N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
speranza per le ex repubbliche sovietiche
L’esempio
armeno di Nikol
Pashinyan
di Gian
Marco
Boellisi
Da
anni
ormai
siamo
abituati
tristemente
a
vedere
come
movimenti
di
protesta
contro
un
qualsivoglia
governo
possano
spesso
sfociare
in
veri
e
propri
scontri
armati
con
le
forze
dell’ordine.
Che
siano
semplici
manifestazioni
oppure
veri
e
propri
movimenti
atti
a
rovesciare
una
determinata
carica
politica,
nella
maggior
parte
dei
casi
una
delle
due
parti
cede
alla
tensione
terminando
in
quelli
che
spesso
diventano
bagni
di
sangue,
indipendentemente
dai
risultati
politici
ottenuti.
Non
si
può
dire
lo
stesso
per
ciò
che
è
successo
in
Armenia
negli
ultimi
tempi.
Caso
più
unico
che
raro
tra
tutte
le
ex
repubbliche
sovietiche
ma
non
solo,
si è
assistito
a un
movimento
generale
di
protesta
contro
la
figura
dell’ormai
ex
primo
ministro
Serzh
Sargsyan,
il
quale
con
tutte
le
sue
forze
aveva
tentato
di
trasformare
l’Armenia
in
uno
stato
autoritario.
Ma
andiamo
per
gradi.
Come
tutti
i
membri
della
Comunità
degli
Stati
Indipendenti
(o
ex
repubbliche
sovietiche
che
dir
si
voglia),
anche
l’Armenia
nei
primi
anni
Novanta
dovette
affrontare
quella
stagione
di
instabilità
politica
e
crisi
d’identità
che
ha
caratterizzato
tutto
il
mondo
sotto
l’influenza
di
Mosca.
Tra
i
primi
partiti
fondati
vi
fu
il
Partito
Repubblicano,
di
stampo
prettamente
nazionalista
e
conservatore,
erede
de
facto
del
Partito
Comunista.
Serzh
Sargsyan
emerse
ai
vertici
del
partito
sin
da
allora
e in
seguito
a
svariate
cariche
come
ministro
presso
le
varie
legislature,
venne
eletto
nel
2008
come
Primo
Ministro
e
riconfermato
nel
2013
con
un
secondo
mandato.
L’Armenia
allora
era
strutturata
come
una
repubblica
presidenziale,
con
un
limite
massimo
di
due
mandati
di 5
anni
per
ogni
candidato.
Tuttavia,
come
sempre
quando
si
ha a
che
fare
con
personalità
politicamente
ambigue,
anche
in
questo
caso
Sargsyan
ha
cercato
di
tenere
saldo
il
potere
tra
le
sue
mani.
Nel
2015
infatti
presentò
un
referendum
per
trasformare
l’Armenia
in
una
repubblica
presidenziale,
dove
il
Presidente
avrebbe
avuto
solo
un
ruolo
rappresentativo
mentre
i
poteri
sarebbero
passati
in
mano
al
Primo
Ministro.
Promotore
principale
della
riforma,
promise
di
non
candidarsi
più
alla
carica
più
alta
dello
Stato
così
da
evitare
derive
autoritarie.
Purtroppo,
in
politica
come
in
nessun
altro
campo,
verba
volant.
Il
referendum
passò
con
il
66%
dei
voti
ed è
entrato
in
vigore
solo
lo
scorso
aprile
2018.
Oltre
al
cambio
di
figura
a
capo
del
governo,
esso
prevede
anche
che
la
prima
carica
dello
stato
fosse
eletta
dal
parlamento,
ovviamente
controllata
in
ampia
maggioranza
dal
Partito
Repubblicano.
Il
partito
di
Sargsyan.
In
questo
modo
Sargsyan
si è
fatto
eleggere
Primo
Ministro
con
77
voti
a
favore
e
soli
17
contrari.
Tale
è
l’influenza
esercitata
da
quest’uomo
all’interno
della
camera
che
molti
membri
dell’opposizione
hanno
contribuito
alla
sua
elezione.
Tuttavia
gli
armeni
non
sono
rimasti
con
le
mani
in
mano.
Infatti
dal
13
aprile,
giorno
in
cui
si è
appreso
della
nomina
di
Sargsyan,
migliaia
di
persone
sono
scese
in
piazza
per
protestare
contro
questa
presa
di
potere
che
sarebbe
potuta
durare
fino
al
2022.
Le
manifestazioni
hanno
visto
unite
tutte
le
opposizioni,
o
meglio
quello
che
ne
rimaneva
dopo
essersi
letteralmente
smembrate
dopo
il
voto
in
parlamento,
dal
loro
principale
promotore
Nikol
Pashinyan.
Membro
della
leadership
del
partito
liberale
di
opposizione,
il
Congresso
Nazionale
Armeno,
e
maggiore
oppositore
di
Sargsyan
prima
come
giornalista
e
poi
come
politico
da
ormai
più
di
10
anni,
Pashinyan
ha
sempre
cercato
di
combattere
quelle
che
sono
state
le
tendenze
autoritarie
dell’ex
presidente,
anche
andando
in
carcere
per
2
anni
in
seguito
alle
proteste
contro
la
sconfitta
alle
elezioni
nel
2008.
Attualmente
a
capo
di
Yelk,
formazione
politica
giovanissima
il
cui
risultato
alle
scorse
consultazioni
è
stato
solo
l’8%
(equivalenti
a 9
seggi
in
parlamento),
ha
cercato
di
unificare
i
partiti
di
opposizione
nelle
proteste,
essendo
molti
mantenutisi
neutrali
fino
all’ultimo
momento
cercando
di
capire
in
che
direzione
tirasse
il
vento.
Nonostante
il
continuare
delle
manifestazioni
il
17
aprile
2018
Sargsyan
ha
ottenuto
la
nomina,
unificando
di
fatto
tutti
gli
armeni
contro
la
sua
figura.
Al
contrario
di
quanto
ci
si
potrebbe
aspettare
da
contestazioni
di
questa
tipologia,
sin
dal
primo
giorno
le
proteste
si
sono
svolte
nella
maniera
più
pacifica
e
regolare
possibile,
non
registrando
alcun
episodio
violento.
Con
il
passare
del
tempo
sempre
più
membri
della
società
armena
vi
hanno
aderito.
Partiti
di
opposizione,
membri
della
società
civile,
perfino
centinaia
di
soldati
si
sono
uniti
ai
manifestanti
nelle
piazze.
Nonostante
i
vani
tentativi
di
Sargsyan
di
fermare
le
proteste,
tra
cui
figura
un
ulteriore
arresto
di
Pashinyan
quasi
immediatamente
liberato,
il
Primo
Ministro
è
stato
costretto
alle
dimissioni
in
pochissime
ore.
Ammettendo
egli
stesso
di
aver
avuto
torto
a
voler
osare
una
tale
mossa
politica,
si è
fatto
da
parte
lasciando
al
parlamento
la
decisione
su
ciò
che
sarà
del
futuro
politico
dell’Armenia.
Nonostante
un’onda
di
ottimismo
generale
avesse
pervaso
gli
animi
degli
armeni,
le
difficoltà
in
parlamento
non
sono
finite
con
le
dimissioni
di
Sargsyan.
Infatti
il 1
maggio
2018
si è
votato
per
l’elezione
di
un
nuovo
Primo
Ministro
e il
Partito
Repubblicano
si è
opposto
all’elezione
del
favorito
Pashinyan,
di
fatto
prolungando
deliberatamente
l’ingovernabilità
del
paese.
Ovviamente
ciò
non
è
passato
indisturbato
agli
occhi
degli
armeni,
i
quali
prontamente
sono
scesi
di
nuovo
in
tutte
le
piazze
e in
tutte
le
strade
per
manifestare
contro
questa
ulteriore
mancanza
di
responsabilità
da
parte
del
parlamento
in
carica.
Alla
fine
martedì
8
maggio
per
Nikol
Pashinyan
è
arrivato
il
riconoscimento
per
i
suoi
10
anni
di
lotta
politica:
è
stato
infatti
eletto
finalmente
presidente
della
Repubblica
Armena.
La
sua
intenzione
principale
è
quella
di
cambiare
il
sistema
elettorale
nei
più
brevi
tempi
possibili,
così
da
riportare
lo
stato
verso
sponde
più
democratiche
e
nuove
elezioni
parlamentarie.
Insomma,
i
presupposti
affinché
l’Armenia
possa
tornare
completamente
in
pista
ci
sono
tutti.
Agli
aspetti
della
politica
interna
armena
però
non
si
può
far
a
meno
di
affiancare
quelli
che
sono
i
risvolti
esteri.
È
innegabile
infatti
che
l’attuale
situazione
avrà
ripercussioni
importanti
con
i
vicini,
in
particolar
modo
con
il
vicino
più
ingombrante,
ovvero
la
Russia.
La
passata
politica
di
Sargsyan
ha
sempre
portato
l’Armenia
vicino
a
Mosca.
Prova
ne
sia
che
nel
2013
fu
rifiutato
un
importante
trattato
di
integrazione
economica
con
l’Europa,
firmandone
invece
uno
equivalente
con
la
Russia.
Nonostante
nel
tempo
Sargsyan
abbia
provato
a
ricucire
i
rapporti
con
Bruxelles,
un
occhio
di
riguardo
per
il
Cremlino
è
sempre
stato
tenuto.
Ed
ora,
con
cambiamenti
tanto
radicali
in
atto,
non
si
può
sapere
quali
posizioni
assumerà
il
piccolo
paese
caucasico.
Certo
è
che
Mosca
starà
molto
attenta
a
ciò
che
accade
sul
suo
confine
meridionale.
In
conclusione,
ciò
che
è
successo
in
Armenia
ha
dell’incredibile
se
inquadrato
nell’attuale
epoca
in
cui
viviamo.
Una
protesta
partita
dal
basso
costantemente
caratterizzata
da
manifestazioni
pacifiche
e
civili
di
dissenso
ha
portato
all’interruzione
di
quella
che
sembrava
una
vera
e
propria
deriva
autoritaria
da
manuale.
È
assolutamente
rincuorante
vedere
come
un
intero
popolo
possa
prendere
coscienza
delle
trasformazioni
in
atto
nel
proprio
paese
e
agisca
di
conseguenza
nella
maniera
più
corretta
possibile.
Tutto
ciò
non
solo
fa
ben
sperare
per
l’Armenia,
la
quale
forse
troverà
finalmente
la
pace
tanto
attesa
con
l’attuale
corso
in
atto,
ma
anche
un
esempio
lampante
per
ogni
protesta
che
in
futuro
potrà
avvenire
nella
regione
e
non
solo.
Abbiamo
solo
da
imparare
da
quello
che
è
successo,
questo
è
certo.