N. 7 - Luglio 2008
(XXXVIII)
aRGENTINA
1978
Il mondiale dei
generali
di Alessandro
Mastroluca
Lo scrittore Jimmy Burns l’ha definito “il circo
sportivo più politicizzato dai tempi delle Olimpiadi
del 1936”. Un mese di follia collettiva, negli stadi
a due passi dalle camere di tortura e con i soldati
armati alle porte. E’ una vittoria dello sport, o la
sconfitta di un popolo? E’ il campionato del mondo
di calcio, Argentina 1978.
Il calcio e la politica in Argentina
L’Argentina è diventata un paese moderno nella
seconda metà dell’Ottocento, grazie soprattutto agli
investimenti della Gran Bretagna. I britannici
portavano scuole e club in cui si giocava a polo, a
tennis e a calcio, insegnando i valori del fair-play
e della lealtà sportiva. Nel 1867 venne fondata la
prima società di calcio in Argentina, il Buenos
Aires Football Club, e nel 1891 venne lanciato il
primo campionato. Il calcio, che è uno sport
“povero”, che richiede solo una palla, inizia a
dilagarsi nei quartieri periferici della città, e
nel 1913 il Racing Club di Buenos Aires, una squadra
di soli calciatori argentini, vinse il campionato.
Squadre come il Rosario, radicate nei barrios, nelle
periferie urbane, garantivano anche un’istruzione ai
ragazzi e fornivano supporto sociale. Erano già,
molto prima che fosse riconosciuto il suffragio
universale maschile, strutture ‘democratiche’, in
cui si tutti i membri partecipavano alle elezioni
per eleggere il presidente. Il legame tra lo sport e
la politica è sempre stato forte. I tifosi delle
squadre, in cambio di biglietti omaggio per le
trasferte, spesso si impegnano in attività
politiche. Le curve diventano così ambienti
politicizzati. I legami però sono sempre stati
significativi anche a livello istituzionale. I
presidenti della Federazione argentina, l’AFA, hanno
mantenuto sempre contatti politici con i gruppi al
potere, sia civili che militari. Un fenomeno che si
è intensificato durante il primo periodo peronista,
tra il 1946 e il 1955. Juan Peron era presente
spesso sugli spalti e assicurava aiuti finanziari
allo sport, mentre sua moglie Evita sponsorizzava i
campionati giovanili di calcio
La crisi politica degli anni ‘70
Rivolte studentesche, furti, rapimenti e uccisioni
si succedevano con quotidiana regolarità
nell’Argentina degli anni ‘70. L’11 marzo 1973 si
tennero, a 10 anni dalle ultime, libere elezioni. Fu
eletto presidente Hector Campora, un peronista di
sinistra. Il presidente richiama Juan Peron
dall’esilio in Spagna. Peron atterra all’aeroporto
Ezeiza di Buenos Aires il 20 giugno 1973. Ad
accoglierlo oltre tre milioni di persone. Tra questi
alcuni terroristi fedeli a Josè Lopez Rega, ex
segretario personale di Peron, che lo aveva
accompagnato durante l’esilio, che guidava la
falange di destra dello schieramento fedele a Peron.
All’aeroporto Ezeiza si scontrarono due gruppi
terroristi: i Montoneros, di sinistra, che credevano
di incarnare la visione social-rivoluzionaria del
peronismo autentico, e la “Allianza Anticomunista
Argentina”, o “Tripla A”, di Rega, di cui faceva
parte anche Stefano Delle Chiaie, che aveva lavorato
all’Operazione Gladio, ed è accusato di aver avuto
un ruolo nell‘attentato di Piazza Fontana. La
versione ufficiale parla di 13 vittime, ma il conto
potrebbe essere più salato, anche se non è mai stata
aperta un’inchiesta ufficiale sui fatti.
Nel luglio 1973 Campora si dimette, permettendo a
Peron di vincere le nuove elezioni. Ma il suo regno
dura solo un anno. Juan Domingo Peron muore
d’infarto il 1° luglio 1974; gli succede sua moglie,
Isabela, su cui Josè Lopez Rega esercita
un’influenza politica determinante. La democrazia ha
i giorni contati. Isabela Martinez Peron viene
rovesciata il 24 marzo 1976 da una giunta militare
guidata dal generale Jorge Rafael Videla. E’
l’inizio della dittatura militare, il “Processo di
Riorganizzazione Nazionale”.
Fallimenti e rinascite calcistiche
Negli anni ‘60 le squadre e la nazionale argentina
erano diventate famose per comportamenti
eccessivamente duri, al limite della brutalità.
L’apice internazionale venne raggiunto durante i
mondiali del 1966. Al termine della gara persa con
l’Inghilterra padrona di casa, nel sottopassaggio
verso gli spogliatoi l’arbitro fu assalito e un
ufficiale della Fifa coperto di sputi. Solo
l’intervento congiunto di steward e poliziotti poi
impedì ai giocatori argentini di penetrare nello
spogliatoio avversario. Un semplice sfogo dovuto
alla sconfitta o una risposta patriottica
all’atteggiamento del tecnico inglese Alf Ramsey,
che aveva impedito ai suoi giocatori di scambiare le
maglie con gli avversari, etichettati come animali?
In ogni caso al ritorno in patria i giocatori furono
accolti da eroi. Antonio Rattin, che era stato
espulso nella partita contro l’Inghilterra, venne
avvolto dalla bandiera nazionale.
Nel 1970 però la nazionale albiceleste non riuscì a
qualificarsi per i mondiali, e quattro anni dopo
venne eliminata già al primo turno. Urgeva una
rivoluzione. Urgeva un ritorno al calcio come
bellezza, tipico della cultura argentina. L’uomo
nuovo diventò Luis Cesar Menotti, “el Flaco”, lo
smilzo, politicamente radicale, perciò lontano dalle
idee politiche e dal progetto della giunta militare
che prese il potere nel 1976.
La “guerra sporca”
A tre mesi di distanza dalla presa del potere, la
giunta militare argentina si incontrò ufficialmente
con il segretario di Stato americano Henry Kissinger.
Quest’ultimo diede il suo sostanziale appoggio alla
cosiddetta “guerra sporca”, la politica di
repressione e uccisione dei dissidenti politici
messa in atto dalla giunta.
I dissidenti politici, o sospettati tali, così come
semplici cittadini che si ritenesse avessero idee
anche blandamente di sinistra, venivano rapiti e
sparirono per sempre. Indagini ufficiali parlano di
novemila “desaparecido”, ma il numero è certamente
più alto: molti casi non furono infatti denunciati,
e i registri sono stati distrutti. Come ogni
dittatura, anche la giunta guidata da Videla impose
uno stretto regime di censura sulla stampa,
imponendo fortissime restrizioni alla libertà di
parola. All’incontro con Kissinger partecipò il
ministro degli Esteri argentino, l’ammiraglio Cesar
Guzzetti, che nell’agosto del ’76 dirà all’Assemblea
Generale dell’Onu: “La mia idea di sovversione è
quella delle organizzazioni terroristiche di
sinistra. Il terrorismo di destra non è la stessa
cosa. Quando il corpo sociale di una nazione è
contaminato da una malattia, forma degli anticorpi.
Non si possono considerare questi anticorpi allo
stesso modo dei microbi”.
Guzzetti e Kissinger si incontrarono il 10 giugno
1976, all’Hotel Carrera di Santiago del Cile.
All’epoca già oltre mille persone erano sparite per
sempre. Santiago è un’altra città simbolo: all’epoca
il Cile era dominato dalla dittatura di Pinochet, e
migliaia di dissidenti venivano torturati,
massacrati e uccisi nello stadio della capitale. In
quello stesso stadio dove pochi mesi dopo, a
dicembre del 1976, l’Italia avrebbe conquistato la
sua prima e unica Coppa Davis di tennis. Una
spedizione, quella degli azzurri in Cile, molto
avversata da Pci e Psi, che volevano imitare quanto
fatto dall’Unione Sovietica per le semifinali, e
boicottare la trasferta in una nazione sotto una
dittatura golpista. La sede della federazione
italiana di tennis fu devastata dai protestanti al
grido “non si giocano volée contro il boia Pinochet”.
Allo stadio di Santiago, per l’occasione addobbato
con fioriere e le bandiere di tutte le nazioni
partecipanti alla competizione, l’Italia alzò al
cielo l’insalatiera.
Panem et circenses
A Buenos Aires Videla aveva ereditato un compito
prestigioso e faticoso, organizzare i campionati del
mondo di calcio del 1978. L’Argentina aveva ottenuto
la candidatura nel ‘66, ma in dieci anni il contesto
politico era decisamente mutato. L’evento sportivo
sarebbe diventato uno strumento politico, per
allargare le basi del consenso e legittimare
l’immagine della nazione agli occhi dell’opinione
pubblica interna e internazionale.
Il Processo di Riorganizzazione andava avanti. I
salari erano congelati, i sindacati aboliti, torture
e uccisioni proseguivano; i giornali, sotto stretta
sorveglianza, appoggiarono sostanzialmente il
regime. L’unica forma di opposizione era quella,
silenziosa, che si ripeteva ogni giovedì sera
davanti al palazzo presidenziale di Plaza de Mayo, a
Buenos Aires. Lì, sotto la Casa Rosada, si riunivano
le madri dei desaparecidos, che per mezz’ora
percorrevano in cerchio, in silenzio, il perimetro
della piazza. Per intimidirle, i militari avevano
assoldato anche hooligans scelti tra i tifosi più
violenti delle curve, le barras bravas. Ma
l’opposizione silenziosa, iniziata il 30 aprile
1977, continuava, e il mundial si avvicinava.
La nazione fu invasa da manifesti con lo slogan “25
milioni di argentini giocheranno la Coppa del
Mondo”; il mondiale era l’occasione per distogliere
il mondo dalle violenze e dalle violazioni dei
diritti umani. Il generale Omar Actis, a capo del
comitato organizzatore della manifestazione, assunse
una società americana di pubbliche relazioni, la
Burson & Marsteller, per mostrare al mondo la faccia
migliore possibile della nazione. A pochi mesi dal
fischio d’inizio venne lanciata l’Operazione “El
Barrido”. Furono rasi al suolo i quartieri malfamati
alla periferia di Buenos Aires, e gli abitanti
evacuati nella provincia di Catamarca. A Rosario,
lungo il viale principale, per nascondere la povertà
delle periferie, venne eretto un muro con immagini
dipinte di belle case.
Le persecuzioni si intensificarono. Vennero
arrestate oltre 200 persone al giorno per evitare
che parlassero con i giornalisti stranieri e
svelassero le verità nascoste del regime.
Perché l’obiettivo della dittatura potesse dirsi
realizzato, era indispensabile che l’Argentina
vincesse la coppa. Per questo motivo la giunta
militare confermò alla guida tecnica “el Flaco”
Menotti. Racconta Osvaldo Ardiles: “Nessuno poteva
criticare il governo. Era ovvio che Menotti non la
pensasse come i militari, e senza dubbio molte volte
hanno pensato di sostituirlo. Ma era considerato la
sola chance di vincere i mondiali, perciò lo
tolleravano”.
Ispiratore della rinascita della nazionale
argentina, Menotti era diventato, malgré lui, uno
strumento del regime. I generali e gli oppositori
volevano la stessa cosa, la coppa con le ali, e su
Menotti si erano riversate le speranze di un’intera
nazione.
Dopo una prima fase non pienamente convincente,
iniziata con la sconfitta contro l’Italia,
l’Argentina si qualifica per il girone di semifinale
con Brasile, Polonia e Peru. Per favorire le
televisioni, le partite dell’ultima giornata non si
giocano in contemporanea. L’Argentina perciò sa che
gli basta battere il Peru con almeno quattro gol di
scarto per arrivare alla finale. Quella partita
passerà alla storia come la marmelada peruana.
La marmelada peruana
Argentina-Peru è una delle partite più contestate di
tutta la storia del calcio. I primi sospetti di
combine emergono già alla lettura delle formazioni.
In porta per il Peru c’è infatti Ramon Quiroga,
detto “el Loco”, il pazzo. Quiroga in realtà è
argentino, è stato naturalizzato peruviano un anno
prima del mondiale, ed ha giocato tra il 1969 e il
1973 per il Rosario Central, nello stadio in cui si
disputa la semifinale. L’Argentina vince 6-0 e si
qualifica alla finale contro l’Olanda.
Anni dopo Quiroga ammetterà la combine, ma i lati
ancora da chiarire sulla vicenda sono ancora molti.
Negli anni seguenti uno dei giocatori chiave della
nazionale peruviana Josè Velazquez, aveva portato
alla luce strani episodi che avevano animato la
vigilia, compresa la visita negli spogliatoi del
capo di Stato argentino, il generale Jorge Videla,
in compagnia del segretario di Stato americano Henry
Kissinger. Visita alla quale fece seguito la scelta
del tecnico di reintrodurre in formazione il
portiere Quiroga, inizialmente escluso. Inoltre, il
giornalista Tim Pears, in un dettagliato articolo
apparso su “The Observer Sport Monthly” rivela che
prima della partita il governo argentino regalò un
milione di tonnellate di grano al Peru, e venne
aperta una linea di credito di 50 milioni di
dollari. Da chi arriva quel denaro?
Stando alla confessione del figlio di un boss, dal
cartello dei narcotrafficanti colombiani di Cali.
Nel suo libro “El hijo del Ajedrecista 2” (“Il
figlio dello Scacchista 2”), Fernando Rodriguez
Mondragòn, figlio di Gilberto Rodriguez Orejuela,
aggiunge altre tessere al puzzle della partita. Suo
padre, uno dei boss più potenti della narcomafia
colombiana, assieme allo zio Miguel, avrebbero
portato una quantità imprecisata di denaro alla
squadra peruviana, per corromperla garantendo la
qualificazione alla finale della nazionale di casa.
La finale
Ci sono ottantamila persone stipate sulle tribune
dell’Estadio Monumental di Buenos Aires il 25 giugno
del 1978. E’ il giorno della finale del campionato
del mondo. In tribuna d’onore Videla e la sua
giunta, i “militari che si fregiarono con cimiteri
di croci sul petto”. Accanto a loro Licio Gelli,
capo della loggia massonica P2, di cui era membro
anche Lopez Rega, e il cui “Piano di Rinascita
Democratica” riecheggiava molto da vicino “El
Proceso” di Videla.
Ma Menotti ai suoi giocatori, prima di entrare in
campo, chiede di non voltarsi verso i generali,
chiede di guardare verso i macellai, i panettieri,
gli operai, i tassisti, verso tutta la gente che
aspetta il trionfo. E trionfo fu, anche grazie alla
direzione contestata dell’italiano Sergio Gonella,
che dopo quella partita scelse di non arbitrare più.
Finì 3-1 per l’Argentina dopo i tempi supplementari,
Videla aveva vinto.
Le urla di gioia che provenivano dallo stadio
arrivavano certamente fino alle finestre dell’”Escuela
de Mecanica de la Armada”, uno dei centri di tortura
del regime. Da qui sono passati circa 5000 detenuti,
oltre il 90% dei quali è scomparso dopo giorni di
torture e umiliazioni disumane. I pochi superstiti
raccontano che qui, come negli altri campi di
concentramento, come il Garage Olimpo, le torture si
interrompevano durante le partite della nazionale.
Anche i voli della morte, con cui i detenuti
politici venivano gettati giù da un aereo, nudi, in
pieno oceano. I condannati festeggiavano i gol come
una catarsi, ma al 90’ l’orrore riprendeva come se
niente fosse successo.
Ci sono davvero 25 milioni di mani sulla coppa con
le ali, oltre a quelle dei giocatori che fecero
l’impresa e che avevano amici o parenti nella lista
dei desaparecidos. C’erano anche le mani delle madri
di Plaza de Mayo, che hanno rivelato a Simon Kuper,
autore di Calcio e potere: “Grazie al mondiale tutto
il mondo ha conosciuto la nostra storia”. Si è
realizzato almeno in parte l’ideale dei Montoneros,
che avrebbero voluto trasformare il mundial in una
gigantesca conferenza stampa per informare il mondo
delle sofferenze del popolo argentino.
Resta un dilemma.
Menotti, con il suo calcio fatto di bellezza ed
eleganza, ha aiutato il regime portando la nazionale
alla vittoria, o si è opposto alla dittatura facendo
trionfare la bellezza sulla forza? Una cosa è certa,
quella notte di giugno c’è una sola bandiera che
sfila per le strade di Buenos Aires. Portata in
trionfo dai calciatori, artefici di una vittoria e
strumento di un regime. Così Ardiles svela a Tim
Pears i suoi sentimenti:
Stavamo disputando la finale nello stadio del
River Plate, e a tre-quattrocento metri c’era la
scuola della di meccanica navale. Solo dopo abbiamo
scoperto che era il principale centro di tortura
della marina. E penso, quando segnavamo, tutti ci
potevano sentire. Le guardie magari dicevano ai
prigionieri ’stiamo vincendo’, è così che
probabilmente glielo riferivano. Non dicevano
’L’Argentina sta vincendo’ ma ’noi stiamo vincendo’.
Uno è l’aguzzino, l’altro la sua vittima. E poi
penso, ’coloro che erano imprigionati come si
sentivano, felici o tristi?’. In un certo senso
erano felici perché erano argentini, e stavamo
vincendo la Coppa del Mondo per la prima volta nella
nostra storia. Meraviglioso. Ma sapevano che quella
vittoria significava che la dittatura militare
sarebbe durata ancora a lungo. Che non sarebbero
stati rilasciati. Cosa hanno provato in quei
momenti? |