N. 52 - Aprile 2012
(LXXXIII)
ARTICOLo 18 E DELOCALIZZAZIONI
Realtà virtuale o vita reale?
di Giovanna D'Arbitrio
Talvolta
ascoltando
politici,
sindacalisti,
rappresentanti
di
Confindustria,
giornalisti
e
noti
opinionisti
che
discutono
animatamente
dell’articolo
18
in
varie
trasmissioni
televisive,
si
ha
l’impressione
di
gran
bailamme
e
confusa
bagarre
che
infiammano
gli
animi,
ma
non
fanno
riflettere
su
dati
realistici
ed
indiscutibili.
Sembrano
personaggi
di
una
realtà
virtuale,
lontani
dalla
gente
comune
che
ogni
giorno
deve
far
quadrare
il
bilancio
familiare
tra
mille
difficoltà.
Anche
il
denaro
sembra
essere
diventato
virtuale,
staccato
da
parametri
reali,
regolato
da
entità
astratte
come
Spread,
agenzie
di
rating
e
speculazioni
finanziarie
che
lo
fanno
sparire
e
ricomparire
qua
e là
condizionando
l’economia
reale.
E
allora
ci
si
chiede
come
mai
coloro
che
discutono
dell’articolo
18
non
si
siano
accorti
che
esso
è
ormai
già
superato
da
migliaia
di
quotidiani
licenziamenti,
da
fusioni
e
consequenziali
perdite
di
posti
di
lavoro,
da
flessibilità
e
mobilità
entrate
nel
sistema
da
diversi
anni
incrementando
precarietà,
disoccupazione
e
lavoro
nero.
L’aspetto
più
assurdo
della
faccenda
poi
è
che
si
parla
di
“rilancio
dell’economia”
senza
mai
affrontare
lo
spinoso
problema
delle
delocalizzazioni
alle
quali
si
accenna”
en
passant”
senza
affrontarne
veramente
tutte
le
drammatiche
conseguenze
sui
diritti
dei
lavoratori
occidentali,
diritti
conquistati
con
dure
lotte
nel
corso
di
un
paio
di
secoli.
È
vero
anche
i
sindacati
in
passato
hanno
sbagliato
non
discernendo
tra
lavoratori
seri
e
fannulloni,
proteggendo
spesso
tutti
indiscriminatamente,
ma
basterebbe
eliminare
tali
aspetti
negativi
senza
distruggere
un
sistema
che
garantisce
legalità
ed
equità
contro
eventuali
soprusi.
Così
invece
di
estendere
decenti
condizioni
di
lavoro
anche
ai
paesi
del
terzo
mondo
e a
quelli
emergenti,
si
attuano
piani
globalizzati
di
duplice
sfruttamento
sia
in
Occidente
che
nei
suddetti
paesi,
usando
minacce
ricattatorie
di
delocalizzazione
per
bloccare
le
giuste
proteste
dei
lavoratori,
in
particolare
di
quelli
che
vivono
nei
paesi
europei
più
deboli.
Vogliamo
tornare
indietro
di
due
secoli
quando
in
seguito
alla
Rivoluzione
Industriale
i
lavoratori
(tra
i
quali
si
annoveravano
perfino
bambini!)
erano
trattati
come
bestie?
È
esattamente
ciò
che
sta
accadendo
ora
nei
paesi
del
terzo
mondo
dove
non
esistono
sindacati,
dove
non
si
rispettano
regole
né
verso
le
persone
né
verso
l’ambiente,
con
palesi
violazioni
di
diritti
umani
e
tassi
d’inquinamento
così
elevati
da
incidere
pesantemente
anche
sul
clima.
Come
potremo
noi
europei
essere
“competitivi”
rispetto
a
Cina,
paesi
emergenti
e
paesi
del
terzo
mondo
nei
quali
tutto
è
permesso?
È
chiaro
che
non
ci
riusciremo
mai
se
non
si
imporranno
regole
condivise
a
livello
internazionale,
ma...
c’è
la
volontà
“globalizzata”
di
raggiungere
tale
traguardo?
No,a
quanto
pare.
È
giusto
combattere
per
l’articolo
18,
ammortizzatori
sociali
e
quant’altro,
ma a
cosa
servirà
tutto
ciò
se
poi
le
opportunità
di
lavoro
vengono
quotidianamente
spostate
altrove?
Una
volta
ci
si
sentiva
“sulla
stessa
barca”
poiché
i
problemi
venivano
gestiti
a
livello
nazionale,
ora
i
confini
si
sono
dilatati,
estesi
al
mondo,
una
barca
molto
più
grande
ma
in
realtà
“la
nostra
comune
barca”,
quella
di
tutti
gli
esseri
umani.
Ci
salveremo
collaborando
o
andremo
tutti
a
picco?