N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
Architettura e Ambiente
Le ville palladiane, l'arte funzionale e il paesaggio veneto
di Monica Vargiu
Rivisitare
l’idea
di
“classico”,
conferire
alla
tradizione
architettonica
una
nuova
allure,
pulita,
formale,
moderna
e,
allo
stesso
tempo,
eterna.
Potremmo
dire
che
fu
proprio
questa
la
grande
intuizione
di
Palladio,
quella
che
fece
di
lui
uno
dei
più
grandi
e
talentuosi
architetti
veneti
dell’età
moderna
e
non
solo.
Egli
rivoluzionò
l’ars
aedificatoria
e fu
capace
di
mettere
il
suo
ingegno
al
servizio
dell’ambiente
e
del
contesto
naturale
nel
quale
era
chiamato
a
operare,
ma,
la
sua
divenne
una
“rivoluzione
gentile”,
senza
strappi
e
senza
traumi,
poiché
fu
garbata,
elegante
e
profondamente
rispettosa
dei
contenuti
e
dei
valori
del
passato.
Il
nuovo
trend
inaugurato
da
Andrea
Palladio,
che
farà
scuola
nei
secoli
successivi
in
tutta
Europa
e
Oltreoceano,
si
innesta
su
moduli
antichi
aderendo
fedelmente
alla
visione
vitruviana,
ma,
pur
conservandone
la
solennità
estetica,
basata
su
forme
e
proporzioni,
reinterpreta
il
tutto
alla
luce
di
un
nitore
formale
più
fresco
e
attuale,
principalmente
in
funzione
delle
nuove
esigenze
e
attitudini
di
una
classe
aristocratica
e
mercantile
che
volge
il
proprio
interesse
e i
propri
capitali
verso
le
zone
rurali.
Questi
nuovi
equilibri
di
forze
del
tessuto
sociale,
molto
ben
resi
nei
secoli
successivi
dalla
vis
ironica
e
letteraria
di
Carlo
Goldoni,
unitamente
al
rinnovato
legame
ancestrale
con
la
campagna,
sono
alimentati
nel
contempo
sia
da
ragioni
economiche,
sia
da
ragioni
sociologiche;
si
rinverdisce
il
concetto
di
nobiltà
feudale,
come
sottolinea
lo
storico
ungherese
Josef
Macek
e,
l’arte
dell’agricoltura
viene
preferita
dalla
facoltosa
compagine
dei
mercanti
all’arte
del
commercio,
diventata
oramai,
troppo
perigliosa
e
soprattutto
incerta.
La
terra
assurge
dunque
a
valore
fondante
e
inalienabile,
perenne
e
sicuro,
fonte
di
sostentamento
e di
guadagno
e
proscenio
ideale
per
accostarsi,
tramite
il
prestigio
economico,
all’elitario
ceto
gentilizio.
In
questo
panorama
storico
e
politico,
la
presenza
signorile
nelle
campagne
diventa
consueta,
alimentando
il
culto
bucolico
delle
ville
palladiane,
alla
cui
progettazione
e
messa
in
opera
Palladio
lavorerà
dalla
fine
del
1550,
fino
a
tutto
il
decennio
successivo.
Sono
ben
ventiquattro
questi
gioielli
dell’architettura,
sparsi
prevalentemente
nel
vicentino,
terra
ubertosa
e
ricca
di
prestigiosi
vigneti,
che
l’Unesco
ha
censito
fra
il
1994
e il
1996,
innalzandoli
al
rango
di
patrimonio
dell’umanità,
unitamente
alla
città
di
Vicenza
e
alla
sua
splendida
Basilica
recentemente
restaurata.
La
villa
racchiude
in
sé
un
duplice
scopo,
svolge
la
funzione
prettamente
abitativa
e di
“rappresentanza”
del
signore
e
quella
più
concretamente
commerciale
e
produttiva
di
azienda
agricola.
La
filosofia
costruttiva
del
Palladio,
non
prescinde
mai
dalla
valutazione
dell’ambiente
e
del
verde,
visti
sia
in
chiave
tecnica,
che
in
chiave
estetica,
in
altre
parole,
l’armonia
è lo
spartito
ideale
della
composizione
della
struttura,
dove
colto,
formale
e
funzionale
si
intersecano
felicemente.
La
classicità
resa
quasi
sempre
attraverso
l’uso
mirabile
di
materiali
a
basso
costo,
ma
di
grande
effetto
scenografico,
emerge
in
modo
quasi
naturale
e
mai
pretenzioso,
eludendo
ridondanza
e
fastosità
appariscente
e
rendendo
nobile
e
raffinata
l’attualità
del
messaggio
visivo.
l’immagine
globale
che
ne
consegue
non
è
perciò
mai
retorica,
seppur
concepita
secondo
moduli
classici,
ma
punta
primariamente
al
rispetto
delle
proporzioni
e
all’integrazione
fra
le
parti,
unitamente
alla
semplificazione,
che
non
mortifica
e
non
ha
mai
attitudine
privativa
ma,
al
contrario,
enfatizza
ed
esalta
il
prestigio
della
costruzione.
La
lezione
classica
culturalmente
a
tutto
campo,
che
Andrea
Palladio
aveva
assimilato
e
sublimato
nel
tempo
dopo
il
fortunato
incontro
con
il
poeta
umanista
e
suo
“pigmalione”
Giangiorgio
Trissino,
con
il
quale
effettuerà
diversi
viaggi
a
Roma,
lo
porteranno
a
sviluppare
una
spontanea
curiosità
intellettuale
e a
formarsi
una
visione
artistica
cosmopolita
e
mai
angusta.
Questa
sua
concezione,
si
arricchirà
nel
tempo
con
l’esperienza
e
diverrà
copiosa
di
interazioni
e
spunti
costruttivi
propri
di
altre
realtà,
Firenze
e
Roma
su
tutte,
a
cui
miscelerà,
come
valore
aggiunto,
l’esaltazione
dei
valori
tonali
tipica
del
colorismo
veneto
attraverso
l’uso
delle
strutture
e
dei
materiali
in
relazione
alla
luce,
tendenza
questa
che
investe
tutto
il
mondo
dell’arte
espresso
in
questa
regione
e
che
si
esprimerà
contemporaneamente
in
pittura
nell’opera
di
Giorgione,
Tiziano
e
Veronese.
La
risultante
dell’integrazione
di
tutti
questi
elementi,
pratici
e
concettuali
sarà
un
risultato
inconfondibile
e
originale,
che
farà
dell’artista
uno
degli
architetti
più
richiesti
e
più
stimati
del
periodo.
La
radice
vitruviana
del
suo
modus
operandi,
ben
enucleata
nei
suoi
quattro
volumi
dedicati
all’architettura
e
pubblicati
nel
1570,
unita
allo
studio
di
veneti
illustri
come
Sansovino
e
Sanmicheli,
lo
porteranno,
in
fase
progettuale
alla
sobrietà
estrema,
alla
realizzazione
dell’idea
concreta
in
base
alla
quale
la
forma
di
ogni
edificio
è
determinata
dalla
sua
destinazione
d’uso
e
dall’ambiente
che
lo
circonda
e,
le
strutture,
solide,
solenni,
ma
allo
stesso
tempo
aperte
e
luminose,
devono
raccordarsi
fra
loro
in
maniera
semplice
e
poetica,
rispettose
di
una
partitura
in
cui
funzioni
e
ruoli
sono
razionalmente
distribuiti.
I
progetti
palladiani
si
svilupparono
in
modo
composito,
partendo
però
sempre
da
un
corpo
centrale,
vero
e
proprio
nucleo
della
villa
e
dimora
naturale
del
ricco
possidente,
attorno
al
quale
come
satelliti
sono
concepite
le
altre
parti,
che
di
volta
in
volta
assecondano
l’andamento
naturale
del
terreno
e
l’esposizione;
questi
corpi,
spesso
sviluppati
come
ali,
prendono
il
nome
di
barchesse
e
hanno
come
destinazione
d’uso,
sia
quella
di
alloggio
per
il
personale,
sia
quella
di
ambienti
dedicati
all’attività
lavorativa
e al
ricovero
degli
animali.
Questa
concettualità
progettuale
è
simbolicamente
e
concretamente
espressa
nella
villa
forse
più
famosa
e
conosciuta,
quella
Villa
Capra
detta
anche
la
Rotonda,
edificata
fra
il
1550
e il
1551,
alla
cui
vista
Goethe
rimase
estasiato,
non
esitando
a
definirla
una
magnificente
visione,
un
tempio
greco
divenuto
abitazione.
In
effetti
risulta
alla
vista
una
sorta
di
Villa
Tempio,
costituita
da
una
pianta
centrale
data
dall’intersezione
fra
un
quadrato
e
una
croce
greca,
delle
lievi
scalinate
sui
lati
e
dei
delicati
timpani
sulle
facciate
ne
accentuano
la
solennità,
ma
la
forza
centrifuga
della
struttura
padronale
rende
leggera
e
aerea
l’azione
statica
delle
colonne,
degli
elementi
portanti
espressi
dai
porticati
e
della
cupola
centrale.
Perfettamente
inserita
nel
contesto
paesaggistico,
la
villa
dialoga
con
esso,
esaltandone
caratteristiche
e
peculiarità
e
venendone
esaltata
a
sua
volta
nella
propria
peculiare
bellezza;
la
sua
struttura
segue
dolcemente
il
terreno
lievemente
scosceso
che
si
estende
in
un
fondo
di
notevoli
dimensioni
un
tempo
sede
di
un’intensa
attività
agricola.
La
Rotonda,
venne
completata
nel
1585
da
Vincenzo
Scamozzi,
allievo
del
Palladio
ed
esecutore
di
molti
suoi
progetti
rimasti
in
parte
incompiuti,
fra
cui
Il
prestigioso
Teatro
Olimpico
di
Vicenza,
altro
capolavoro
di
creatività
e
ingegno.
Se
la
Rotonda
è la
villa
più
conosciuta
e
imitata,
non
è da
meno
un’altra
famosa
costruzione,
quella
Villa
Barbero
a
Maser
incastonata
come
una
gemma
nel
trevigiano,
dove
il
Palladio
opererà
un
sostanzioso
restyling
all’antica
residenza
medioevale
del
committente
Daniele
Barbero,
alto
prelato
veneziano
colto
e
raffinato,
che
introdurrà
l’architetto
a
“corte”
della
Serenissima,
e
per
il
quale
egli
illustrerà
un’edizione
di
Vitruvio
nel
1556.
in
quest
progetto
Palladio,
troverà
ispirazione
nel
modello
delle
villa
romane,
inglobando
le
strutture
laterali
di
servizio
nel
corpo
centrale
e
progettando
fra
l’altro
un
imponente
e
complesso
sistema
idraulico
per
l’approvvigionamento
dell’acqua
e
per
la
raccolta
delle
acque
piovane.
Tutto
viene
studiato
nei
minimi
dettagli
che
mettono
in
evidenza
sia
la
forza
espressiva
dell’architetto
sia
la
sua
indole
pratica
e
concreta
che
non
lascia
niente
al
caso.
La
carismatica
personalità
Del
Barbero,
che
spesso
interagirà
con
Palladio
nei
progetti,
misurandosi
con
esso
attraverso
intuizioni,
soluzioni
e
soprattutto
con
ben
precise
richieste,
concorrerà
a un
risultato
straordinario,
infatti,
la
distribuzione
degli
spazi,
le
finte
architetture,
lo
studio
della
luce
e
gli
splendidi
affreschi
del
Veronese
saranno
decisivi
nel
rendere
questa
Villa
una
dimora
dall’effetto
scenografico
quasi
principesco,
dove
l’eleganza
delle
scelte
operate
allontana
qualunque
pretenziosità
artificiosamente
ricercata,
per
concentrarsi
unicamente
sull’essenza
intellettuale
e
sofisticata
del
committente.
La
sala
dell’Olimpo
e il
tempietto
ai
piedi
della
costruzione,
i
cui
affreschi
omaggiano
in
alcuni
particolari
il
grande
Michelangelo
della
Sistina,
completano
il
complesso
architettonico,
che
risultò
essere
anche
l’ultimo
lavoro
di
Andrea
Palladio,
che
si
spense
durante
la
direzione
dei
lavori
e
che
quindi
non
vide
l’opera
nella
sua
redazione
definitiva.
Rimane
comunque
di
lui
quel
concetto
che
nel
suo
farsi,
fra
competenza,
studio
e
intelligenza,
diviene
forma,
prende
forza,
rendendo
anche
l’ordinario
realmente
straordinario.
Questa
abilità
congenita
unita
a
una
grande
umiltà
e a
una
connaturata
capacità
di
saper
rendere
il
bello
lo
hanno
reso,
da
semplice
artigiano
della
costruzione
a
maestro,
un
maestro
eccelso,
spesso
imitato
senza
mai
tuttavia
raggiungerne
e
coglierne
quell’anima
suprema
e
inarrivabile
insita
in
tutte
le
sue
opere.
Il
valore
universale
della
sua
lectio
magistralis
risiede
forse
in
un
mantra
che
la
sua
opera
sull’architettura
ci
ha
consegnato,
dove
egli
sostiene,
in
modo
semplice
e
diretto
che
la
forma
più
alta
di
civiltà,
quella
suprema,
consiste
nel
perfetto
accordo
con
la
natura,
senza
però
eludere
la
storia
che
è a
sua
volta,
radice
di
civiltà.