N. 19 - Dicembre 2006
L'ARMATA ITALIANA IN RUSSIA
Episodi inediti nel racconto di
Vincenzo Gibelli
di
Arturo Capasso
Nel 1942 le truppe
italiane al fronte sovietico occuparono un settore di
270 Km sul Don, a sud di Voronez; assieme agli
eserciti ungherese e rumeno esse avrebbero dovuto
tenere le posizioni, proteggendo il fianco destro
delle truppe hitleriane che si spostavano verso
Stalingrado.
Il 16 dicembre le truppe sovietiche del fronte sud
occidentale, impedendo alle divisioni hitleriane di
raggiungere l’esercito di Von Paulus – accerchiato a
Stalingrado – colpirono le divisioni italiane al
centro e al fianco destro. I mesi seguenti serbarono
ai nostri soldati atti di eroismo e profonde
sofferenze.
Su quelle vicende molto è stato scritto.
Tempo fa sentii un testimone particolare: il capo
degli interpreti per il russo ed il tedesco presso
l’ufficio I dell’VIII Armata: Vincenzo Gibelli.
Laureato in lingue alla Cà Foscari a Venezia. Per
monti anni fu redattore al Corriere della
Sera e pubblicò numerosi saggi, fra i quali Storia
della musica sovietica, Anton
Cechov e Turgheniev. A Gibelli chiesi di
illustrarci alcuni aspetti della sua esperienza.
D. – I contrasti tra i soldati tedeschi e quelli
italiani.
R. – I tedeschi erano nostri alleati di nome, ma non
in realtà. C’era, del resto, astio nel sangue dei
soldati e degli ufficiali italiani: molti di essi
erano figli o fratelli di coloro che nella prima
guerra mondiale erano morti, o erano stati feriti o
erano caduti prigionieri combattendo contro i
tedeschi.
Questa la causa remota; ma più forte era quella
antipatia per la crudeltà verso gli ebrei o i russi.
Assistevano a gesti che facevano soffrire il loro
cuore: punivano a scudisciate i ragazzi o le donne che
ricevevano pane o sigarette dai nostri soldati in
viaggio per il fronte.
Qualcuno aveva assistito alla fucilazione di ebrei:
proprio vicino al nostro comando i tedeschi
scaricavano dai camion ebrei o contadini, facevano
scavare una fossa, sparavano alla nuca quei poveretti
e li seppellivano nella stessa fossa. Ci fu una
sentita protesta da parte dei soldati del nostro
comando. I tedeschi continuarono le fucilazioni, ma in
altre località.
Spesso i parenti dei deportati si rivolgevano a noi
piangendo e disperati ci chiedevano informazioni sui
loro congiunti.
A Tarassovka, non lontano da Millerovo, una colonna di
contadine che tornava dopo essere state ad acquistare
farina e sale, offrendo tutto quello che potevano
scambiare, era stata aggredita dai tedeschi: i nostri
alpini accorsero in aiuto delle contadine e i tedeschi
dovettero fuggire.
A Leopoli sfila per la Kopernikus Strasse una colonna
di ebrei (tuta azzurra con la stella di David gialla
sul petto e indietro); una giovane donna al momento
del passaggio davanti al comando tappa italiano,
prende la rincorsa e scappa dentro: ovviamente è
inutile la protesta dell’ufficiale tedesco di riavere
la donna.
Ricordo l’episodio avvenuto a Kantemirovk durante la
ritirata: i soldati tedeschi pestavano le mani dei
nostri fanti che s’aggrappavano alle sponde degli
autocarri.
A Ostrovskij in una stazione c’è un vagone merci
agganciato a un treno per ovest: ci sono su cinque o
sei alpini feriti; salgono delle SS e gridano
heraus, heraus ai nostri soldati feriti e
febbricitanti.
Un nostro coraggioso sottotenente da solo affrontò i
tedeschi e li sbatté giù dal vagone; i nostri possono
partire indisturbati.
Potrei parlare di tanti altri episodi. Dirò solo che
dopo qualche litigio si cercava di giungere ad una
riconciliazione, sempre da parte tedesca.
La riappacificazione avveniva con un banchetto. In
uno, di questi incontri a capotavola c’era il capitano
Pianta – ufficiale tedesco di origine boema – e
dall’altro il maggiore Bressan, un alpino veneto che
non disdegnava il vino.
Alla fine del pranzo il capitano tedesco leva il
calice e brinda inneggiando alla fraternità
italo-tedesca e alla vittoria finale (Stalingrado
comunicava già cigolare). Risponde il maggiore
italiano: «Dio strafulmini i
tedeschi; Dio stramaledica i
tedeschi».
Poi si accascia,
sfinito per lo… sforzo. Il sudore freddo mi scende per
la schiena: devo tradurre.
Dico che il maggiore italiano vivamente ringrazia e
ricambia gli auguri, esprimendo la sua certezza alla
vittoria finale. Applausi generali. Per fortuna
nessuno dei tedeschi conosceva l’italiano; solo un
sottotenente mi chiese sospettoso perché avessi usato
tante parole per tradurre le poche espressioni del
maggiore.
Molti di questi episodi vengono a conoscenza della
popolazione, che già manifestava sentimenti di
simpatia per gli italiani.
Ciò che ho scritto attingendo alle note raccolte
quando ero in Russia è confermato dal volume del
Ministero della guerra (Roma, 1946):
«Ispirandosi alla linea di condotta dei loro comandi,
i militari tedeschi durante il ripiegamento hanno
tenuto il più deplorevole contegno verso l’alleato che
aveva sacrificato il 70 per cento delle sue fanterie
per tener testa a un avversario superiore di mezzi e
di uomini e aveva dato loro la possibilità di ritirare
tutto il materiale e di ripiegare agevolmente
. Così si sono visti
svaligiare magazzini per i quali erano stati negati i
mezzi di trasporto, facendo sorgere il fondato dubbio
che il diniego fosse stato ispirato dall’intenzione di
appropriarsi dei viveri e dei materiali; laddove,
incontrando sezioni di sussistenza tedesche provviste
di viveri, compreso il pane, ai nostri soldati non
veniva dato nulla; solo, a volte un po’ di miglio e
tre patate.
Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri
soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri
autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere
l’automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti
discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto
a soldati tedeschi; dai treni carichi di nostri feriti
venivano sganciate le locomotive per essere agganciate
a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani
venivano caricati sui pianali dove alcuni per il
freddo morivano durante il tragitto, mentre, nelle
vetture coperte, prendevano posto militari tedeschi,
non feriti, che avio forniti, mangiava e fumavano
allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da
parecchi giorni».
È questo un atto di accusa che migliaia di soldati
possono lanciare ai tedeschi e che acuisce l’odio
verso gli spregevoli alleati; tale odio si esprime in
violenti urti. Così in un cinema di Kiev nel febbraio
del ’43 alcuni fanti italiani prendono a baionettate i
soldati tedeschi e provocano uno degli episodi più
chiari e giustificati dell’avversione.
D. – Com’erano i rapporti con la gente locale?
R. – Di questi episodi sono al corrente, naturalmente,
i russi, soprattutto quelli che vivono nella zona
occupata. Essi si convincono sempre più che siamo
stati aggiogati al carro tedesco e meritiamo
compassione. La popolazione pare prodigarsi per
aiutarci: sono specialmente generose le donne che ci
danno da magiare e dormire. Senza l’aiuto delle donne
ucraine ben pochi ufficiali e soldati italiani
sarebbero rientrati in patria.
D. – Perché le nostre truppe non andarono al
Caucaso?
R. – Il 10 agosto 1942, deciso lo impiego nel Caucaso,
il C. d’armata alpino passò alle dipendenze della XVII
Armata tedesca. Ma il 14 il comando Gruppo Armate «A»
comunicava che nuove esigenze operative assorbivano
tutti gli automezzi a disposizione del comando
germanico e che perciò non era possibile
autotrasportare la divisione «Tridentina».
Il 19 il C. d’armata alpino ritornava alle dipendenze
dell’VIII Armata. Ma prima – e precisamente il 2 marzo
1942 – lo Stato Maggiore aveva disposto la
costituzione in Trento del C. d’Armata alpino che
avrebbe dovuto operare nel Caucaso
.
Il 1° luglio il corpo d’armata con le divisioni
Tridentina, Julia e Cuneense è pronto ad operare in
zona montagnosa. Ma poco dopo il suo arrivo in Russia
s’imporrà invece la necessità d’impiegarlo in terreni
piani facilmente percorribili da mezzi corazzati,
contro i quali gli alpini non possiedono mezzi né
sufficienti né idonei.
Bisogna inoltre ricordare che dopo la battagli di
Ivanovka il comando germanico ordinava che il XXXV
corpo d’armata formato dalle divisioni Pasubio, Torino
e Celere, invece di procedere verso Roventi, si
raccogliesse sulla zona mineraria di Krasnyi Luc e –
dopo il rastrellamento – riprendesse la marcia in
avanti in direzione nord-est e non verso sud-est.
Con tale conversione verso l’interno gl’italiani
venivano tenuti lontani dalle foci del Don, che il
comando Gruppo armate aveva fatto intravedere come
lontano obiettivo comune. Ma su questo obiettivo che
apriva la via al Caucaso, i tedeschi volevano
procedere da soli.
Fin dal primo accenno alla destinazione lungo il corso
del Don, il comandante dell’VIII Armata protestò per
il compito assegnato alla Amir e ancor più protestò
per l’estensione del fronte e la dosatura delle forze.
I tedeschi fecero diverse promesse, ma non lr
mantennero. Così l’intera armata si trovò schierata
sul Don con mezzi inadeguati durante l’estate e del
tutto inefficienti in inverno.
C’erano i fucili della prima guerra mondiale contro i
moderni Tokariev russi. Opponemmo modeste armi leggere
ai carri armati T34 e T52 e alle spaventose «katiusce»,
che lanciavano contemporaneamente otto grossi razzi
per volta.
Si aggiunga un
equipaggiamento assolutamente inefficiente per
temperature che a volta toccarono i quaranta gradi
sotto lo zero.
D. – Quando capiste che la guerra stava acquistando
un andamento negativo?
R. – Grossi dubbi sull’esito della guerra li avemmo
quando si assistette alla disperata difesa di
Stalingrado, di cui i tedeschi nei loro bollettini
annunciavano la conquista di gruppi di case, mentre il
22 novembre lo stesso OKW (Oberkommando der Wehrmacht)
comunicava che a sud della città nella grande ansa del
Don erano in corso aspri combattimenti difensivi.
La prima a cedere fu la III Armata rumena: il 25
giunsero a Millerovo due cavalleggeri rumeni
fuggiaschi. Il 22 dicembre il generale Eriomenko
comunicò a Stalin che le sue truppe avevano raggiunto
la stazioncina di Krivomusghinskaia, presso
Sovietskaia, a una sessantina di kilometri a ovest di
Stalingrado; nello stesso tempo le truppe del fronte
sud-occidentale raggiunsero Kalac.
Subito dopo le avanguardie dei due fronti sovietici si
incontrano a Sovietskaia; la sorte di Stalingrado è
segnata. La VI Armata di Paulus è accerchiata.
In Africa sbarcano le truppe americane, le speranze di
vittoria svaniscono…
D. - Qual è il suo giudizio sui nostri soldati?
R.- I soldati italiani – per quanto disarmati di
fronte alle poderose armi russe – hanno combattuto
valorosamente, cedendo le posizioni tenute solo quando
erano diventate insostenibili e a prezzo di sanguinose
perdite.
D. - Come si comportava il Cremlino verso i suoi
combattenti che erano fatti prigionieri?
R. – I russi avevano fondato timore che le autorità
punissero i familiari di coloro che si erano dati
disertori o erano stati fatti prigionieri.
Queste stesse autorità non si occuparono per nulla dei
loro prigionieri. Un esempio fu dato da Stalin stesso,
che non volle sapere nulla del figlio Jakov, catturato
nella prima fase della guerra, in una sacca da cui non
era possibile uscire.
Ripeto quanto ho già detto: il comportamento della
popolazione nei nostri riguardi fu buono, come del
resto il nostro verso di loro era stato buono. I
nostri ospiti piangevano quando ci vedevano partire.
Non sempre per affetto: sapevano che saremmo stati
sostituiti dai tedeschi.
Quando nel luglio 1942 si diffuse la notizia che una
parte dell’Ucraina sarebbe stata occupata
dagl’italiani, si ebbero dalle province vicine degli
spostamenti verso i territori che avremmo
presumibilmente occupato. |