N. 67 - Luglio 2013
(XCVIII)
Aristofane
la mimesis e la critica letteraria
di Paola Scollo
Nell’incipit
della
Poetica
Aristotele
definisce
l’arte
poetica
nel
suo
complesso,
poietiké
téchne,
come
una
forma
di
mimesis,
ovvero
di
arte
imitativa:
«l’epica,
la
poesia
tragica,
la
commedia,
l’arte
di
comporre
ditirambi,
la
maggior
parte
dell’auletica
e
della
citaristica,
tutte
considerate
come
un
insieme,
si
trovano
a
essere
imitazioni»
(1447
a
15).
L’attività
del
poetare,
poiesis,
è un
atto
mimetico
e il
poeta,
poietes,
è
artefice
dell’imitazione
che
ha
come
risultato
la
produzione
di
immagini,
mimemata.
Nella
dimensione
mimetica
della
poiesis
le
uniche
differenze
riguardano
tre
aspetti:
mezzo,
oggetto
e
modo
(1447
a
16).
All’origine
dell’arte
poetica
vengono
quindi
individuate
due
cause
naturali,
physikaí.
Anzitutto,
l’uomo
è
l’animale
mimetico
per
eccellenza,
poiché
«è
il
più
portato
a
quella
creazione
rappresentativa
che
si
fa
cultura,
che
si
fa
poesia,
che
non
soltanto
è in
grado
di
simulare
un
mondo
nel
pensiero,
ma
anche
di
farlo
vedere
a
tutti»
(1448
b
5).
La
mimesis
è
un’abitudine
dell’anima:
è
parte
integrante
della
physis
dell’individuo.
Ed è
al
contempo
imprescindibile
presupposto
per
l’acquisizione
della
conoscenza:
è il
modo
più
naturale
per
procurarsi
le
prime
forme
di
apprendimento.
In
secondo
luogo,
tutti
traggono
piacere
dalle
imitazioni.
La
poesia
nasce
come
atto
di
improvvisazione
a
opera
di
coloro
che
per
natura,
physei,
sono
più
inclini
alla
mimesis,
all’imitazione
che
si
fa
rappresentazione.
Segue
la
prima
importante
differenziazione
dell’arte
poetica
riguardo
ai
caratteri
imitati:
«i
più
seri
imitarono
le
azioni
nobili
e
quelle
degli
uomini
di
questo
genere,
mentre
i
più
volgari
quelle
delle
persone
dappoco»
(1448
b
25).
La
forma
più
alta
di
mimesis
è
quella
simulativa
degli
attori:
tragedia
e
commedia
si
configurano
come
i
generi
letterari
più
imitativi
in
assoluto,
in
quanto
realizzati
da
coloro
che
agiscono
sulla
scena.
La
commedia
è «mimesis
di
persone
dappoco,
non
però
per
un
vizio
qualsiasi,
ma
il
ridicolo
è
parte
del
brutto»
(1449
a
35);
di
contro,
la
tragedia
è «mimesis
di
un’azione
seria
e
compiuta,
dotata
di
una
propria
grandezza,
con
parola
ornata,
distintamente
per
ciascun
elemento
nelle
sue
parti,
di
persone
che
agiscono
e
non
attraverso
una
narrazione,
la
quale
per
mezzo
di
pietà
e
terrore
porta
a
compimento
la
purificazione
da
tali
passioni»
(1449
b
25).
A
partire
da
queste
osservazioni,
risulta
evidente
come
la
nozione
di
mimesis
sia
destinata
ad
assumere
un
ruolo
di
centralità
nella
dimensione
teatrale
e,
più
in
generale,
nella
riflessione
letteraria
di
ogni
epoca.
Ancor
più
che
nella
tragedia,
questo
principio
di
identificazione
trova
ampia
realizzazione
nella
commedia,
laddove
l’attaccamento
al
reale
è
molto
forte.
Nella
commedia
antica,
archaía
komodía,
la
mimesis
si
configura
come
strumento
dell’onomastì
komodein,
ossia
di
critica
del
reale.
Il
processo
di
identificazione
nell’altro
da
sé è
ottenuto
in
vari
modi.
L’uso
della
maschera,
a
esempio,
serve
a
segnalare
il
personaggio
portato
sulla
scena,
quindi
a
nascondere
l’identità
dell’attore
dietro
a
quella
dei
suoi
personaggi.
Ancor
più
che
la
maschera
e la
voce,
la
mimesis
favorisce
quel
processo
di
immedesimazione
nell’altro
da
sé,
che
si
pone
alla
base
della
finzione
drammatica.
Nelle
commedie
di
Aristofane
la
mimesis
trova
ampia
applicazione
grazie
anche
a
travestimenti,
finzioni,
scambi
di
personalità
e
parodie.
Una
prima
commedia
illuminante
è
rappresentata
dagli
Acarnesi.
Qui
Euripide
si
presenta
coperto
di
stracci
come
i
personaggi
da
lui,
secondo
Diceopoli,
portati
in
scena.
All’ingresso
del
tragediografo,
Diceopoli
esclama:
«Componi
con
i
piedi
in
alto,
pur
potendo
posarli
per
terra?
Naturale
che
crei
degli
zoppi!»
(410
b).
Segue
quindi
un
elenco
degli
eroi
tragici
degradati
da
Euripide:
Eneo,
Fenice,
Filottete,
Bellerofonte,
Telefo,
Tieste
e
Ino
(418
-
434).
Già
al
v.
399
Diceopoli
allude
alla
consuetudine
euripidea
di
comporre
«con
i
piedi
sollevati
da
terra».
Si
tratta
di
una
delle
principali
accuse
rivolte
da
Aristofane
a
Euripide:
il
degrado
degli
eroi
trasformati
in
mendicanti,
zoppi
e
coperti
di
stracci.
Nell’espressione
«con
i
piedi
sollevati
da
terra»
sono
contenuti
i
germi
delle
successive
riflessioni
sulla
mimesis.
La
polemica
letteraria
di
Aristofane
nei
confronti
di
Euripide
scaturisce
dalla
convinzione
di
una
esatta
corrispondenza
tra
autore
e
personaggi,
tra
autore
e
opera.
Nell’atto
stesso
del
comporre
Euripide
abbandona
la
propria
identità
per
assumere,
attraverso
atto
mimetico,
quella
degli
eroi
portati
sulla
scena.
L’atto
mimetico
presuppone
quindi
una
identificazione
emotiva
dell’autore
col
personaggio.
Ma è
a un
tempo
inevitabile
che
la
poesia
sia
mimesis
della
physis
del
poeta.
Alla
luce
di
queste
osservazioni,
sembrerebbe
che
dapprima
Aristofane
spieghi
la
mimesis
in
rapporto
al
poeta,
successivamente
in
rapporto
al
prodotto
letterario.
Questo
processo
di
identificazione
è
ben
delineato
nelle
Tesmoforiazuse
(145
-
174)
laddove,
secondo
Raffaele
Cantarella,
sarebbe
presente
la
prima
teorizzazione
del
concetto
di
mimesis.
Tale
criterio
è
messo
in
bocca
ad
Agatone,
poeta
tragico,
che
afferma
di
indossare
l’abito
conforme
al
pensiero.
Se
un
autore
compone
un
dramma
femminile,
occorre
che
il
corpo
abbia
modi
da
donna.
Le
parole
di
Agatone
sollecitano
almeno
due
riflessioni:
il
poeta
deve
conformarsi
alla
natura
dei
suoi
tropoi;
la
composizione
poetica
riflette
la
physis
del
poeta.
Di
seguito
Agatone
fornisce
alcuni
esempi
desunti
non
dalla
tragedia,
ma
dalla
poesia
lirica.
Ibico,
Anacreonte,
Alceo
hanno
dato
sapore
alla
musica,
portando
cappelli
eleganti,
muovendosi
con
la
grazia
degli
Ioni.
Frinico
era
bello
e di
conseguenza
erano
anche
i
suoi
drammi.
È
inevitabile
che
l’opera
del
poeta
sia
conforme
alla
sua
natura.
L’altro
interlocutore,
il
Parente,
osserva
quindi
che
la
bruttezza
di
Filocle
è la
causa
della
bruttezza
delle
sue
opere.
Senocle
è
cattivo
e di
conseguenza
sono
le
sue
opere.
Teognide
è
freddo
e
crea
opere
in
modo
freddo.
Agatone
conclude
dicendo
che
tutto
avviene
secondo
necessità.
Proprio
sapendo
ciò,
si
preoccupa
di
farsi
bello.
Le
affermazioni
di
Agatone
non
possono
lasciare
indifferenti.
Qualora
il
poeta
non
sia
in
possesso
delle
doti
fisiche
per
porsi
nei
panni
dei
personaggi
rappresentati,
esiste
sempre
la
possibilità
di
fare
ricorso
alla
mimesis
(154
-
156).
Aristofane
mostra
di
avere
grande
familiarità
con
la
mimesis.
Anzi,
sembrerebbe
che
ricorra
a
questo
principio
ogni
qual
volta
intenda
condurre
una
polemica
letteraria.
L’esempio
senz’altro
più
efficace
giunge
dalle
Rane.
L’agone
fra
Eschilo
ed
Euripide
è
interamente
intessuto
di
riflessioni
sulla
mimesis.
Eschilo
definisce
Euripide
«raccoglitore
di
chiacchiere,
creatore
di
accattoni,
rattoppatore
di
stracci»
(841
-
842),
«presuntuoso
fabbricatore
di
zoppi»
(846).
Euripide
ha
vestito
di
stracci
gli
dèi
per
suscitare
compassione.
Questi
versi
suscitano
un
interesse
che
va
oltre
la
polemica
letteraria
nei
confronti
del
teatro
di
Euripide.
Al
di
là
dell’accumulo
di
topoi
antieuripidei,
è
qui
presente
una
valutazione
poetica
della
mimesis
che
negli
Acarnesi
e
nelle
Tesmoforiazuse
non
è
ancora
evidente.
Nelle
Rane
Aristofane
spiega
la
mimesis
non
solo
in
rapporto
al
poeta
e
alla
sua
opera,
ma
anche
in
rapporto
ai
destinatari
dell’opera
stessa.
Emerge
la
questione
degli
effetti
della
poesia
sugli
spettatori.
Di
qui
la
necessità
di
rappresentare
i
personaggi
portati
sulla
scena
come
migliori
rispetto
alla
vera
natura
per
proporli
come
modelli
di
comportamento.
Ma
in
generale
il
principio
di
mimesis
espresso
da
Aristofane
è in
fondo
quello
individuato
da
Platone
per
la
commedia
e la
tragedia:
per
l’autore
il
modo
migliore
per
comporre
una
bella
opera,
per
rappresentare
le
vicende
o
descrivere
i
personaggi
è
quello
di
identificarsi,
nel
corpo
e
nel
carattere,
nei
personaggi
stessi.
Da
questo
principio
di
mimesis
deriva,
sia
tramite
la
riflessione
di
Platone
sia
tramite
l’immagine
di
Aristotele
nel
Peripato,
il
metodo
teorizzato
e
praticato
successivamente
da
Cameleonte.
Partendo
dall’idea
della
corrispondenza
tra
autore
dell’opera
letteraria
e
opera
letteraria,
Cameleonte
va
alla
ricerca
di
aneddoti,
di
dati
biografici
di
varia
natura,
per
lo
più
curiosi
e
piacevoli,
che
mescola
con
ricostruzioni
storico
-
letterarie.
La
biografia
diviene
una
sorta
di
contenitore
della
critica
letteraria:
non
c’è
decodificazione
di
dati
caratteriali
e
biografici
dell’autore
in
quanto
riflessi
nel
testo.
Alla
luce
di
queste
considerazioni,
una
incursione
in
Platone
appare
doverosa.
La
mimesis,
infatti,
assume
un
ruolo
di
assoluta
centralità
nel
pensiero
di
Platone.
Nel
terzo
libro
della
Repubblica
(392
c 6
ss.)
Platone
affronta
il
problema
della
mimesis
in
relazione
allo
stile
dell’opera
letteraria.
Platone
qui
sostiene
che
la
narrazione
possa
essere
realizzata
in
forma
diretta
di
semplice
narrazione,
diéghesis,
in
forma
mimetica,
dià
mimeseos,
o
attraverso
la
mescolanza
di
entrambe
le
forme.
La
forma
narrativa
semplice
avviene
in
terza
persona,
quindi
in
maniera
oggettiva.
In
altre
parole,
l’autore
non
si
nasconde
dietro
i
personaggi.
Al
contrario,
l’imitazione
comporta
l’assimilazione
dell’autore,
nella
voce
e
nei
gesti,
al
personaggio
rappresentato.
La
poesia
drammatica
è
l’esempio
più
alto
di
mimesis,
in
quanto
poesia
agita
sulla
scena;
il
ditirambo
è un
genere
narrativo;
la
poesia
epica
è
misto
di
narrazione
e di
imitazione
(394
b 8
- c
5).
Successivamente,
Platone
affronta
il
problema
della
mimesis
in
una
prospettiva
paideutica,
prendendo
in
considerazione
gli
effetti
della
mimesis
sull’ethos
dei
phylakes.
A
tal
proposito,
osserva
che
è
impossibile
imitare
bene
diversi
modelli
contemporaneamente,
poiché
la
natura
umana
è
suddivisa
in
parti
molto
piccole
(395
b 3
-
6).
In
generale,
l’imitazione
comporta
un
frazionamento
della
propria
personalità
per
conformarsi
a
ciò
che
è
altro
da
sé.
I
phylakes
devono
quindi
dedicarsi
esclusivamente
alla
cura
e
alla
libertà
dello
Stato,
senza
imitare
o
fare
altro.
Le
imitazioni,
se
si
prolungano
nel
corso
di
tutta
la
vita,
divengono
un’abitudine
naturale
per
l’indole
dell’uomo.
Pertanto,
occorre
imitare
solo
le
persone
oneste,
che
abbiano
un
comportamento
serio
e
ragionevole.
La
riflessione
sulla
mimesis
viene
ulteriormente
approfondita
da
Platone
nel
decimo
libro
della
Repubblica
(595
c
ss.)
nell’ottica
della
teoria
delle
Idee,
quindi
in
un
contesto
ontologico
non
più
paideutico.
In
queste
pagine
sono
espresse
parole
di
condanna
nei
confronti
della
pittura
e
della
poesia
che,
in
quanto
arti
imitative,
sono
rappresentazioni,
immagini
di
immagini,
deformazioni
a
tre
gradi
di
distanza
dalla
verità
delle
cose.
Platone
si
interroga
sulla
distanza
del
modello
dall’immagine,
ovvero
dell’essere
dall’apparire,
ricorrendo
alla
celebre
metafora
del
letto.
In
particolare,
distingue:
l’idea
del
letto
(il
letto
in
sé),
creata
da
un
dio;
il
letto
fabbricato,
realizzato
dall’artigiano;
il
letto
dipinto,
creato
dal
pittore
impegnato
nella
rappresentazione
della
realtà
sensibile.
In
base
a
questo
ragionamento,
il
letto
in
sé
esprime
la
nozione
dell’Idea,
ossia
di
un
ente
stabile,
immutabile.
Il
letto
fabbricato
e il
letto
dipinto
sono
metafora
delle
apparenze,
delle
deformazioni
delle
Idee.
L’ente
diviene
mimema,
rappresentazione,
nel
momento
in
cui
si
rende
visibile.
In
ogni
caso,
è
bene
ricordare
che
l’atto
mimetico
presuppone
sempre
l’esistenza
di
un
modello
al
quale
ci
si
conforma.
La
conoscenza
del
modello
è da
porre
a
fondamento
del
giudizio
corretto
sulla
mimesis.
L’oggetto,
ovvero
il
modello,
è
sempre
uguale
a se
stesso.
La
percezione
dell’oggetto,
ossia
la
copia,
è
destinata
a
modificarsi.
In
tal
senso,
anche
il
tragediografo,
in
quanto
lontano
dall’Idea
in
sé,
si
configura
come
«terzo
a
partire
dal
re e
dalla
verità»
(597
e 6
-
8).
In
sintesi,
per
Platone
le
opere
dei
pittori
e
dei
poeti
sono
parvenze,
eídola,
non
enti
reali,
distanti
di
tre
gradi
dalla
verità
(596
a 5
-
597
e
6).
Platone
condanna
la
mimesis
che
prende
come
modello
il
mondo
sensibile,
a
sua
volta
mimesis
delle
Idee.
La
mimesis
deve
piuttosto
scegliere
come
modello
a
cui
tendere
il
mondo
delle
Idee,
avendo
uno
sguardo
verso
l’alto,
ovvero
verso
la
dimensione
eidetica.
In
tal
senso,
l’attività
stessa
del
filosofo
si
configura
come
un
atto
mimetico.
Esiste
dunque
per
Platone
la
possibilità
di
una
mimesis
positiva.
Secondo
Lidia
Palumbo,
la
mimesis
rappresenta
per
Platone
«la
modalità
universale
dell’espressione»
o,
più
precisamente,
«la
modalità
attraverso
la
quale
le
cose
sono
al
mondo».
La
tecnica
mimetica
rende
possibile,
attraverso
l’identificazione,
un
graduale
avvicinamento
ai
modelli
delle
cose,
alle
Idee.
La
mimesis,
in
quanto
desiderio
di
alterità,
si
manifesta
come
possibilità
di
dare
forma
all’invisibile,
all’intellegibile:
diviene,
pertanto,
una
nozione
fondamentale
per
comprendere
il
rapporto
tra
il
mondo
delle
Idee
e la
realtà
sensibile,
tra
universale
e
particolare.
Il
legame
tra
Idee
e
cose
si
esprime
attraverso
un
atto
mimetico:
le
cose
sono
mimemata,
ovvero
rappresentazioni,
immagini
di
altrettanti
modelli,
le
Idee.
E le
rappresentazioni
sono
«quanto
di
più
prossimo
alla
verità
esista
nella
realtà
sensibile».
Sul
problema
della
correttezza
dell’imitazione
riflette
anche
Aristotele
nella
Poetica.
Dopo
aver
ricordato
le
norme
che
stanno
alla
base
dell’attività
mimetica,
Aristotele
prende
in
considerazione
un
aspetto
essenziale
dell’imitazione
poetica:
la
orthótes.
A
tal
proposito,
sottolinea
l’incapacità
dell’imitazione
di
essere
fedele
all’oggetto
imitato
e
individua
due
tipologie
di
errori
in
cui
il
poeta
può
incorrere
nell’imitare:
l’errore
in
sé e
l’errore
di
coincidenza.
In
ogni
caso,
ci
troviamo
di
fronte
a
una
mancanza
di
verità.
Tuttavia
Aristotele
osserva
che
il
poeta
non
è
tenuto
a
narrare
solamente
la
verità:
l’arte
poetica
è
essenzialmente
mimesis,
riproduzione,
finzione,
quindi
il
poeta
narra
ciò
che
potrebbe
accadere.
Il
senso
di
questa
affermazione
risulta
comprensibile
solo
alla
luce
della
distinzione
tra
poesia
e
storiografia
delineata
al
capitolo
9
(1451
a 36
-
1451
b
11):
la
poesia
narra
ciò
che
potrebbe
accadere;
la
storiografia
ciò
che
è
accaduto.
Il
poeta
non
è
chiamato
a
rappresentare
ciò
che
avviene
nella
realtà,
ma
ciò
che
è
possibile
secondo
la
verosimiglianza
o la
necessità.
La
poesia
attinge
all’universale,
ta
katholou,
la
storia
al
particolare.
La
fedeltà
al
modello
naturale
non
è
l’aspetto
prioritario
da
ricercare
nella
mimesis.
L’essenziale
è
altrove.
Questa
sintetica
ma
necessaria
incursione
in
Platone
e in
Aristotele
ci
consente
di
ricavare
alcune
importanti
conclusioni.
Ricostruire
l’intera
storia
della
tradizione
mimetica
è
impresa
ardua:
l’esiguità
delle
fonti
disponibili
è un
primo
ostacolo
alle
ricerche.
I
dialoghi
di
Platone
e la
Poetica
di
Aristotele
sono
documenti
di
indiscutibile
valore
perché,
in
maniera
differente,
indicano
come
la
nozione
di
mimesis
sia
stato
un
dato
della
cultura
del
V -
IV
secolo.
In
ogni
caso,
credo
che
il
germe
delle
riflessioni
sulla
mimesis
sia
da
porre
in
epoca
arcaica.
Applicata
alla
dimensione
dell’arte
poetica,
la
mimesis
non
è
semplicemente
imitazione,
ma
anche
rappresentazione.
Questo
concetto
esprime
la
capacità
di
imitare
un
dato
comportamento,
di
identificarsi
con
ciò
che
è
altro
da
sé,
di
impersonare
un
ruolo.
Al
di
là
della
difficoltà
di
stabilire
un
puntuale
percorso
cronologico,
in
Aristofane
è
già
presente
una
riflessione
sugli
effetti
dell’arte
imitativa
nei
destinatari
dell’opera
letteraria.
C’è
una
chiara
anticipazione
delle
riflessioni
di
Platone
e di
Aristotele.
Nella
sua
irrinunciabile
funzione
di
didaskalos,
Aristofane
fa
sentire
la
sua
voce
sia
per
comunicare
messaggi
che
sollecitino
alla
riflessione
sui
contenuti
del
teatro
sia
per
riflettere
sulla
realtà
politica
di
cui
teatro
e
poesia
sono
componenti
imprescindibili.
La
comicità
non
è
evasione
dalla
realtà:
al
di
sotto
di
situazioni
paradossali,
è
possibile
scorgere
una
fitta
trama
di
riferimenti
e di
rimandi
alla
quotidianità.
Il
legame
con
la
realtà
è
particolarmente
serrato
nelle
commedie
più
antiche:
finzione
scenica
e
realtà
si
compenetrano
e si
contaminano
costantemente
l’una
con
l’altra.
Questa
stretta
connessione
è
confermata
dalla
presenza
di
gnomai,
sentenze
pronunciate
dal
coro
come
richiamo
alla
collettività.
Aristofane
vuole
indurre
i
suoi
concittadini
a
una
riflessione
costruttiva,
mostrando
che
il
luogo
deputato
alle
discussioni
sui
comportamenti
e
sul
destino
dell’uomo
non
è
rappresentato
esclusivamente
dalla
tragedia,
ma
anche
dalla
commedia.
In
questa
prospettiva,
la
riflessione
sulla
poietiké
téchne
è
volta
a
suggerire
un
tipo
di
poesia
che
possa
contribuire
al
benessere
della
polis.
La
poesia
deve
educare
a
essere
migliori.
Una
chiara
conferma
giunge
proprio
dalle
Rane.
Nel
momento
in
cui
Atene
sembra
destinata
all’inevitabile
declino,
Aristofane
sceglie
di
scendere
nell’Ade
per
riportare
in
vita
il
grande
Eschilo,
la
tradizione
poetica.
Le
Rane
sono
la
prova
più
concreta
di
come
la
commedia
possa
prestarsi
alla
metaletteratura,
aprendosi
alla
critica
letteraria.
Aristofane
conclude
la
sua
stagione
drammaturgica
impegnata
con
una
commedia
che
è
una
riflessione
sull’evento
teatrale,
in
quanto
funzione
stessa
della
polis,
quindi
sul
potere
dell’arte
di
indirizzare
la
condotta
politica
e
civile.
In
questa
prospettiva,
la
mimesis
poetica
non
è
semplice
imitazione.
La
poesia
è
guida
della
polis,
veicolo
di
conoscenze
e di
verità.
E il
rapporto
di
aderenza
o,
meglio,
di
identificazione
con
il
modello
diviene
garanzia
della
correttezza
della
mimesis,
ovvero
della
poesia
stessa.
Comincia
a
farsi
largo
l’idea
della
verità
dell’imitazione,
quindi
della
necessità
di
una
connessione
tra
correttezza
rappresentativa
e
utilità
etica.
Riferimenti
bibliografici:
ALLISON
R.
H.,
Amphibian
ambiguities:
Aristophanes
and
his
Frogs,
«Greece
and
Rome»
30
(1983),
8 -
20.
ARRIGHETTI
G.,
Poeti,
eruditi
e
biografi.
Momenti
della
riflessione
dei
Greci
sulla
letteratura,
Pisa
1987.
BALDWIN
B.,
The
Frogs’Chorus
in
Aristophanes,
«Eranos»
86
(1988),
67
-69.
CHANTRY
M.
(ed.),
Scholia
vetera
in
Aristophanis
Ranas,
Gronigen
1999.
DEL
CORNO
D.,
Aristofane,
Le
Rane,
Milano
1985.
DOVER
K.
J.,
Aristophanic
Comedy,
Berkeley
1972.
DUNBAR
N.,
Aristophanes,
Birds,
Oxford
1995.
HALLIWELL
S.,
The
Aesthetic
of
Mimesis.
Ancient
Texts
and
Modern
Problems,
Princeton
-
Oxford
2002,
trad.
it.
Palermo
2009.
HENDERSON
J.,
The
Maculate
Muse.
Obscene
Language
in
Attic
Comedy,
New
Haven
1975.
IRIGOIN
J.,
Prologue
et
parodos
dans
la
comédie
d’Aristophane
(Acharniens,
Paix,
Thesmophories),
in
P.
Thiercy
- M.
Menu
(ed.),
Aristophane:
la
langue,
la
scène,
la
cité,
Actes
du
colloque
de
Toulouse
17 -
19
mars
1994,
Bari
1997,
17 -
42.
KASSEL
R. e
AUSTIN
C.
(ed.),
Poetae
Comici
Greci,
I -
VII,
Berolini
et
Novi
Eboraci,
Berlin
-
New
York
1983
(III.
2
Aristophanes.
Testimonia
et
Fragmenta,
1984;
IV
Callias,
1983;
V
Magnes,
1986;
VII
Phrynichus,
1989).
LITTLEFIELD
D.
J.
(ed.),
Twentieth
Century
Interpretations
of
the
Frogs.
A
Collection
of
Critical
Essays,
Englewood
Cliffs
1968.
MASTROMARCO
G. e
TOTARO
P.,
Aristofane,
Commedie,
Torino
2006.
PADUANO
G.,
Aristofane,
Le
Rane,
Milano
1996.
PADUANO
G.,
Lo
stile
e
l’uomo:
Aristofane
e
Aristotele,
«Studi
Classici
e
Orientali»
46
(1996),
93 -
101.
PALUMBO
L.,
μίμησις.
Rappresentazione,
teatro
e
mondo
nei
dialoghi
di
Platone
e
nella
Poetica
di
Aristotele,
Napoli
2008.
PFEIFFER
R.,
History
of
Classical
Scolarship,
Oxford
1968,
trad.
it.
Napoli
1973.
PRATO
C.,
I
canti
di
Aristofane.
Analisi,
commento,
scoli
metrici,
Roma
1962.
RECKFORD
K.
J.,
Aristophanes’old
-
and
-
new
comedy
I:
six
Essays
in
perspective,
Chapel
Hill
-
London
1987.
RUSSO
C.
F.,
Aristofane
autore
di
teatro,
Firenze
1984.
RUTHERFORD
W.
G.,
Scholia
Aristophanica,
I -
III,
London
1896
-
1903.
SEGAL
E.
(ed.),
Oxford
Readings
in
Aristophanes,
Oxford
1996.
SILK
M.,
Aristophanes
and
the
Definition
of
Comedy,
Oxford
2000.
SOMMERSTEIN
A.
H.,
Aristophanes
and
the
Events
of
411,
«Journal
of
Hellenic
Studies»
47
(1977),
112
-
126.
TAILLARDAT
J.,
Les
images
d’Aristophane.
Études
de
langue
et
de
style,
Lyon
1962.
TREU
M.,
Undici
cori
comici:
aggressività,
derisione
e
tecniche
drammatiche
in
Aristofane,
Genova
1999.