N. 147 - Marzo 2020
(CLXXVIII)
CORONAVIRUS
E
SURREALISMO
corrispondenze
dell’arte
nella
quarantena
di
Giuseppe
Junior
De
Vita
In
questo
clima
di
emergenza
sanitaria,
ove
l’intero
paese
è
costretto
per
il
bene
dell’umanità,
a
seguire
pedissequamente
le
norme
di
profilassi
dettate
dai
provvedimenti
del
Governo,
la
mente
di
tutti
noi
diventa
l’unico
strumento
per
aprire
uno
squarcio
nello
spazio
domestico
che
ci
reclude.
La
percezione
della
realtà
giorno
dopo
giorno
sembra
modificarsi,
udiamo
il
boato
del
dubbio
sugli
sviluppi
futuri
del
virus
e
avvertiamo
il
tormento
per
il
futuro
dell’economia
mondiale,
mentre
ascoltiamo
l’infinito
eco
delle
raccomandazioni
del
Ministero
della
Salute,
e le
informazioni
divulgate
dai
media
sull’inarrestabile
potere
letale
della
pandemia.
Sentiamo
il
peso
della
mutazione,
l’enorme
difficoltà
nel
modificare
le
nostre
abitudini
e la
complessità
nel
mettere
a
fuoco
degli
scenari
inediti
in
continuo
cambiamento,
lo
straniamento
di
fronte
al
deserto
della
città,
le
silenziose
prospettive
urbane,
mi
ricordano
la
fotografia
di
Gabriele
Basilico.
Così
come
i
colori
caldi
e le
atmosfere
spente
dei
nostri
monumenti
e
degli
spazi
rappresentativi
del
paese
rievocano
le
pitture
di
Giorgio
De
Chirico.
Le
piazze
e le
strade
inanimate,
vuoti
alienanti
che
si
espandono
senza
limiti,
spazzando
via
all’interno
dei
contenitori
domestici
i
corpi
increduli
di
noi
tutti,
e
lasciando
fuori
le
grevi
scene,
che
stiamo
imparando
ad
accettare,
riconducibili
all’immobile
inquietudine
delle
rappresentazioni
di
Mario
Sironi.
Al
dramma
dell’assenza,
causata
dall’insopportabile
quiete
del
mondo,
una
stasi
imposta
dallo
Stato,
dal
mondo
e
dal
buon
senso,
un
forzato
isolamento
civico
a
tempo
indeterminato,
che
rallenta
le
ore
a
causa
dell’affanno
dei
minuti,
fino
a
sciogliere
davanti
i
nostri
occhi
il
tempo
come
gli
orologi
di
Salvador
Dalì
che
flaccidi
soccombono
alla
forza
di
gravità.
Tutta
la
materia
sembra
soffrire
di
questo
senso
di
pesantezza,
lo
spazio
ci
appare
sempre
e
inesorabilmente
più
stretto,
le
cose
e
gli
oggetti
che
popolano
le
nostre
case
acquisiscono
un
significato
diverso
vissute
nelle
24
ore,
mutano
la
loro
espressione,
e
cambia
lo
stato
di
percezione
come
ci
insegna
Renè
Magritte.
Il
significato
della
monotonia
inizia
ad
affiorare
dalla
superficie
fredda
e
scorrevole
dei
nostri
telefoni
intelligenti,
e il
pensiero
si
dirige
inflessibile
verso
il
dinamismo
e la
frenesia
quotidiana
a
cui
eravamo
abituati,
e
che
ormai
non
sono
che
un
lontano
retaggio.
Viviamo
le
giornate
esanimi
davanti
ai
televisori,
assorbiti
dalle
nostre
poltrone
o
sprofondati
nei
divani,
con
lo
sguardo
smarrito
e la
mente
proiettata
all’incertezza
del
domani,
al
contenuto
del
nostro
frigorifero,
alla
capienza
dei
nostri
conti
in
banca,
alla
capacità
di
affrontare
questo
lungo
periodo
di
fermo
professionale,
all’estensione
di
questo
tenebroso
momento
per
la
costruzione
del
nostro
futuro,
alla
debolezza
dell’uomo
davanti
all’invisibile,
all’impalpabile
forza
spietata
del
virus.
Sdraiati
sui
salottini
imbottiti
dopo
aver
trascinato
le
nostre
pantofole
in
giro
per
la
casa,
neglettamente
abbigliati
e
con
il
viso
sciupato,
come
negli
scenari
ideati
da
Gregory
Crewdson.
Beviamo
ancora
un
sorso
di
quella
moka
che
abbiamo
riscoperto
avere
un
sapore
diverso
dall’espresso
del
bar,
guardiamo
la
dispensa
e
pensiamo
che
quei
biscotti
possano
avere
la
forza
di
disegnare
il
piacere,
un
piacere
che
sappiamo
essere
fugace,
ma
in
cui
confidiamo
tanta
speranza
per
assaporare
il
gusto
di
una
felicità
fallace.
Abbiamo
paura,
soffriamo
l’angoscia
e
temiamo
la
reazione
degli
altri,
non
abbiamo
più
il
controllo
delle
espressioni
del
viso
della
gente
che
incontriamo
nei
supermercati
o
nelle
farmacie,
sono
tutti
dissimulati
dalle
mascherine
e
dalle
sciarpe
avviluppate
sul
volto
per
filtrare
l’aria
contaminata,
ed
evitare
ad
ogni
modo
il
contagio,
come
le
bende
che
fasciano
i
volti
classici
ed
inespressivi
delle
opere
di
Mitoraj.
I
prossimi
giorni
non
saranno
semplici
da
affrontare,
non
sarà
semplice
accettare
l’idea
di
fare
ancora
una
volta
ciò
che
abbiamo
fatto
ieri,
il
mondo
in
cui
abbiamo
vissuto
fino
a
qualche
giorno
addietro
ha
fornito
scenari
mutevoli
e in
continua
evoluzione,
mai
arrestati
dinnanzi
a
nulla,
come
un
treno
in
corsa
verso
il
futuro
che
non
si
ferma
in
nessuna
stazione
e ci
propone
dei
paesaggi
sempre
nuovi,
un
nuovo
telefono,
più
sofisticato
della
versione
precedente,
una
nuova
auto,
un
nuovo
biscotto
più
buono
di
quello
della
nonna,
un
nuovo
lavoro,
un
nuovo
modo
di
affrontare
il
lavoro,
un
modo
forse
incomprensibile
per
le
generazioni
che
ci
hanno
preceduto
di
intendere
il
lavoro.
Se
il
mondo
si
ferma,
se
il
treno
dove
tutti
abbiamo
trovato
a
stento
un
posto,
fra
la
prima
e la
seconda
classe,
farà
una
fermata
piuttosto
lunga
in
questa
stazione,
come
reagiremo?
Quali
saranno
le
nostre
più
frequenti
riflessioni?
Cercheremo
una
risposta
sondando
fiduciosi
l’infinito
spazio
della
nostra
individualità
o
vagheremo
smarriti
alla
ricerca
di
instaurare
un’alternativa
forma
di
relazione
sociale?
La
nostra
società
possiede
le
fondamenta
culturali
per
poter
affrontare
con
razionalità
la
stratificazione
degli
eventi
che
si
avvicenderanno?
Quale
significato
acquisirà
la
ricerca
del
piacere?
Cosa
sarà
la
bellezza?
La
bellezza
sarà
riconosciuta
nell’impegno
dei
medici,
e di
tutti
gli
operatori
sanitari
che
incessantemente
lavorano
per
salvare
delle
vite
umane?
La
bellezza
sarà
nella
composizione
del
vaccino
contro
il
Covid-19,
una
composizione
chimica,
rappresentabile
graficamente
con
dei
pallini
e
delle
linee?
La
bellezza
sarà
in
una
azione
politica,
che
attraverso
provvedimenti
appropriati
saprà
fronteggiare
l’emergenza
sanitaria?
La
bellezza
sarà
nel
valore
perduto
di
un
abbraccio?
Il
senso
della
bellezza,
dopo
il
coronavirus,
avrà
una
dominante
connotazione
di
tensione,
metabolizzerà
scenari
di
angoscia
e
assorbirà
nel
quotidiano
il
metafisico.
Non
è
semplice
immaginare
ciò
che
soddisferà
la
nostra
esigenza
estetica
in
seguito
a
questo
dramma
planetario
e
come
l’arte
interpreterà
il
nostro
tempo,
oggi
possiamo
solo
rispondere
con
il
dubbio
lattiginoso
delle
opere
scultoree
di
Johnson
Tsang.