Innovando la
tradizione medievale, Martino creò
un ricettario in volgare pensato per
un vasto pubblico, dove ritroviamo
molte istruzioni pratiche su come
preparare i piatti, a partire dalle
dosi e dalle caratteristiche degli
ingredienti», spiega l’esperta. Tra
le altre cose, per indicare tempi di
cottura comprensibili a tutti
Martino ricorse a uno stratagemma
geniale, invitando il lettore a
recitare popolari preghiere una o
più volte a seconda del tipo di
preparazione. Il tempo di “doi
paternostri”, e i ravioli in
brodo erano cotti a puntino. Nei
ricettari di Martino c’era di tutto:
piatti di pesce, carne, verdure,
uova e frutta elencati in ordine di
portata e in base agli ingredienti.
Qualche esempio? Capretto arrosto in
sapore, “maccaroni” alla siciliana,
torta di ciliegie, una miriade di
arrosti di selvaggina e di
“frictelle” (dal pesce alle erbe
amare). E tra una bontà e l’altra,
fanno capolino gli antenati della
mostarda alla vicentina (con senape
e uva passa), della finanziera alla
piemontese (composta da frattaglie
di pollo, vitello e manzo) e persino
una nuova e fortunatissima parola:
“polpetta”, usata però per
descrivere un involtino di carne
allo spiedo. Non bastasse, Martino
anticipò una tendenza comune nel
Rinascimento, cioè l’utilizzo dello
zucchero. Le sue ricette avrebbero
soddisfatto i palati più raffinati
dell’epoca, eppure oggi alcuni dei
suoi accostamenti, come le “lasagne
de pelle de cappone”, sarebbero
improponibili.
Il cuoco dei papi
Dopo aver servito la corte
pontificia, verso il 1484 Martino si
ritrovò a Milano alle dipendenze del
militare Gian Giacomo Trivulzio,
presso il quale concluse la
carriera, ma la sua eredità fu
raccolta dal più celebre chef del
secolo successivo: Bartolomeo Scappi.
Originario di Dumenza (Varese), dove
nacque intorno al 1500, questi balzò
agli onori delle cronache nel 1536,
quando fu incaricato dal cardinale
Lorenzo Campeggi di preparare un
pranzo in onore dell’imperatore
Carlo V, in visita a Roma. Dovendo
fare a meno di carne, uova e
formaggi (si era in periodo
quaresimale e tali alimenti erano
vietati), Scappi si sfogò proponendo
verdure, frutta, dolci e decine di
varietà di pesce, tra cui lucci,
storioni, trote, triglie e alici,
cucinate nei modi più diversi.
Sempre nell’Urbe, Scappi servì il
cardinale Rodolfo Pio da Carpi e nel
1549 sfamò con le sue raffinate
portate i porporati riuniti per più
di due mesi in conclave. Nel 1564
assurgerà quindi al rango di “cuoco
segreto” (personale) di Pio IV,
mantenendo la carica durante il
pontificato del successore, Pio V.
Accontentare i gusti di
quest’ultimo, noto per l’estrema
morigeratezza, non fu peraltro
facile, tanto che Scappi dovette
pensare una sorta di “dieta
macrobiotica” ante litteram,
composta da verdure e cibi leggeri.
Alla fine della carriera (morirà nel
1577), mise nero su bianco la sua
immensa esperienza ai fornelli
redigendo l’Opera (1570), il
più importante best seller
gastronomico del Cinquecento. Si
tratta di uno scritto con più di
mille ricette, un’infinità di
consigli (dall’igiene dei locali
alla conservazione delle vivande) e
moltissime immagini, che lo rendono
un antesignano dei moderni manuali
illustrati di cucina. Nell’Opera,
Scappi ci ha tra l’altro lasciato
innovazioni culinarie non da poco,
come la sigillatura della carne
prima della cottura, l’infarinatura
e l’impanatura.
Maestri di cerimonie
Se Maestro Martino e Bartolomeo
Scappi furono chef “stellati”
insuperabili, quando si trattava di
organizzare un banchetto memorabile
nessuno poteva competere con
Cristoforo Messisbugo. Di origini
fiamminghe, operò come scalco presso
il duca Alfonso I d’Este di Ferrara
nella prima metà del XVI secolo,
scrivendo una “guida”
dettagliatissima
comprendente ricette e consigli
pratici per organizzare pranzi
perfetti. Intitolata
Banchetti compositioni di vivande,
et apparecchio generale, tale
opera fu pubblicata nel 1549 (un
anno dopo la morte dell’autore),
consacrandolo ai posteri. «Dopo aver
viaggiato nei principali paesi
europei, tornando a Ferrara
Messisbugo aveva dato vita a una
forma assai elaborata di banchetto,
dove le varie portate fondevano i
gusti spagnoli, tedeschi e francesi
con le usanze e tradizioni
ferraresi», scrive Pierluigi Ridolfi
nel libro Cucina Rinascimentale
(Donzelli). «In cucina la sua
gratificazione stava nell’inventare
nuovi piatti, come i gamberi con le
pesche, ma abbandonò presto i
fornelli per occuparsi di tutto
quello che riguardava
l’organizzazione delle cerimonie,
preferendo coordinare il lavoro
degli altri». Alfonso inviò spesso
Messisbugo in missioni diplomatiche
per suo conto, e in una di queste le
doti dello scalco colpirono a tal
punto Carlo V da spingerlo a
concedergli il prestigioso titolo di
“conte palatino”. Il suo capolavoro,
tuttavia, rimane la realizzazione
del banchetto in onore dei novelli
sposi Ercole II (figlio di Alfonso)
e Renata di Francia, tenutosi a
Ferrara il 24 gennaio 1529. Per
soddisfare la vanità di Alfonso,
Messisbugo imbastì una tavola lunga
40 metri con tanto di sculture di
zucchero raffiguranti le mitiche
fatiche di Ercole, travolgendo i 104
invitati con una lunghissima sequela
di portate, incluse innumerevoli
varietà di pesce e selvaggina,
ostriche, formaggi, gelatine, dolci
e frutta. Gli ospiti furono
allietati da musiche, danze e
spettacoli teatrali, compresa la
prima di una commedia di Ludovico
Ariosto, la Cassaria. Il
risultato fu un trionfo entrato
nella Storia a cui seguirono, nei
decenni successivi, feste
altrettanto ricche organizzate
dall’allievo ed erede di Messisbugo,
Giovanni Battista Rossetti, autore
del trattato Dello Scalco
(1584), “nel quale si contengono
qualità di uno Scalco perfetto”.
È proprio Rossetti uno dei primi a
menzionare gli antenati dei
cappellacci di zucca (piatto tipico
di Ferrara), guadagnandosi anche lui
un posto speciale nell’olimpo dei
masterchef, figli di un’epoca in cui
l’arte la faceva da padrone, anche
in cucina.