N. 45 - Settembre 2011
(LXXVI)
DE ARTE VENANDI CUM AVIBUS
FEDERICO II E LA FALCONERIA
di Richard Caly
Federico II di Svevia rimane una delle figure più complesse e importanti del Medioevo. Oltre a essere un sovrano potentissimo, lo svevo è noto anche per essere stato un brillante studioso e un generoso mecenate, tanto da aver accolto e protetto nella corte di Palermo le maggiori intelligenze dell’epoca.
L’unica
opera
scritta
di
suo
pugno
giunta
sino
a
noi,
rimasta
incompleta
a
causa
della
sua
morte
nel
1250,
è il
trattato
de
arte
venandi
cum
avibus.
Dal
titolo
lo
scritto
sembrerebbe
un
semplice
manuale
di
Falconeria,
arte
praticata
con
grande
passione
da
Federico
sulla
scorta
della
tradizione
della
nobiltà
araba
e
della
corte
normanna
di
Sicilia.
In
realtà,
rispetto
ai
numerosi
trattati
diffusi
all’epoca
sull’argomento,
essa
assume
il
valore
di
un
vero
e
proprio
unicum
del
genere,
sia
per
le
innovazioni
introdotte
nella
codificazione
delle
regole
della
falconeria
medievale,
sia
per
l’ampiezza
e
ricchezza
degli
argomenti
sviluppati,
che
lo
rendono
un’opera
scientifico-filosofica
di
altissima
qualità.
Come
tutti
i
nobili
dell’epoca,
anche
Federico
fu
da
giovane
iniziato
alla
pratica
venatoria,
che
includeva
la
falconeria
nelle
sue
varie
forme.
A
differenza
degli
altri
tipi
di
caccie
reali
diffuse
nei
secoli,
in
cui
l’elemento
essenziale
era
la
dimostrazione
della
forza
fisica
e
del
coraggio,
il
giovane
re
svevo
sembrò
prediligere
questo
tipo
di
venatio
in
quanto
gli
permetteva
di
mettere
in
luce
astuzia
e
destrezza,
qualità
imprescindibili
del
sovrano
ideale
di
cui
egli
stesso
voleva
essere
l’incarnazione.
In
questo
senso
l’abilità
nella
falconeria
diviene
per
il
re
un
modo
per
mostrare
la
capacità
di
gestire
la
complessa
e
bizantina
politica
del
regno
più
che
il
semplice
coraggio
in
guerra.
Oltre
a
ciò,
esiste
anche
una
volontà
squisitamente
scientifica
di
Federico,
volta
a
codificare
in
modo
definitivo
un’attività
che
fino
ad
allora
era
stata
praticata
in
modi
diversissimi
a
seconda
delle
aree
geografiche
e
delle
corti
in
cui
era
diffusa.
In
particolare,
nel
corso
del
dodicesimo
secolo
divennero
celebri
una
serie
di
scritti
sull’argomento,
come
il
Guillelmus
falconarius
e il
Dancus
rex.
Proprio
questi
trattati,
ritenuti
lacunosi
dal
sovrano,
furono
il
punto
di
partenza
per
la
compilazione
del
de
arte
venandi,
che
si
proponeva
di
raccoglierne
le
nozioni
integrandole
in
un’unica
ed
esaustiva
trattazione.
Il
manoscritto
fu
ripreso
e
completato
in
due
diverse
versioni:
la
più
nota
commissionata
da
Manfredi,
l’altra
da
Enzio
(entrambi
figli
del
sovrano).
Dopo
la
morte
dell’imperatore
l’opera
ebbe
vita
travagliata,
tanto
da
viaggiare
per
mezza
Europa.
La
versione
di
Manfredi,
più
lunga
e
raffinata,
cadde
in
mano
agli
angioini
durante
la
sanguinosa
guerra
in
cui
scivolò
il
regno
negli
anni
successivi
al
1260,
dove
fu
tradotta
in
francese.
Finì
poi
in
Germania
alla
fine
del
‘500,
dove
fu
ristampata,
e
infine
nelle
mani
di
Papa
Gregorio
XV
all’inizio
del
secolo
successivo.
Ancora
oggi,
l’originale
è
conservato
nella
biblioteca
vaticana.
Databile
intorno
al
1260
e
arricchito
con
numerose,
raffinate
miniature,
il
de
arte
venandi
risulta
diviso
in
sei
libri.
In
particolare,
il I
libro
assume
la
valenza
di
un
vero
e
proprio
manuale
di
ornitologia,
nel
quale
Federico
racchiude
un
grandissimo
numero
di
specie,
raggruppandole
in
varie
categorie
a
seconda
delle
loro
caratteristiche
e
del
loro
habitat.
Notevole
è
l’attenzione
scientifica
con
la
quale
l’imperatore
analizza
le
particolarità
morfologiche
dei
volatili,
cercando
di
illustrare
gli
organi
e le
relative
funzioni
nel
corpo
degli
animali.
Una
ulteriore
peculiarità
è la
descrizione
delle
migrazioni,
della
nidificazione
e in
genere
delle
abitudini
che
distinguono
le
specie
tra
loro.
Nel
complesso,
la
prima
parte
del
trattato
è
per
Federico
una
premessa
imprescindibile
per
entrare
nel
vivo
della
falconeria:
se
non
si è
educati
alla
conoscenza
approfondita
dei
volatili,
non
si
potrà
mai
nemmeno
sperare
di
diventare
falconieri.
I
restanti
cinque
libri
sono
dedicati
in
modo
più
specifico
alla
pratica
in
questione,
che
viene
trattata
in
tutti
i
suoi
aspetti:
dalla
cattura
dei
rapaci
al
loro
addestramento,
fino
ai
diversi
tipi
di
caccia
col
falcone.
Dalla
lunghezza
e
ricchezza
di
informazioni
presenti
nel
de
arte
venandi,
notiamo
l’estrema
complessità
della
falconeria
nelle
sue
mille
declinazioni.
Ogni
specie
di
rapace
ha
un
carattere
differente;
preda
in
modo
diverso
e di
conseguenza
si
adatta
meglio
a
certi
tipi
di
selvaggina
piuttosto
che
ad
altri;
ha
bisogno
di
un
addestramento
attento
e
continuo
per
svolgere
al
meglio
la
sua
funzione
ed
entrare
così
in
perfetta
sintonia
col
padrone.
Non
mancano
poi
importanti
nozioni
relative
all’addestramento
dei
cani,
da
sempre
compagni
inseparabili
delle
escursioni
venatorie
aristocratiche.
Anche
lo
stile
del
libro
è
innovativo:
compilato
in
un
brillante
latino,
il
de
arte
venandi
contiene
persino
dei
neologismi,
con
cui
Federico
riesce
a
spiegare
meglio
concetti
tecnici
che
non
trovano
ancora
una
loro
espressione
linguistica.
Se
osservato
complessivamente,
il
manoscritto
ha
quindi
un’autentica
vocazione
enciclopedica,
che
lo
ha
reso
senza
dubbio
una
delle
opere
più
famose
dell’intero
periodo
medievale.
In
fondo,
in
essa
è
rispecchiato
alla
perfezione
il
modo
di
pensare
e di
agire
del
suo
autore,
non
a
caso
definito
dai
suoi
contemporanei
e
dai
posteri
stupor
mundi.