N. 12 - Maggio 2006
L'ARRESTO DI PROVENZANO
La fine della latitanza di Zu Binnu
di
Stefano De Luca
E’
finita in una masseria a due chilometri da Corleone
la latitanza – durata quasi mezzo secolo – di
Bernardo Provenzano, l’ex picciotto
che
“spara come un dio” diventato uno dei capi di Cosa
nostra
più
celebri della storia dell’Italia repubblicana.
Tutto cominciò il 18 settembre del 1963 quando Luciano
Liggio chiuse i conti con gli amici del dottor Michele
Navarra.
Una sparatoria dopo l'altra che vedono
Binnu nella parte dell’assassino senza scrupoli,
cinico e compiaciuto, che fredda con una pistolettata
alla testa i nemici che agonizzano feriti a terra.
E’ l’inizio dell’epopea di un personaggio che si era
guadagnato sul campo la sua rispettabilità, e che col
tempo si trasformò nel leader indiscusso di Cosa
nostra.
Provenzano raggiunse i vertici della cupola mafiosa
all'inizio degli anni Ottanta, dopo avere fatto
uccidere tutti i boss rivali.
Dal giorno in cui fu
arrestato per l'ultima volta, 17 settembre 1958, Binnu
ha fatto perdere le sue tracce per mezzo secolo, e
nessuna foto di lui è mai stata trovata, si avevano
solo identikit ricostruiti grazie ad ex mafiosi
diventati collaboratori di giustizia.
“Non sapete ciò che fate” – queste le prime parole
pronunciate dal superboss al momento dell’arresto – “voi
non immaginate che danno state combinando”.
Sinistro come si immaginava, la sua più che una
minaccia suona come un avvertimento, dato che la lotta
per la sua successione si preannuncia dura e
complessa.
Vestito in jeans, giubbotto blu ed una sciarpa bianca
attorno al collo, probabilmente per nascondere qualche
cicatrice, Provenzano è stato arrestato la mattina
seguente al voto politico del 10 aprile.
Sulla
scrivania della masseria sono state trovate cinque
bibbie, una foto di Padre Pio, un manuale di tecniche
investigative ed una macchina da scrivere modello
Brother con la quale elaborava i pizzini, i
suoi celebri foglietti scritti in codice coi quali
impartiva gli ordini alla rete mafiosa.
Michele Prestipino, magistrato Dda che ha
coordinato le indagini che hanno portato all’arresto
del boss, ha dichiarato di aver provato “una
sensazione indescrivibile per quello che Provenzano
rappresenta”, in quanto è lui “l’uomo che ha
voluto le stragi di Capaci e Via D’Amelio, che ha
ordinato i delitti più efferati ed ha guidato la più
forte e sanguinaria organizzazione criminale”.
Cinque anni di indagini concluse nel modo migliore,
grazie ad alcuni piccoli errori commessi dalla rete di Provenzano che hanno fatto capire agli investigatori
che la pista era quella giusta.
Un pastore abitava nella masseria, venditore di ricotta,
che puntualmente riceveva la visita di diversi uomini
– i così detti ambasciatori - che portavano a
Binnu di tutto, dal cibo ai vestiti, che andavano,
scaricavano merci e ripartivano.
Da due settimane la
polizia seguiva e registrava ogni movimento nella
masseria, ma la conferma che il boss fosse lì l’hanno
avuta il giorno prima, quando la porta si è aperta da
dentro, segno che il pastore non era da solo, ed i
cacciatori sono entrati in azione.
Immediatamente trasportato alla Procura di Palermo, è stato
accolto dalla folla al grido “bastardo, bastardo!”,
ed il suo volto è stato finalmente immortalato
dall’obiettivo di cameraman e fotografi, ed ha subito
fatto il giro del mondo.
Come un fantasma che si
materializza. Non si sono fatte attendere le
congratulazioni agli artefici dell’arresto, per primo
il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi
che ha formulato al telefono vivissime congratulazioni
al ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu, poi gli
esponenti del mondo politico di entrambi gli
schieramenti.
Con l’arresto di Bernardo zu Binnu Provenzano si
chiude una delle pagine più lunghe e intense di Cosa
nostra, ma come fa notare l’ex Procuratore di Palermo,
Giancarlo Caselli, “Cosa nostra non è solo
lui”.
L’arresto di Provenzano apre nuovi scenari. Chi sarà il suo
successore? Nessuno si illude che tagliata la testa il
fenomeno mafioso perda vigore, anche se è probabile
che gli ci vorrà del tempo per riorganizzarsi.
In tal
senso la Giustizia non deve abbassare la guardia. I
nomi più gettonati sono quelli di Salvatore Lo
Piccolo – sessantatre anni, latitante da ventitre
– e Matteo Messina Denaro – venti anni
più giovane e latitante da un decennio. La nuova sfida
è già cominciata.
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