N. 19 - Dicembre 2006
ARTI MARZIALI E VIA SPIRITUALE
La ricerca del guerriero
di
Guru Shabad Singh Khalsa
Origine delle arti marziali
Possiamo convenzionalmente considerare come nascita delle
arti marziali il momento in cui l’uomo
ha sentito il bisogno di esercitarsi,
approfondire e trasmettere tecniche
atte alla difesa di se stesso, del
gruppo cui apparteneva e dei valori
(religiosi e civili) in cui credeva e
su cui fondava la propria esistenza.
Prima di questo momento, soltanto l’istinto di
sopravvivenza aveva dettato all’uomo
la maniera più opportuna per risolvere
situazioni difficili in cui la vita
stessa veniva minacciata.
Il passaggio dall’stinto di difesa alle arti marziali vere
e proprie fu dettato principalmente da
una presa di coscienza delle proprie
energie profonde e fondamentali della
natura umana: le capacità di creare,
di organizzare e di distruggere. La
simulazione di situazioni di
attacco e di difesa venne a
rappresentare simbolicamente l’eterno
conflitto delle dualità cosmiche e
divenne dunque una via di conoscenza
(delle leggi della vita medesima) e
una via di trascendenza che mirava al
superamento della dualità stessa nella
ricerca dell’unità superiore.
In ogni tradizione antica le arti marziali assunsero
significati che portavano il
praticante ben oltre il mero
apprendimento di tecniche e che gli
consentivano un’indagine completa del
sé: del corpo, della mente e dello
spirito. E anche ora, come allora, il
sincero studente di arti marziali
misura nella pratica i limiti delle
proprie capacità e li trasforma,
scende coscientemente nella profondità
del proprio essere scoprendo anche le
paure più nascoste e lasciando
emergere dall’inconscio sia la nobiltà
dell’Essere Spiritualmente Immortale,
sia la violenza che vi sta sepolta. Il
controllo delle forze aggressive
primordiali e l’esperienza della
dimensione spirituale lo porteranno al
distacco completo dalle passioni e
imparerà la fondamentale connessione
tra la vita e la morte, saprà uccidere
ed essere ucciso e su questa
conoscenza fonderà la sua sicurezza,
la sua invincibilità e la sua
immortalità.
Saprà sempre decidere se usare o non usare i propri poteri
perché egli è in condizione di
agire e non reagire,
controllando le emozioni, non
facendosi accecare dall’ira e non
colpendo per paura. E qualora
scegliesse di usare la sua forza e le
sue conoscenze per togliere la vita,
consapevole del rischio (o certezza)
di perdere la propria, lo farà in
piena coscienza, consapevole del
prezzo da pagare verso se stesso e i
suoi simili.
Connessione con lo Yoga: la morte
Nel processo di conoscenza di se stessi compiuto attraverso
la pratica delle arti marziali, il
confronto con la morte è sicuramente
uno dei momenti più importanti e
stimolanti.
In Occidente, soprattutto negli ultimi secoli, si è attuata
una evidente rimozione dell’idea di
morte, e non solo della morte fisica,
del culmine della vita, ma anche della
costante presenza della morte insita
nel principio stesso di cambiamento e
trasformazione.
Le arti marziali e le cosiddette vie spirituali hanno in
comune la non rimozione del confronto
con la morte. Questo rapporto è
giocato principalmente nell’assedio
costante portato attraverso la
disciplina dell’ego che contiene e
nasconde tutte le nostre paure.
Yogi Bhajan diceva che chi ha paura della morte ha
paura della vita e di certo la paura
della morte è l’ostacolo più grande
per chi pratica arti marziali. Questa
paura si rende manifesta come
rigidità, paralisi, perdita di
controllo, si può rimanere gelati dal
terrore o si può venire presi dal
panico e reagire ciecamente e
irrazionalmente.
Alle stesso modo anche nelle vie spirituali è richiesta la
capacità di confrontarsi costantemente
con la propria morte, raggiungere la
consapevolezza che si ha a
disposizione un tempo limitato per
eliminare meschinità e autoindulgenze
dalla propria vita e per dedicarsi
alla piena realizzazione dell’essere.
La morte è la grande modificatrice della vita, dà la
garanzia che le cose non rimarranno
statiche e stagnanti, impedendo
l’ancorarsi su forme, pensieri e
sentimenti passati, rende possibile la
nostra continua rinascita e
resurrezione.
Occorre quindi distinguere le arti marziali dalla lotta
comune, così come lo yoga dalla
ginnastica, per l’intrinseco rapporto
vivificante con la morte che porta in
sé il potere di trasformare
radicalmente l’intero essere dello
studente.
Purtroppo questo viene spesso dimenticato sia
nell’insegnamento delle arti marziali
che dello yoga, riducendo così queste
discipline a specie di caricature di
se stesse, che, svuotate del loro
reale significato, non portano
all’emancipazione totale dell’essere
umano, fine ultimo sia dello yoga che
delle arti marziali.
Degenerazione delle arti marziali
Avendo definito la meditazione sulla morte come punto di
contatto tra arti marziali e Via
spirituale, potremmo individuare
l’inizio del processo di degenerazione
delle arti marziali proprio nella
rimozione del concetto di morte.
Questa rimozione ha causato una
perdita del valore di trascendenza
delle discipline marziali e ha
sviluppato una sorta di ipocrita
pudore nel confrontarsi con la
dimensione spirituale.
Volenti o nolenti, esiste una chiara paura di compiere la
consapevole discesa in noi stessi
coltivando l’illusoria speranza che
basti ignorare gli aspetti più
profondi e di difficile comprensione
della vita per risolverli e che basti
nascondere gli aspetti meno piacevoli
della nostra personalità per
cancellarli, dimenticando che per
dominare se stessi non si può
prescindere dal conoscere se stessi.
Le arti marziali si sono trasformate, soprattutto in
Occidente, o in semplici sports, o in
pratiche virtualmente inutili per
quanto riguarda la ricerca della Via e
della Verità dell’uomo. La perdita del
rapporto con i valori ultimi della
vita porta al diffondersi nella nostra
società di fenomeni tipo “giustizieri
della notte”, “ultras”, ecc.
Tutto questo è fondamentalmente frutto della rimozione del
rapporto con la nostra morte, che
alimenta le false dualità del tutto
buono-tutto cattivo, tutto
bianco-tutto nero, ecc.
allontanandoci dalla verità
fondamentale che Tutto è Uno.
Anche nelle palestre questa dualità, per personale
responsabilità degli insegnanti, viene
alimentata portando allo svilupparsi
di stereotipi modello “Rambo”. Il vero
compito degli insegnanti di arti
marziali, invece, dovrebbe essere
rivolto al superamento della dualità
portando l‘allievo alla comprensione
che la ricerca dell’unità è il vero
fine della vita umana.
L’assenza di meditazione sulla morte è assenza di
meditazione sulla vita e le pratiche
marziali, private della loro essenza
spirituale, vengono ad assumere la
stessa funzione della violenza
visibile al cinema o in televisione
che esorcizza con la costante
ripetizione di scene di morte
stereotipate, su vasta scala e in
circostanze orribili, la realtà della
nostra morte personale.
Il metodo di addestramento
Nelle arti marziali, il sistema didattico è basato
principalmente su Kata e
Randori, termini giapponesi che
indicano rispettivamente forma
e combattimento.
L’alternanza di Kata e Randori permette all’allievo di
studiare
la Tecnica nella forma e quindi
sperimentarla in combattimento per poi
tornare a verificarne il modello, e
così via, affinando sempre più la
padronanza della Tecnica stessa.
Potremmo definire il Kata come una sequenza composta di
gesti formalizzati e codificati che
fungono da mezzo alla cui base sta uno
stato di spirito orientato alla
realizzazione della Via.
Nell’insegnamento di tutte le arti marziali si dedica
grande attenzione al dettaglio della
posizione e del gesto. Questo non
tanto perché si voglia raggiungere la
perfezione in una tecnica precisa, ma
piuttosto perché la correzione del
maestro dice all’allievo: “…se il tuo
spirito fosse nello stato giusto,
questo si manifesterebbe nel tuo
movimento, che dovrebbe essere fatto
così”. Una correzione po’ indicare che
il bersaglio è mancato anche se la
forma esterna è apparentemente
corretta.
Allo stesso modo nel Kundalini Yoga i Kriya (serie
di esercizi miranti ad un fine
preciso), con le loro esatte
indicazioni su posizione, movimento,
respiro e fuoco mentale, agiscono come
amplificatori per alcune forme di
energia che possono essere così
comunicate attraverso il tempo oltre
che attraverso lo spazio. E’ quindi
molto importante che un Kriya o un
Kata vengano ripetuti esattamente così
come sono stato originariamente
insegnati.
Il processo di apprendimento, in generale, di tutte le arti
marziali, viene canonizzato, per
quanto riguarda la forma, attraverso
tre passaggi:
1) Apprendere il Kata alla perfezione;
2) Liberarsi dallo sforzo di apprendere il Kata;
3) Allontanarsi dal Kata.
Questo preciso itinerario evolutivo, nell’antichità era
facilitato dal fatto che non si
praticava mai un’arte marziale per
volta. Praticando, infatti,
distintamente ma contemporaneamente
più arti marziali, l’allievo ha la
possibilità di esercitare una maggiore
critica sulle proprie tecniche in
quanto può osservarsi sotto più
angolazioni. Questo lavoro parallelo
dovrebbe essere fatto però senza mai
confondere le discipline (do,
dharma) che dovrebbero essere
studiate distintamente per non portare
confusione nella mente dell’allievo.
Il combattimento è l’altra colonna portante del metodo di
insegnamento delle arti marziali e
possiamo distinguerne due tipi
principali: quello convenzionale
e quello libero.
Nel combattimento convenzionale si esige (come d’altronde
in quello libero) un costante
controllo dei colpi poiché l’attacco
deve essere bloccato fra 0 e
3 cm. e tuttavia deve essere praticato
con estrema decisione. Gli attacchi,
le parate, e i contrattacchi possono
combinarsi in predeterminati o liberi,
ma devono essere portati sempre con
tensione fortissima per mezzo della
quale ci si sforza di avvicinarsi alla
situazione reale esercitando, nel
padroneggiare la distanza,
l’intervallo di tempo, l’integrazione
delle cadenze.
Nel combattimento libero tradizionale, gli avversari
lavorano sempre controllando gli
attacchi, ma sono liberi di variare
sulla totalità delle tecniche pur
restando nel rispetto di certe
convenzioni poiché non si tratta di
combattimento reale. Perciò non solo
si devono controllare i propri
attacchi, ma anche ravvisare la
potenziale efficacia dei colpi
controllati dall’avversario. Questo
fatto restringe il combattimento
libero tradizionale a praticanti di
livello sufficientemente elevato.
Potremmo paragonare il combattimento (non reale) nelle arti
marziali a dinamiche interpersonali
che si sviluppano in un gruppo che
pratica una Via spirituale e che,
involontariamente o dichiaratamente
attivate, vengono usate
dall’insegnante per far sì che il
singolo ed il gruppo possano
arricchirsi nel confronto.
Dice Yogi Bhajan che per passare dall’ego finito all’ego
infinito bisogna necessariamente
passare per l’ego di gruppo, cioè è
indispensabile “cuocere nel brodo
dell’ego di gruppo”.
Il lavoro che il gruppo produce è preso a pretesto per
allenarsi in un continuo
combattimento, per accrescere la
consapevolezza di se stessi. Gli
attriti e le gioie grandi e piccole
che si dispiegano in una dinamica di
gruppo o di coppia sono sistemi palesi
attraverso i quali ridimensionare il
nostro ego su valori reali e acquisire
intimamente, e quindi anche nella
quotidianità dei più piccoli
dettagli,la centralità dello Spirito,
sia in sé che in tutto.
“Mantenere lo Spirito al centro”, abitudine che si
acquisisce combattendo (nelle arti
marziali come nella “Vita
spirituale”), significa quindi
mantenere un equilibrio soggiacente
alla coscienza che guida, senza
tramiti, i movimenti del corpo e della
mente.
Conclusione
Per comprendere correttamente le arti marziali è necessario
quindi tener conto degli aspetti
psicologici e spirituali non meno che
di quelli tecnici. Soprattutto, è di
estrema importanza capire come
un’attività fisica collegata al campo
sportivo, come il pugilato o la lotta,
possa giungere ad affrontare argomenti
quali la trasformazione
psico-spirituale e la comprensione
della natura della realtà.
E’ auspicabile che l’aspetto tecnico, quello sportivo e
quello spirituale si compenetrino in
modo equilibrato, così da poter
esprimere una pratica finalizzata al
benessere di corpo, mente e anima.
E’ questa la base per poter sperimentare e ritrasmettere
alla società contemporanea i valori
essenziali del “Budo”, del “Khalsa”,
della “Cavalleria” senza cadere in
retorici anacronismi.
Questa opera di ritrasmissione iniziatica è sempre stata
portata avanti, ed anche nei periodi
più bui della storia dell’uomo il
sottile filo aurico che unisce i
Ricercatori del Sé, attraverso Tempo e
Spazio, non è mai stato interrotto.
Se è valido definire il “guerriero” come colui che ricerca
l’Ordine Supremo nel caos della vita,
allora nostro compito è quello di
lavorare per definire, in noi stessi e
nelle generazioni future, usando
antiche e moderne tecnologie e idonei
strumenti scientifici, i contorni di
questa figura di guerriero.
Un guerriero di se stesso, un guerriero al servizio dei più
deboli, consapevole, come si espresse
un giorno il Maestro Uyeshiba: “…che
la fonte di tutto è l’amore di Dio,
Spirito di amorosa protezione di tutti
gli Esseri…” |