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N. 22 - Ottobre 2009 (LIII)

LE ARISTOCRAZIE TERRIERE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA

Il faticoso adattamento al mondo industriale
di Cristiano Zepponi

 

Man mano che l’industrializzazione ed il suo portato principale, la differenziazione sociale, si diffondevano velocemente nel seno della vecchia Europa, le aristocrazie terriere, simbolo di dominio signorile e privilegi, dovettero accettare di spartire spazi e poteri con altri gruppi emergenti, e rinunciarono ad una situazione di monopolio per trasformarsi in una elìte tra le elìtes.

Tuttavia, pur svantaggiate dalla particolare situazione storica, continuarono a lungo a gestire un potere (e un’influenza) del tutto particolare, almeno fino al 1914. Ciò potè accadere grazie al capitale simbolico di cui erano detentrici, la terra appunto, gravitante attorno alle due nozioni di durata e stabilità. A ciò, inoltre, va aggiunto che il possesso fondiario, ancora nel XIX secolo, restava alquanto redditizio, anche perché l’economia europea rimaneva fortemente legata alla terra, e la terra a sua volta rimaneva socialmente vincolata.

I ceti (vecchi e nuovi) che formavano l’elìte fondiaria poterono così sfruttare l’eredità simbolica del passato ed imporre un criterio di distinzione sociale incentrato proprio sul possesso di poderi e appezzamenti.

La condizione fondamentale, ed accomunante i membri del gruppo, era dunque la proprietà della terra, in misura tale da poterne trarre reddito e/o status; ma praticamente, l’ingresso nella compagine rimaneva limitato alle fasce medio/alte della popolazione.

Il nuovo regime fondiario, inaugurato dalla Rivoluzione francese e dalle prime riforme agrarie, aveva precedentemente favorito, in modo evidente, la borghesia vincitrice, attraverso la vendita di possedimenti ex-ecclesiastici o comunali, nobiliari o ceduti da piccoli proprietari, con la sola eccezione della Gran Bretagna, osservatrice estranea degli sconvolgimenti politici del continente.

L’interesse borghese per la terra, dunque, si fece presto molto deciso, per una motivazione altrettanto evidente, ovvero il sommarsi di interessi economici (garantiti dall’accesso ad un reddito fisso non soggetto alle congiunture economiche, ed all’inserimento nel rispettato mondo delle professioni “liberali”) e sociali (si tenga a mente che il possesso fondiario, nei sistemi notabiliar-liberali, garantiva il diritto di voto) al servizio di un ambizioso “progetto di status”.

Al contempo, vennero attuati sistemi che consentissero di salvaguardare nel tempo i patrimoni, minacciati dai nuovi regimi giuridici.

Vennero perciò sfruttate tutte le potenzialità di meccanismi successori e matrimoni, che agivano su due piani diversi ma complementari.

Tra i primi vanno annoverati i fedecommessi e le primogeniture, che consentivano, in vari modi, di evitare la divisione del patrimonio di famiglia, accettando il rischio di sacrificare i cadetti e le figlie (condannati dalla pratica del ‘matrimonio limitato’ al primo figlio).

Quando ciò fu reso impossibile dai nuovi decreti ottocenteschi, che vietavano qualsiasi tipo di asimmetria nella divisione dell’eredità, e dalla modificazione della struttura familiare, fin’allora piuttosto ineguale, i membri del gruppo tentarono altre vie: legati com’erano ad una concezione maschile della terra, cominciarono a liquidare in denaro l’eredità femminile o ad applicare altre forme di differenziazione (tra cui la selezione di genere e quella fondata sulla capacità di gestire l’azienda di famiglia).

In tutta Europa, tranne che in Germania, il periodo vide il declino, oltre che delle elìtes, anche dei fedecommessi.

Una variante, ed un’integrazione dei meccanismi successori era costituita dai matrimoni. La nobiltà tese verso l’endogamia, pescando vistosamente tra i membri della stessa classe, o addirittura della stessa famiglia, per difendere rango e proprietà.

Tra le regali lenzuola penetrarono solo, verso la fine dell’ ‘800, uno sparuto numero di industriali e banchieri, forti del loro successo e inorgogliti dalla scalata sociale, che contribuirono in primis a formare una nuova elìte mista.

Nel frattempo gli affittuari - sia imprenditori sia intermediari - si struggevano tentando, attraverso la compravendita delle terre ecclesiastiche e comunali, una complicata scalata gerarchica che potesse ripulirne l’origine contadina e regalargli un’identità.

Tamponata per un po’ l’impellente necessità di sopravvivere, i membri del gruppo nobiliare seppero agire con celerità anche nell’approcciarsi al nuovo mondo dell’industrializzazione. Dopo una fisiologica fase di studio, e di riserve, lo sostennero attraverso l’agricoltura, gli fornirono una forte domanda di tecnologia (macchinari) e, spesso, divennero essi stessi imprenditori (si tenga presente che le aristocrazie si erano dimostrate molto attente alle innovazioni agricole, specie tra i lord inglesi e gli Junker prussiani, senza dimenticare il caso di Cavour).

Il naturale canale di passaggio verso la modernità fu spesso rappresentato dalla presenza, nelle tenute, di un’agricoltura intensiva (capitalistica ed efficiente) e di risorse minerarie. Nel periodo, a questo proposito, il sistema delle “concessioni” sostituì quello delle “regalìe” (una tassa regia sull’estratto, in cambio dell’uso delle miniere). Con il nuovo metodo, non si escludeva la partecipazione dei proprietari della superficie all’attività estrattiva (solo in Inghilterra e Russia vigeva il concetto di identità giuridica tra proprietà del suolo e del sottosuolo), che oltretutto beneficiavano di forme di indennizzo e compartecipazione.

La nobiltà, comunque sia, dopo un breve euforia iniziale cedette gradualmente, nel corso del secolo, la propria posizione nel settore, virando verso le azioni ed i titoli di borsa, sostituita nel sud d’Europa (Italia e Spagna) dal capitale straniero.

Altro ponte verso il futuro, poi, fu quello dell’industria alimentare, naturale prolungamento dell’attività agricola ed occasione di diversificazione dei redditi terrieri. Incentrata nei Paesi a forte tradizione agricola (Italia, Francia, Spagna, Germania), questa nuova occasione beneficiò dell’introduzione di nuovi metodi di conservazione degli alimenti, e degli investimenti dei proprietari più attenti alla gestione delle aziende.

Anche in questo caso, però, nonostante un notevole progresso iniziale (dovuto soprattutto all’introduzione della barbabietola ed al conseguente sviluppo dell’industria saccarifera), si cominciò presto a tendere vero la strutturazione di monopoli, caduti in mano ad un capitalismo aggressivo ed organizzato che impose alle vecchie elìtes di lasciare il campo.

Le città, nel frattempo, furono teatro di grandi trasformazioni e opportunità, dovute al processo di borghesizzazione in corso. La vendita di beni nazionali aprì in particolare importanti possibilità di investire, di cui approfittarono le classi medie.

Le elitès non sfruttarono invece l’occasione, preferendo in genere conservare i palazzi di famiglia, e liberarsi degli altri per ridurre l’indebitamento e gli oneri passivi. Attribuirono così agli immobili urbani un importanza del tutto secondaria, rimanendo estranei alla febbre speculativa imperante.

Ciò nonostante, influenzarono il mercato direttamente, cimentandosi nell’imprenditoria edile, ed indirettamente, condizionando con i possedimenti di famiglia le direttrici della crescita urbana (senza menzionare il caso dell’Inghilterra, dove il coinvolgimento, fino alla fine del XIX secolo, fu maggiore).

La sensibilità dei vecchi ceti terrieri nei confronti del nuovo ambiente economico si può cogliere maggiormente attraverso l’esempio delle attività industriali autonome.

Ciò che favorì l’incontro con l’industria, inizialmente, fu dunque l’esistenza di una manifattura rurale all’interno delle tenute nobiliari; e la difesa del reddito si sviluppò sì attraverso l’industrializzazione di questa industria rurale (cartiere e fornaci in primis), ma anche e soprattutto tramite i due principali esempi del settore: la metallurgia e l’industria tessile.

Ad entrambe, i proprietari terrieri garantirono un rilevante afflusso di capitali (provenienti naturalmente dalla terra) ed di energie imprenditoriali, arrivando anche ad affittare i locali necessari, ed a fornire le attrezzature.

L’apporto rimase però confinato in un lasso di tempo breve: una parte considerevole della nobiltà agraria si ritirò dai due settori entro metà ‘800, dopo aver perso lo scontro con gli imprenditori borghesi ed il relativo menagement.

Come sempre, però, rilevanti eccezioni si sottrassero alla regola assoluta, manifestando insospettabili capacità di tenuta (Dietrich&Wendel, lanieri piemontesi).

In Italia, in particolare, furono profusi nel settore capitali ed energie solo dopo la Restaurazione, anche grazie al favorevole clima culturale del nord del Paese (contraddistinto dalla presenza di intellettuali progressisti del calibro di Verri e Beccaria). Ma comunque, la compenetrazione tra elìte ed industria si caratterizzò qui per il ruolo centrale della borghesia, e dei finanziamenti provenienti dai suoi beni terrieri, più che altrove.

L’adattabilità delle elìtes fu messa duramente alla prova, poi, dalla nascita dell’ “industria della velocità”: e almeno agli inizi, la tradizionale apertura verso la modernità sembrò interrompersi.

A partire dagli anni ’40 del XIX secolo, comunque, cominciò a mutare l’atteggiamento negativo verso il simbolo stesso dell’età industriale, la ferrovia.

Tuttavia, le antiche riserve (riguardo la rumorosità del mezzo, ed il suo impiego in sostituzione del tradizionale simbolo dei proprietari, il cavallo) caddero del tutto solo nell’ultimo quarto del secolo, quando anche questo divenne terreno d’investimento, relativamente sicuro e redditizio. E parallelamente, andò sviluppandosi anche un impegno nel settore automobilistico, accanto a quello borghese, o, spesso, in cooperazione con esso (si pensi ai casi della Rolls-Royce e dell’italiana Fiat). Le aristocrazie terriere portarono anche in questo campo capitali ed ingegnosità, forse oltre gli stessi bisogni (e le possibilità) di un settore ancora giovane.

L’elìte seppe ritagliarsi uno spazio importante anche nella riorganizzazione dei sistemi creditizi, che andarono velocemente orientandosi verso l’industria; vi mantenne soprattutto forme di privilegio (credito fondiario e politiche creditizie favorevoli) dovute all’appartenenza al principale fattore di condizionamento del sistema bancario dell’epoca: ancora una volta, la terra. Al tempo stesso, furono sfruttate tutte le opportunità consentite dalle casse di risparmio.

La banca fu, inoltre, un canale di diversificazione del capitale e di integrazione con quello finanziario, oltre a contribuire, attraverso gli investimenti, all’industrializzazione in corso. La frequentazione di questo canale, e gli incontri qui avvenuti, portarono poi ad un avvicinamento tra nobiltà terriera e finanza, in alcuni casi culminato con una fusione (è il caso dell’Inghilterra).

Le aristocrazie, infine, sapevano che, per quanto importante fosse la battaglia economica in corso, era sul campo della politica che avrebbero strappato il diritto a sopravvivere.

Detennero quindi a lungo il monopolio della cittadinanza terriera, costituzionale o meno, facendosi espressione di un legittimo radicamento all’interno della nazione. Trassero forza e legittimazione dal controllo della produzione agricola, affermando un senso di identificazione agricoltura/nazione solido e sfruttato nei momenti di crisi dalle autoproclamate “elìtes nazionali”. In alcuni casi, poi, si proposero anche come guide politiche, ponendosi a capo della lotta per l’indipendenza (in Italia, Polonia, Ungheria) o appoggiando governi liberali (Spagna); all’est, invece, questo processo fu ostacolato da una diffusa distinzione etnica delle aristocrazie, e da una rigida distinzione città/campagna, che le relegò nel loro ambiente d’appartenenza.

La funzione simbolica della terra in Occidente rese tali gruppi a lungo il nerbo della rappresentanza politica, specie nella struttura notabiliare nobiliar-borghese caratteristica dei Paesi latini in cui si intrecciavano deferenza, paternalismo, clientelismo, corruzione, ed un regime elettorale ancora ristretto.

La visibilità, e la rappresentanza di queste elìtes, cominciò a cedere solo con le trasformazioni politiche di fine ‘800 (allargamento del suffragio, nuova struttura partitica, nascita della professione di ‘politico’), mentre dovettero subire la contemporanea crescita politica degli agricoltori.

Entrarono in crisi, come prevedibile, quando l’identificazione con la terra, agli occhi della società, cominciò ad incrinarsi: furono messe sotto accusa a partire dalla crisi agraria (che può essere considerata il segno dell’integrazione delle economie occidentali), subirono tutto il ridimensionamento del settore nei confronti dell’esplosione industriale, che non poterono in alcun modo contrastare.

Tesero allora a liberarsi della terra, ed a rifugiarsi nel folto branco degli affittuari.

Con finale nibenulgico, orchestrarono allora una rappresentazione drammatica di questa crisi, sperando di poter difendere e rilanciare la vecchia funzione “nazionale” appellandosi, come sempre, alla collettività.

Adattandosi ai tempi anche nel crollo, sfruttarono allora i neonati movimenti collettivi: nacquero così le associazioni agrarie, gruppi di pressione votati alla difesa della produzione ed al conseguimento di politiche favorevoli. In questo modo, fino all’inizio del conflitto (LA GUERRA DEI TRENTUN ANNI - L’era dei massacri e la tregua breve, INSTORIA), seppero ottenere consensi e appoggi sfruttando un’indubbia capacità di ottenere simpatie trasversali.

Ma in questo modo la loro capacità di sopravvivenza cominciò a dipendere dalla capacità di contrattazione, e smisero di essere ciò che erano sempre state.

 



 

 

 

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