N. 109 - Gennaio 2017
(CXL)
l'archivio di zenone di cauno
pittori delle
oasi dei papiri di età tolemaica
di Paolo Fundarò
I
rinvenimenti
di
papiri
e
gli
ostraka
(frammenti
di
terracotta
usati
come
supporto
scrittorio),
principalmente
in
greco,
demotico
e
latino,
sono
considerati
i
più
interessanti
e
importanti
reperti
dell’Egitto
di
epoca
greco-romana,
poiché
ci
tramandano
documenti
di
prima
mano,
di
natura
economica,
sociale
culturale
e
religiosa
di
un
periodo
compreso
tra
il
IV
secolo
a.C.
e il
VII
secolo
d.C.
Le
collezioni
si
sono
formate
soprattutto
tra
la
fine
dell’Ottocento
e la
prima
metà
del
Novecento,
periodo
in
cui
i
ritrovamenti
sono
avvenuti
fortuitamente
o a
seguito
di
scavi
più
o
meno
leciti,
e
una
fiorente
compravendita
di
papiri
si
riversò
sul
mercato
antiquario
del
Cairo.
Un
primo
cospicua
lotto
proveniva
della
antiche
città
di
Krokodilopolis,
capitale
del
Fayyum
(l’odierna
Medinet
El-fayyum)
ed
Herakleopolis
Magna
(oggi
Ihnasya
el-Medina),
nel
Medio
Egitto
a
sud
del
Fayyum.
Alcuni
papiri
ci
raccontano
come
vivevano
gli
anonimi
pittori
all’epoca
di
Roma
antica
alla
periferia
dell’impero.
Svanito
il
tempo
in
cui
le
opere
famose
di
Nicomaco
o
Apelle
valevano
le
ricchezze
di
una
città;
i
pittori
a
capo
di
botteghe
o
come
semplici
collaboratori,
di
condizione
umile,
appartenenti
alla
classe
degli
schiavi
o
liberti,
si
arrabattavano
per
sbarcare
il
lunario,
pagati
spesso
con
un
metodo
misto
che
prevedeva
una
parte
in
salario
e il
restante
in
prodotti
in
natura.
I
frammenti
di
papiro
ci
restituiscono
molteplici
testimonianze
della
vita
quotidiana
nell’antico
Egitto
a
volte
in
maniera
commovente,
dagli
atti
di
nascita
o di
divorzio
ai
contratti
di
vendita
di
case,
dagli
spettacoli
di
danzatrici
di
nacchere,
all’invio
di
una
lettera
di
una
giovane
recluta
arruolata
nella
flotta
di
Capo
Miseno
al
padre
residente
a
Filadelfia
in
Egitto
che
scrive:
«
Sono
grato
al
dio
Serapide
per
avermi
assistito
quando
mi
trovavo
tra
i
pericoli
del
mare.
Quando
sono
arrivato
a
Miseno
ho
ricevuto
da
parte
dall’Imperatore
tre
monete
d’oro
per
le
spese
di
viaggio.
Ti
invio
un
mio
ritratto
da
parte
dell’amico
Euctemone.
Il
mio
nome
adesso
è
Antonio
Massimo
(prima
dell’arruolamento
Apion).
Prego
che
tu
stia
bene».
Preziosa
testimonianza
che
nei
primi
secoli
dell’impero
il
ritratto
fosse
talmente
diffuso
da
essere
alla
portata
delle
classi
più
semplici,
quasi
una
sorta
di
moderna
fototessera.
I
testi
relativi
al
lavoro
pittorico
e le
condizioni
dei
pittori
nel
mondo
antico
sono
piuttosto
scarni;
il
gruppo
più
interessante
è
costituito
da
papiri
di
età
tolemaica;
formati
da
una
collezione
di
papiri
provenienti
dall’archivio
di
Zenone
di
Cauno
ritrovato
nel
1915
nel
villaggio
di
Girza,
nel
nord-est
del
Fayyum,
e
risalente
agli
ultimi
tre
secoli
prima
di
Cristo,
all’epoca
della
più
forte
espansione
greca
in
Egitto.
Zenone,
da
cui
l’archivio
prende
il
nome,
era
amministratore
(oikonomos)
di
Apollonio,
dioiketes
di
Tolomeo
II
Filadelfo,
re
d’Egitto
e
figlio
di
uno
dei
diàdochi
di
Alessandro
Magno.
Tolomeo
II
favorì
le
arti
e
ampliò
il
Museo
e la
biblioteca
di
Alessandria.
Sposò
in
seconde
nozze
la
sorella
Arsinoe
II,
dalla
loro
unione
prese
il
nome
la
città
di
Filadelfia
(letteralmente
“che
ama
il
fratello”),
colonia
fondata
nell’oasi
del
Fayyum,
lussureggiante
centro
agricolo
dai
terreni
resi
fertili
attraverso
un
canale
artificiale
collegato
al
Nilo.
Zenone, nei documenti papiracei, appare come curatore delle tenute
di
Diotimo.
In
questa
raccolta
si
trovano
dieci
papiri
concernente
l’esecuzione
di
lavori
pittorici
commissionati
nella
città
di
Filadelfia.
I
documenti
attestano
la
presenza
di
tre
pittori,
Teofilo,
Artemidoro
e
Demetrio.
Teofilo,
pittore
alessandrino
nominato
in
quattro
testi,
era
impiegato
per
una
serie
di
decorazioni
parietali
nella
casa
di
Diotimo,
che
desiderava
una
dimora
di
tipo
greco.
La vastità delle opere, la presenza di un pittore alessandrino,
l’importazione
di
legname
pregiato
proveniente
dalla
Siria,
Palestina
e
Nubia,
indicano
la
cospicua
disponibilità
economica
del
committente.
Alessandria
era
un
notevole
e
sofisticato
centro
di
produzione
culturale
che
si
distingueva
per
innovativi
ed
eleganti
prodotti
artistici
come
miniature,
pitture
su
vetro
o su
foglia
d’oro
(crisografia);
oltre
che
per
le
tradizionali
e
raffinate
tecniche
pittoriche
e
artigianali.
L’incarico di Teofilo a Zenone è contenuto nel papiro P.Cair.Zen
III
594445
(=
TSel.
Pap.
I
171)
datato
al
255
a.C.
Trattandosi
di
pitture
parietali
si
deduce
che
Teofilo
lavorasse
con
la
tecnica
dell’affresco.
Altri
testi
inducono
però
a
pensare
che
egli
praticasse
anche
l’encausto.
A favore di questa ipotesi depone il papiro PSI IV 407 in cui Teofilo
propone
l’esecuzione
di
pitture
su
tavola
a
cui
segue
una
ricevuta
in
cui
si
annotano
“sei
mine”
di
un
‘ottima
cera
proveniente
da
Busiris,
l’acquisto
di
un
pigmento
nero,
il
rosso
di
Sinope
e
cinque
mine
di
colla.
Inoltre si elenca il rilascio di uno strumento in ferro thermastris
(forse
un
fornellino
o
una
barra
di
metallo
per
sciogliere
la
cera)
adoperato
nella
pittura
ad
encausto;
il
che
significherebbe
che
quantomeno
nella
sua
bottega
si
utilizzassero
varie
tecniche
pittoriche,
incluso
il
ceris
pingere
descritto
da
Plinio
il
Vecchio
nella
Naturalis
Historia,
il
dipingere
cioè
a
caldo
con
le
cere
pigmentate.
Nella lettera a Zenone Teofilo si impegnava a decorare il portico e
due
sale
da
pranzo
in
uno
stile
definito
“a
strati”;
larghe
zone
di
varie
tinte
con
la
fascia
centrale
più
ampia.
Dal
testo
affiorano
numerose
informazioni
sull’accordo
intercorso
tra
committente
e
pittore:
nella
prima
parte
sono
fissati
in
dettaglio
motivi
decorativi
(parádigma)
e
colori,
incluso
la
pittura
del
plafone;
nella
seconda
parte
è
redatto
un
calcolo
preventivo
del
lavoro
totale.
La
lettera
è
compilata
in
forma
di
offerta
in
cui
il
committente
può
pagare
il
complesso
dell’intero
lavoro
pittorico
incluso
i
materiali
o
assegnare
una
somma
inferiore
fornendo
egli
stesso
i
materiali.
Il probabile completamento del lavoro di Teofilo a Filadelfia è
indicato
da
un’altra
lettera
(PSI
IV
407)
indirizzata
a
Zenone,
nella
quale
il
pittore
informa
del
compimento
dei
lavori
e
richiede
non
senza
amarezza,
nel
caso
in
cui
non
vi
siano
ulteriori
commissioni
la
chiusura
dei
conti
e il
denaro
per
il
ritorno
ad
Alessandria:
«Poiché
le
opere
da
fare
sono
terminate,
e
non
c'è
più
lavoro,
resto
senza
il
necessario.
Se
ancora
vi è
qualche
tavola
(pínax)
da
far
dipingere,
ti
prego
di
darmene
incarico,
in
modo
che
io
abbia
lavoro,
e di
che
vivere.
Se
non
puoi
assegnarmelo,
farai
bene
a
mandarmi
un
viatico,
così
che
io
possa
tornare
dai
miei
fratelli
in
città».
Insieme a Teofilo a Filadelfia lavorarono due pittori, Artemidoro
e
Demetrio
specializzati
nella
tecnica
dell’encausto,
le
cui
prestazioni
sono
documentate
in
quattro
testi
che
fanno
capo
al
registro
di
Zenone.
Nei
papiri
emerge
che
mentre
Teofilo
realizzava
decorazioni
parietali,
Artemidoro
si
occupava
di
ornamenti
e
pitture
di
finestre
eseguite
ad
encausto.
Data
l’estensione
delle
commissioni
rilevate
nei
documenti
sembra
verosimile
che
i
due
pittori
attivi
a
Filadelfia
fossero
a
capo
di
due
distinte
botteghe.
Da rilevare le differenze contrattuali fra i due, mentre Teofilo
aveva
accordi
diretti
con
l’amministratore
Zenone;
Demetrio
intratteneva
i
suoi
rapporti
con
l’architetto
responsabile
dei
lavori
dell’intero
fabbricato:
Hedylo.
In
questo
caso
sembrerebbe
che
l’architetto
avesse
subappaltato
lavori
specifici
ad
artigiani
qualificati,
come
pittori
e
falegnami
e
che
il
lavoro
di
Demetrio
per
quanto
riguarda
le
decorazioni
di
porte
e
finestre
fosse
considerato
parte
integrante
della
costruzione
dell’edificio.
Inoltre dai papiri affiora che Artemidoro veniva retribuito mensilmente
in
parte
in
denaro
e in
parte
in
natura
e,
che
questo
tipo
di
compenso
misto
poteva
essere
applicato
sia
a
lavoratori
impiegati
regolarmente
nella
tenuta
sia
con
contratto
a
prestazione
d’opera,
quali
pittori
e
artigiani.
Artemidoro
lamenta
anche
irregolarità
nei
pagamenti
in
una
lettera
indirizzata
a
Zenone
il
14
maggio
del
253
a.C.
(PSI
IV
353).
Teofilo dunque era riuscito a ottenere una posizione di favore garantendosi
un
metodo
di
pagamento
più
vantaggioso,
evitando
anche
problemi
relativi
alla
riscossione.
Altri
papiri
attestano
commissioni
di
opere
pittoriche
e
conseguenti
retribuzioni
tutti
successivi
all’anno
300
d.C.,
in
cui
emerge
la
vita
semplice
e
precaria
dei
pittori
che
venivano
ricompensati
con
un
magro
salario
e
prodotti
alimentari:
grano,
vino,
olio.
L’usanza di fornire vitto agli artigiani non era sicuramente limitata
al
solo
Egitto
ma
diffusa
in
tutto
l’impero.
Ai
pittori
antichi
(come
forse
anche
alla
maggioranza
dei
contemporanei)
non
restava
che
consolarsi
con
le
parole
di
quel
filosofo
greco
che,
interrogato
su
come
fosse
arrivato
a
vivere
sino
in
tarda
età
rispose:
«Miele
all’interno
e
olio
(per
ungersi)
all’esterno».