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N. 110 - Febbraio 2017 (CXLI)

L’Armata Invitta
Oltre tre anni di vittorie senza mai subire sconfitta - Parte I

di Andrea Checcucci

 

All’inizio delle ostilità, il 24 maggio 1915, la Terza Armata venne destinata nelle zone di operazioni del Carso e di Trieste. Il Comando dell’Armata venne affidato al Generale Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta e alle dipendenze della Grande Unità complessa vennero posti: il Sesto Corpo d’Armata al comando del Generale Ruelle, il Settimo Corpo di Armata posto alle dipendenze del Generale Garioni e l’Undicesimo Corpo di Armata con a capo il Generale Cigliana.

 

Fin da subito, Emanuele Filiberto guidò, senza subire sconfitte (da qui l’appellativo di Duca Invitto) la Terza Armata. La sede del Comando, in zona bellica, fu, per un periodo, a Cervignano del Friuli; all’interno della villa Attems-Bresciani. Il compito della Grande Unità fu di condurre le operazioni per far indietreggiare l’esercito austro-ungarico che tentava di entrare da est.

 

L’Armata con il suo storico Comandante si rese grande protagonista, durante le battaglie dell’Isonzo, dal giugno 1915 alla fine dell’estate del 1917. Insieme alla Seconda Armata, riuscì a conquistare Gorizia nella Sesta Battaglia dell’Isonzo (Battaglia di Gorizia), dove contribuì in modo fondamentale alla riuscita dell’operazione. Dopo la disfatta di Caporetto, pur non essendo mai stata sconfitta, dovette ritirarsi insieme alle altre Grandi Unità sulla linea del Piave. Sembrava, dopo la disfatta di Caporetto e la successiva destituzione dall’incarico del Generale Cadorna che Emanuele Filiberto dovesse essere nominato Comandante del Regio Esercito fino alla conclusione delle ostilità, ma contro tutte le previsioni, Vittorio Emanuele III decise di nominare il Generale Armando Diaz. Tale scelta, sembra che sia stata presa dall’allora Re, per tenere in ombra il cugino divenuto polare grazie alle imprese della Terza Armata durante tutto il conflitto.

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Croce commemorativa della terza armata

Il campo di battaglia sul quale si trovò a combattere il Duca d’Aosta con i suoi uomini fu l’altipiano brullo e roccioso intorno a Trieste che si estende nella parte più orientale del Friuli Venezia Giulia, il Carso. In tale contesto ambientale, sono sempre stati presenti fenomeni legati alle particolari rocce levigate dagli agenti atmosferici. Il Carso è rappresentato da fenomeni molto tipici, legati non solo agli agenti atmosferici che modellano tutto l’ambiente circostante, ma anche alle caratteristiche chimiche e strutturali delle rocce soggette a quel classico fenomeno denominato per l’appunto “carsismo” (attività chimica esercitata dall’acqua sulle rocce stesse che contribuisce in modo determinante a variare la morfologia del terreno nel nostro caso del campo di battaglia). Le prime quattro battaglie si svolsero nel 1915 tra giugno e dicembre e furono caratterizzate dai classici principi di guerra statica (di posizione). Gli obiettivi territoriali raggiunti fino a quel momento furono di scarsa importanza, ma progressivamente, a partire da questo momento, l’Impero Asburgico iniziò ad inviare sul fronte italiano forze sempre più numerose.

In particolare, le prime due battaglie costituirono il tentativo di contrastare le manovre tedesche sul fronte orientale, mentre la terza e la quarta furono volte ad alleggerire le manovre degli imperi centrali sulla Serbia. Nel 1916, quando si profilò la minaccia della spedizione punitiva austriaca nel Trentino, vi fu la Quinta battaglia (11-19 marzo), nella quale l’offensiva italiana venne respinta. Quindi il generale Cadorna riprese i preparativi: tra il 27 luglio e il 4 agosto spostò uomini e mezzi dal Trentino sull’Isonzo e attaccò di sorpresa gli austriaci, le cui forze erano relativamente scarse, conquistando così la prima grande vittoria che dette il morale per poter effettuare, nel giusto modo, la successiva battaglia. L’attacco del 6-17 agosto (Sesta battaglia dell’Isonzo) portò alla conquista di Gorizia grazie soprattutto ai successi iniziali sul Monte Sabotino a nord-est e sul Monte San Michele a sud-ovest che fecero crollare la linea difensiva austro-ungarico.

Venuta meno, anche per troppa lentezza di esecuzione, la rottura del fronte a oriente di Gorizia, portò alla Settima Battaglia (14- 16 settembre) dove il Generale Cadorna fece implementare la tattica delle “spallate”, attacchi energici e di breve durata su una fronte limitata. A seguire l’Ottava Battaglia (9-12 ottobre) e la Nona Battaglia (31 ottobre-4 novembre 1916) rientrarono nello schema degli interventi di logoramento che non fecero guadagnare terreno e che costarono la vita a tanti soldati su entrambi gli schieramenti. Nella tarda primavera del 1917 fu combattuta la Decima Battaglia dell’Isonzo (12 maggio-7 giugno), con lo scopo di rompere il fronte per raggiungere Trieste. L’offensiva italiana fu sferrata sette giorni dopo la fine di quella franco-britannica (Battaglia di Arras).

La battaglia superò di gran lunga le nove precedenti, per quanto riguarda gli sforzi bellici e le perdite, senza conseguire peraltro lo sfondamento definitivo. Si pose mano allora, con mezzi sempre maggiori, all’Undicesima battaglia (17 agosto-15 settembre) nella quale fu impegnata in modo massiccio la Seconda Armata, l’attacco fece realizzare una penetrazione di 10 km nel dispositivo di difesa nemico, ma fece contare numerose perdite tra le truppe italiane. Furono conquistate dall’Esercito Italiano la Bainsizza, il Monte Santo e il Monte San Gabriele. Il Monte Hermada si dimostrò inespugnabile arrestando così l’offensiva italiana che se avesse avuto una maggiore spinta avrebbe permesso il collasso delle forze asburgiche. Alla fine della battaglia gli austriaci disponevano però di sole 24 divisioni, di fronte alle 51 degli italiani. Fu dunque decisa un’offensiva austro-tedesca volta ad allontanare il pericolo ormai imminente su Trieste, ricacciando gli italiani di là dalla frontiera dell’Isonzo.

La Dodicesima e ultima battaglia dell’Isonzo, preludio per la nota disfatta di Caporetto, nella quale non venne interessata dallo sfondamento del fronte la Terza Armata, in quanto avvenne nell’area di responsabilità della Seconda Armata, iniziò il 24 ottobre; dopo un bombardamento di artiglieria durato sei ore, l’attacco austro-germanico penetrò subito in profondità. Truppe Tedesche travolsero le difese italiane e, rapidamente progredendo per il fondovalle, raggiunsero Caporetto lo stesso giorno. Il 26 ottobre cadde Monte Maggiore, su cui Cadorna contava come punto cruciale di una difesa di seconda linea; nello stesso giorno, il grosso dell’Esercito Italiano rischiava l’annientamento, per cui, alle prime ore del 27 ottobre, fu dato l’ordine definitivo di ritirata. Gli scontri proseguirono fino a quasi metà novembre, spostandosi dalla zona dell’Isonzo a quella del Tagliamento e poi attestandosi su quella del Piave.

Dal punto di vista tattico, il luogo per eccellenza dal quale partivano tutti gli assalti era la trincea. Le ampie manovre strategiche di un tentativo di guerra di movimento dovettero cedere il posto alla guerra di posizione, condotta dalle trincee, dalle quali partivano le battaglie in campo aperto con gli assalti dell’uomo contro la mitragliatrice. Si trattava, in sintesi, di una guerra mai sperimentata prima (escluse alcune eccezioni) e le numerose testimonianze ci fanno ben comprendere l’incubo vissuto dai soldati di tutti gli stati belligeranti.

Sono innanzitutto evidenti le condizioni bestiali dei combattenti che erano costretti a “strisciare come rettili” e a percorrere “camminamenti composti da pochi sacchetti”; a dir poco pessima era la situazione igienico-sanitaria; il dilagare della sporcizia era favorito dalla presenza di cadaveri in putrefazione a pochi metri da dove i soldati vivevano. Il bordo della trincea era colmo di cadaveri. Neanche nei momenti di tregua i combattenti non avevano la possibilità di staccare temporaneamente, né la mente e tantomeno il fisico, costretto in un angolo della trincea senza possibilità alcuna di movimento e in costante allerta per i possibili assalti fulminei del nemico, senza considerare la carenza di risorse primarie come cibo o la possibilità di recupero psico-fisico dovuto alla stanchezza. Forse proprio per la fatica, forse per la noia o, più probabilmente, per un insieme di fattori comprendente anche la continua pressione psicologica, in trincea la precarietà la faceva da padrona.

Oltre al combattimento, poche attività permettevano il trascorrere delle giornate dei soldati e rappresentavano momenti di tranquillità e di contatto con il proprio mondo lontano. Il più importante, sotto un profilo di recupero operativo, era il momento dei pasti. Dal punto di vista psicologico, assumeva un’importanza vitale, il momento della scrittura e della lettura (dei giornali e delle lettere personali), che rappresentava non solo un modo per rimanere in contatto con i propri cari e con il proprio mondo lontano, ma anche una via per combattere la noia e per far scorrere la giornata il più velocemente possibile. Se per il fronte occidentale e per quello italiano si parla di guerra di posizione, per quello orientale era ben diverso.

La diversa concentrazione di uomini, armi e mezzi e tecnologie e le differenti condizioni ambientali e climatiche del campo di battaglia, scongiurarono la costruzione di trincee stabili. I fattori che determinarono, quindi, le pessime condizioni di vita dei soldati erano diverse. Ciò che accomunava tutti i combattenti in qualunque situazione erano gli stati d’animo. Innanzitutto la nostalgia; i soldati spesso pensavano alla casa lasciata con dolore. Erano anche sentite la rassegnazione e la disillusione, in quanto i primi mesi di guerra non si aspettava altro che la pace arrivasse da un momento all’altro ma con il passare del tempo questa speranza fu letteralmente cancellata; l’umiliazione era dovuta a dover vivere e trascorrere il tempo in ambienti come le trincee, molto simili a ricoveri per animali; la paura e l’inquietudine per la precarietà della condizioni, con la reale possibilità di morire in qualsiasi momento.

Da non sottovalutare era, infine, il senso d’indignazione, non solo verso il nemico, ma anche verso i superiori per i trattamenti disumani che riservavano ai propri uomini e gli altri soldati che si trovavano in situazione migliore. È inoltre in tutti fortissimo il rifiuto per la guerra. Risulta così ancora più evidente l’omogeneità di sentimenti e di situazioni che i combattenti si trovano ad affrontare. In conclusione, per quanto riguarda la vita di trincea, sia che si tratti del fronte occidentale, di quello orientale o di quello italiano le condizioni e i sentimenti sono i medesimi. In questo ambito vi furono, anche, chiari esempi di patriottismo che andarono ben oltre i disagi vissuti nelle aspre trincee; uno su tutti fu Enrico Toti, che combatté per la Terza Armata, inquadrato nel Terzo Reggimento Bersaglieri Ciclisti. In giovane età fu un dipendente delle Ferrovie dello Stato, al quale nel 1908 per un incidente sul lavoro venne amputata la gamba sinistra. Allo scoppio della Grande Guerra cercò di dare il Suo contributo, presentando tre domande di arruolamento che vennero puntualmente respinte per la sua condizione fisica.

Il patriota non si dette per vinto, raggiunse il fronte in bicicletta e fu arruolato come civile volontario per servizi non attivi. Nel 1916, grazie all’interessamento del Duca di Aosta, riuscì a farsi arruolare come combattente. Nell’agosto del 1916 durante la “Sesta Battaglia dell’Isonzo” a quota 85 nei pressi di Monfalcone, lanciatosi all’assalto delle trincee nemiche, fu colpito più volte ma prima di cadere al suolo riuscì a lanciare contro il nemico la propria gruccia pronunciando le parole “io non muoio”, per questo atto eroico gli fu tributata, da Vittorio Emanuele III, la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria.



 

 

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