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N. 134 - Febbraio 2019 (CLXV)

LA RICERCA DELLA FELICITÀ

L'OBIETTIVO POLITICO DEL XVIII SECOLO

di Marco Fossati

 

Nel giugno 1776 fu redatto il testo della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, approvato dal Congresso il 4 luglio sancendo la nascita ufficiale della nazione americana. Il documento è arcinoto soprattutto nei suoi passaggi iniziali: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali [...] che essi sono stati dotati dal loro creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti sono stati creati fra gli uomini i Governi».

 

Si afferma in pratica il principio di uguaglianza tra gli uomini e la presenza di diritti fondamentali, inoltre, la messa in pratica (la garanzia) di tali diritti spetta ai governi ovvero all'autorità. L'elemento originale di tali passaggi che dovrebbe interessare anche ai nostri giorni è l'inserimento tra i diritti inalienabili o fondamentali dell'uomo la “ricerca della Felicità; una ricerca che essendo teoricamente garantita dal governo apparterrebbe alla sfera politica.

 

“Stato di appagamento avvertito interiormente e derivante da un armonico rapporto dell'individuo con se stesso e con il mondo esterno”. Questa è grosso modo la definizione del termine felicità che ai nostri giorni potremmo leggere in un dizionario.

 

Un concetto legato all'aspetto individuale dell'uomo quindi piuttosto sfuggente. Quello che fa felice una persona, che l'appaga, non è detto che renda felice anche altri. Qual'è pertanto il legame con il governo di uno Stato quindi con la politica?

 

Il XVIII secolo è un'epoca di radicali cambiamenti; è stato spesso identificato come il secolo delle rivoluzioni. Infatti si può parlare di una rivoluzione scientifica, di una rivoluzione industriale e di una agraria che si concretizzano verso la metà del secolo mentre sul finire dello stesso, appaiono le grandi rivoluzioni politiche (americana e francese).

 

Tutto ciò comporta un drastico cambiamento a livello economico, sociale, politico e pure nell'immaginario e nella mentalità collettiva di gran parte d'Europa e del mondo. Si può parlare di una grandiosa rivoluzione culturale, con cultura intesa come espressione di tutti gli aspetti della vita umana.

 

Le cause di tali cambiamenti furono numerose e in molti casi frutto di processi molto lunghi. Essenziale fu anche la diffusione di correnti di pensiero che conferivano valore assoluto all'intelletto e alle capacità dell'uomo, elevando la ragione a strumento principale per interpretare la realtà e di conseguenza migliorare la condizione umana a tutti i livelli. Ovvero il movimento culturale denominato Illuminismo (sia causa che effetto di tali cambiamenti) proprio perché si prometteva di rischiarare, con il “lume della ragione”, le tenebre in cui viveva l'uomo.

 

In una ormai celebre frase, tratta dall'articolo-saggio Risposta alla domanda cos'è l'Illuminismo (1784), il filosofo tedesco Immanuel Kant, sintetizzava: «L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità [...] minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro [...] Sapere Aude! Abbi il coraggio di servirti della propria intelligenza».

 

Pur con posizioni e orientamenti diversi tutti gli illuministi si prefiggevano di creare un mondo migliore rispetto ai secoli precedenti. A differenza degli umanisti del periodo rinascimentale, gli intellettuali del XVIII secolo non si limitavano a far rivivere il passato, a mitizzarlo, questo era solo un punto di partenza.

 

Essi erano convinti (con tutti i cambiamenti scientifici e sociali a cui stavano assistendo) di essere in un'epoca che avrebbe di gran lunga superato tutte le precedenti pertanto la loro opera si rivolgeva al futuro. Si può affermare che nel XVIII secolo nasce l'idea di progresso. Un progresso del pensiero che non si limitava ad essere solo teorico; doveva riflettersi nella società con effetti pratici.

 

Il filosofo scozzese David Hume nei trattati, Ricerca sull'intelletto umano e Ricerca sui principi della morale, scritti tra il 1745 e il 1751, affermava: «Date ascolto alla vostra passione per la scienza dice la natura, ma cercate che la vostra scienza sia umana e tale che possa avere un legame diretto con l'azione e con la società […] Sii filosofo, ma in mezzo a tutta la tua filosofia resta pur tuttavia un uomo. […] La stabilità dei governi moderni rispetto agli antichi e il rigore della filosofia moderna hanno progredito e probabilmente progrediranno ancora».

 

Mentre lo scrittore tedesco Christoph Martin Wieland (1733-1813), elencava gli ambiti nei quali bisognava apportare novità: «finanza pubblica, alla politica, alla costituzione civile ed a quella militare, alla religione, ai costumi, all'educazione pubblica, alle scienze e alle arti, ai mestieri, all'agricoltura [...] si spanda un po' di luce […] per ogni dove nella nostra Patria comune».

 

Non sorprende osservare molti intellettuali settecenteschi impegnati a proporre riforme riguardanti i più svariati settori della società. Tra le proposte che riscontrarono maggiore popolarità vi fu sicuramente quella di Cesare Beccaria; nel trattato Dei delitti e delle pene (1763) auspicava il rinnovamento dell'apparato giuridico e coercitivo degli Stati con l'abolizione della pena di morte, della tortura e l'introduzione del concetto di pena socialmente utile.

 

Sempre in Italia si può citare l'erudito Ludovico Antonio Muratori, che proponeva un programma di sanità pubblica nel saggio Del governo della peste, del 1714. In Francia l'economista Anne Robert J. Turgot, nelle Reflexions sur la formation et la distribution des richesses (1766), esponeva nuovi concetti di politica economica; della stessa materia era il fondamentale testo: Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), scritto dello scozzese Adam Smith.

 

Si possono ricordare anche opere minori che promuovevano però istanze importanti; Christian Wilhelm Dohm, funzionario prussiano, nel saggio Über die bürgerliche Verbesserung der Juden (1781), espone la precaria condizione della comunità ebraica tedesca e ne sollecita l'emancipazione civile mentre, il filosofo e matematico francese Condorcet, proponeva il miglioramento della situazione femminile prospettando la piena uguaglianza di genere, sia nel campo privato che in quello politico (Sur l'admission des femmes au droit de cité, 1788).

 

Tutto ciò interagiva con il complesso di mutamenti economico sociali ai quali si è sopra accennato, spingendo le autorità dell'epoca ovvero numerosi sovrani, ad essere protagonisti di una serie di politiche innovative. Bisogna tenere presente che tra XVII e XVIII secolo i vari Stati iniziano ad assolvere sempre più funzioni assumendo le caratteristiche dello “Stato moderno” (anticamera di quello contemporaneo) e numerose riforme nascono proprio dalle nuove esigenze amministrative; dotare gli organi statali di strutture più efficienti come la creazione di nuovi ministeri o dipartimenti e soprattutto realizzare profonde riorganizzazioni dei sistemi legislativo e fiscale.

 

D'altra parte altrettante riforme erano dettate proprio dalle nuove correnti di pensiero che influenzavano la sensibilità collettiva, inserendo tra i compiti dell'amministrazione pubblica e pertanto dell'autorità, il benessere dei cittadini o, detto in termini più attuali, il miglioramento della qualità della vita della popolazione.

 

A livello politico prese corpo quella che è stata definita dagli storici, “una comune volontà di riforma”, che si diffonderà in Europa (e di conseguenza nelle colonie americane) per alcuni decenni. Concludendosi poi con la rivoluzione francese in cui il concetto di riforma verrà portato al parossismo.

 

Ad esempio, una particolare attenzione venne posta all'istruzione pubblica. Nel 1763 in Prussia, Federico II emette il Regolamento scolastico per la campagna, nel quale si decreta l'obbligatorietà dell'istruzione elementare. Provvedimenti analoghi vengono presi nel decennio successivo nei domini asburgici, mentre nella Russia di Caterina II (regnante dal 1762 al 1796) si avvia un progetto per l'istruzione primaria gratuito. Altro settore oggetto di riforme fu quello giuridico.

 

L'imperatore Giuseppe II d'Asburgo, introdusse nel 1788 un nuovo codice penale in cui era abolita la tortura e fortemente ridotti i casi punibili con la pena di morte, erano inoltre previsti sia il matrimonio civile che la libertà di stampa. Già due anni prima nel Granducato di Toscana, governato dal fratello di Giuseppe II, Pietro Leopoldo, erano state soppresse sia tortura che pena di morte (Codice leopoldino). Sempre nei domini asburgici agli inizi degli anni Ottanta, si tentò di abolire le servitù personali dei contadini ma la forte resistenza della classe nobiliare comportò una drastica limitazione del progetto.

 

Numerosi e comuni un po' a tutti gli Stati furono poi i propositi di riforma dei settori economico e finanziario; dalle liberalizzazioni dei commerci (una delle prime leggi in tal senso è quella che riguarda il mercato interno del grano nel Granducato di Toscana, 1767), all'introduzione di sistemi di tassazione più equi: dall'Editto di perequazione (1731) nei territori sabaudi, all'introduzione dei catasti in Spagna e nel Regno di Napoli intorno alla metà del secolo. Comunque, anche tali riforme incontrarono numerosi ostacoli dovuti alla difesa di particolari prerogative e antichi privilegi da parte dei nobili, delle comunità locali, dei parlamenti e degli organi ecclesiastici.

 

È' proprio in questo contesto che il concetto di felicità assume contorni particolari. Esso non è o non è solo, confinato all'aspetto individuale ma è sempre più legato al benessere della comunità (felicità pubblica) e pertanto tema politico; conseguenza della forte pressione del movimento intellettuale.

 

Già Montesquieu nello Spirito delle leggi (1748), una delle opere che influenzarono maggiormente il pensiero politico settecentesco, afferma: «Una Repubblica composta di persone felici, sarà felice». Muratori, nel trattato Della pubblica felicità (1748), espone un vasto programma di riforme amministrative che ha come fine il benessere collettivo: «Noi dunque per pubblica felicità altro non intendiamo se non quella pace e tranquillità che un saggio e amorevole principe, o ministero, si studia di far godere, per quanto può, al popolo suo [...] con fare che siano non solo in salvo, ma in pace, la vita, l'onore, e le sostanze di qualsivoglia de' sudditi; mercè di un esatta giustizia […] procacciare al popolo qualunque comodo vantaggio e bene che sia in mano sua».

 

Sul piano della teoria si può ricordare il filosofo francese Claude Adrien Helvétius il quale, nel libro Lo spirito del 1758, scrive: «Per virtù si deve intendere soltanto il desiderio di felicità generale; di conseguenza, oggetto della virtù è il bene pubblico [...] la virtù non è altro che il desiderio di felicità degli uomini: perciò la probità, la quale è la virtù messa in azione, coincide presso tutti i popoli, e sotto qualsiasi governo, con l'abitudine delle azioni utili alla nazione».

 

Mentre, nel Sistema sociale (1773), il filosofo franco tedesco D'Holbach afferma: «La felicità non è altro che il piacere continuato. [...] Per provare la felicità occorre esistere: pertanto l'uomo deve cercare, per sua natura, di conservarsi e di fuggire tutto quanto potrebbe nuocere alla sua esistenza o trasformarla in una pena». Quindi arriva alla conclusione, che potremmo definire un fondamento teorico della società settecentesca e di conseguenza della sua politica: «Se ogni uomo tende alla felicità, ogni società si propone lo stesso fine: l'uomo vive in società per essere felice. Perciò la società è un insieme di uomini riuniti dai loro bisogni, per lavorare di comune accordo alla propria conservazione e alla propria comune felicità».

 

Ecco che quelle parole “ricerca della felicità” nella Dichiarazione d'indipendenza americana non erano casuali ma avevano un preciso significato e, se le osserviamo con gli occhi degli uomini del Settecento (almeno di una parte di essi), neppure troppo originali.

 

“Greatest happiness of the greatest number”, ovvero la massima felicità per il maggior numero di persone, frase che riassumeva l'obiettivo del XVIII secolo e resa popolare dal giurista ed economista inglese Jeremy Bentham, nel 1788.

 

In realtà parole e concetto circolavano da decenni; il filosofo, anch'egli inglese, Francis Hutcheson utilizzava la stessa formula già nel 1726, così come frasi simili erano utilizzate con frequenza dal gruppo di intellettuali italiani (Cesare Beccaria, Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi, Pietro e Alessandro Verri) riunito nell'Accademia dei Pugni, (1764-1766) e pure negli scritti dello storico e filosofo svizzero Isaak Iselin (1728-1782).

 

E che la felicità e il modo di realizzarla fossero temi strettamente legati alla politica settecentesca lo dimostrano le parole di uno dei protagonisti principali della rivoluzione francese; Louis A.L. Saint Just (1767-1794), appartenente al partito giacobino e membro del comitato di salute pubblica, nonché teorico del governo rivoluzionario e del Terrore, circa il termine e quindi il fine ultimo della Rivoluzione, affermava: “arrestarsi alla perfezione della felicità e della libertà pubblica”.

 

A dire il vero il tema della felicità non nasce nel Settecento, esso era ampiamente dibattuto già nell'antichità. Nel libro X dell'Etica Nicomachea, Aristotele (384-322 a.C.) la pone come fine di tutte le azioni umane e pertanto lega il concetto alla vita sociale dell'uomo, quindi alla politica. Ovviamente Aristotele aveva come riferimento la società organizzata nella polis (la città-stato della Grecia antica) e in un'altra sua opera, Politica, afferma: «La città non si costituisce semplicemente perchè i suoi membri possano vivere, ma perchè possano vivere bene […] si ritiene evidente che, di necessità, la migliore costituzione è costituita da quell'ordinamento che permette a chiunque di praticare le azioni migliori e di vivere felicemente».

 

Come è noto il pensiero greco influenzerà anche il mondo romano dove verrà sviluppato un alto senso del bene pubblico e di conseguenza delle leggi che tutelavano i cittadini in molti aspetti della loro vita. Ma dobbiamo ricordare che sia le polis greche che la Roma antica erano società elitarie, dove la politica era circoscritta ai gruppi che detenevano il potere; il benessere dell'intera popolazione era scarsamente considerato.

 

Successivamente, con la diffusione del pensiero cristiano, si definiscono due realtà separate quella spirituale e quella temporale che passa però in secondo piano. Ovvero si privilegia la dimensione interiore e individuale dell'uomo (quindi il rapporto con Dio e la religione) rispetto a quella sociale. La società e di conseguenza la politica, non ha più contatti con la sfera spirituale. Pertanto, un concetto come quello di felicità perde il suo legame con la comunità; a maggior ragione se si considera che la vera felicità, per il cristiano, si raggiunge in una dimensione ultraterrena.

 

Nel corso dei secoli tali concezioni verranno sensibilmente mitigate ma si può affermare che solo nel XVIII secolo si tornerà a legare insieme l'aspetto individuale dell'uomo a quello della comunità in cui vive. A differenza dell'antichità il pensiero settecentesco ha un concetto di società molto più ampio; esso comprende tutta l'umanità. Inoltre non ci si limita alla pura speculazione teorica ma si cerca in ogni modo di influenzare l'azione politica del tempo.

 

 La cosiddetta “ricerca della felicità” ne è una prova. Tale concetto, appare in forma implicita nelle numerose riforme che hanno interessato quasi tutti gli stati europei, sotto forma di ricerca del benessere collettivo (la felicità pubblica). Quindi in maniera esplicita riemerge durante il periodo rivoluzionario, addirittura messo nero su bianco nella costituzione di una nazione.

 

Pare evidente, che tutto ciò sia un esempio eclatante del fatto che in nessun altro periodo della Storia come nel Settecento, non solo si è cercato di pensare un mondo migliore ma, al di là dei risultati spesso contraddittori, si è tentato anche di realizzarlo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

IM HOF, Ulrich, L'Europa dell'Illuminismo, Roma-Bari, Ed. Laterza, 1993.



 

 

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