N. 84 - Dicembre 2014
(CXV)
VUOTI A PERDERE
Lo scarto e il riuso in archeologia: prOBLEMI metodologicI
di Raffaella Di Vincenzo
Anche
se
l’archeologia
è
una
disciplina
che
interessa
molti
ed
interagisce
con
una
serie
distinta
di
campi
del
sapere
(storia,
filologia,
epigrafia,
storiografia
ed
antropologia),
la
sua
interpretazione
più
conosciuta
rimane
racchiusa
e
circondata
da
una
sorta
di
alone
fantastico
ed
avventuroso.
Ne
sono
responsabili
non
soltanto
la
letteratura
al
riguardo
e
gli
ormai
onnipresenti
documentari
di
scoperte
vecchie
e
nuove,
ma
anche
una
certa
mentalità
che
non
vuole
impegnarsi
a
comprenderne
il
metodo
scientifico.
Questo
atteggiamento
non
consente
agli
addetti
ai
lavori
di
usare
un
linguaggio
consono
atto
ad
approfondire
determinati
argomenti,
ma
anzi
si
viene
spesso
invitati,
nella
divulgazione,
a
semplificare
il
più
possibile
e ad
esasperare
i
lati
più
sensazionali
di
ogni
scoperta.
La
bellezza
dell’archeologia
risiede,
invece,
esattamente
nel
suo
metodo
e in
quella
fortunata
impresa
che
consiste
nel
“comprendere
la
storia
a
partire
dalla
storia”.
Il
presente
contributo
si
vuole
occupare
di
un
tema
dell’archeologia
che,
sebbene
non
trascurato
dagli
studiosi,
è
certamente
meno
conosciuto
al
grande
pubblico:
il
tema
del
ciclo
vitale
dei
manufatti
ed
in
particolare
del
loro
riutilizzo
o
del
loro
scarto.
Già
alla
fine
del
secolo
scorso
lo
studioso
E.
Dressel,
catalogatore
e
tipologo
delle
Anfore
romane,
comprese
la
vera
funzione
di
particolari
accumuli
di
materiale
ceramico;
tra
i
tanti
tipi
di
riuso
cui
si
prestano
i
"vuoti
a
perdere"
ricavati,
ad
esempio,
dalle
anfore
una
volta
svuotate
del
loro
contenuto
originario,
è
quello
destinato
ai
lavori
edili
e di
bonifica
e
drenaggio
dei
suoli.
Le
anfore
romane
sono
reimpiegate
un
po’
ovunque
e
gli
scavi
riportano
moltissimi
esempi
di
questi
reimpieghi.
Nelle
opere
di
stabilizzazione
del
suolo
esse
vengono
disposte
integre,
in
posizione
verticale,
spesso
rovesciate;
le
troviamo
disposte
in
banchi,
anche
su
più
strati,
in
ambiente
sia
urbano
che
rurale
solitamente
in
relazione
ad
infrastrutture
idriche
o
con
impianti
produttivi.
Le
anfore
vuote
riempiono
spesso
aree
depresse
come
fossi
o
vecchi
canali
o
avvallamenti,
scavati
appositamente
per
permettere
la
regimentazione
delle
acque;
preparano
il
terreno
per
la
posa
in
opera
di
fondazioni
di
edifici,
rafforzano
tratti
deboli
di
carreggiate
stradali
e
vengono
usate,
insieme
alle
stoviglie
di
uso
comune,
come
alleggerimento
del
peso
degli
archi.
Il
grande
fenomeno
colpisce
per
la
sua
massiccia
diffusione
spesso
collegata
alla
natura
idrogeografica
dei
luoghi
e,
al
tempo
stesso,
ci
offre
la
possibilità
di
comprendere
come
la
civiltà
romana
fosse
a
conoscenza,
almeno
empiricamente,
del
regime
idrico
dei
suoli
e
fosse
in
grado
di
elaborarne
piani
di
gestione.
Le
basi
di
questo
sapere
sono
fondamentali
per
permettere
la
costruzione
di
abitazioni
in
luoghi
salubri
e
sfruttabili
dal
punto
di
vista
agricolo.
Anche
se i
contesti
archeologici
in
cui
si
rinvengono
questi
accumuli
di
anfore
sono
a
tutt’oggi
suscettibili
di
nuove
interpretazioni
e
nuovi
studi,
e
nonostante
il
problema
cronologico
non
sia
di
facile
risoluzione
(la
lunga
vita
delle
anfore
costringe
infatti
gli
archeologi
a
datare
l’uso
delle
stesse
attraverso
i
loro
contesti
specifici
e
quindi
attraverso
l’ausilio
di
ceramica
di
altro
tipo),
il
tema
del
riutilizzo
si
dimostra
particolarmente
efficace
quando,
seppur
in
un
contesto
meramente
divulgativo,
ci
si
pone
innanzi
il
problema
del
metodo
e
dello
scarto
che,
come
vedremo,
è ad
esso
collegato.
Attraverso
quali
strade
si è
dunque
giunti
alla
possibilità
di
ricostruire
per
problematiche
storiche
contesti
archeologici
complessi
ed
eterogenei?
Cercherò
nel
modo
più
sintetico
possibile
di
rispondere
a
questa
domanda.
Il
più
grande
teorizzatore
del
metodo
archeologico
“stratigrafico”
fu,
senza
dubbio,
E.
C.
Harris
che
con
il
suo
“Principi
di
stratigrafia
archeologica”
ha
formato
generazioni
di
professionisti
(compresa
la
sottoscritta).
La
metodologia
proposta
dallo
studioso
è
legata
sostanzialmente
alla
stratificazione
geologica
con
una
grande
intuizione:
trattare
gli
strati
di
terra
come
fossero
una
cipolla,
partendo
dalla
superficie,
fino
ad
arrivare
al
nucleo.
Il
concetto
di
“strato”
ha
sostituito
quello
più
generico
di
“livello”,
senz’altro
più
utile
per
gli
scavi
preistorici,
ma
che
può
diventare
quantomeno
insidioso
se
si
utilizza
in
scavi
di
epoca
più
recente
(specie
se
essi
riguardano
un
tessuto
urbanizzato).
Bisogna
infatti
tener
presente
che,
in
scavi
archeologici
che
riguardano
epoche
storiche
complesse
come
ad
esempio
quelle
greche,
romane
o
medievali,
in
appena
5 o
6 cm
(se
non
addirittura
meno)
possono
trovarsi
reperti
e
tracce
distanti
fra
di
loro
anche
alcuni
secoli.
Studiare
le
caratteristiche
del
terreno
catalogandolo
in
base
alla
sua
colorazione,
alle
sue
componenti
e
caratteristiche
morfologiche,
nonché
la
divisione
tipologica
degli
elementi
ceramici
risulta
fondamentale,
così
come
legare
questi
“Principi”
scientifici
alle
discipline
storico-sociologiche
e
antropologiche.
In
sostanza,
dice
Harris,
la
“stratigrafia
archeologica”
ha
uno
scopo
molto
preciso:
“quando
l’uomo
fece
la
sua
comparsa
sulla
terra
diede
inizio
ad
una
grande
rivoluzione
nei
processi
di
stratificazione
allora
esistenti
e
condotti
da
agenti
naturali.
Questo
grande
cambiamento
ha
avuto
almeno
tre
aspetti
fondamentali:
primo,
l’uomo
ha
dato
inizio
all’evoluzione
di
una
serie
di
oggetti
e
questi,
essendo
inanimati,
non
si
sono
uniformati
al
processo
di
evoluzione
organica
attraverso
la
selezione
naturale;
secondo,
ha
cominciato
a
definire
aree
preferenziali
in
uso
sulla
superficie
della
terra,
come
ad
esempio
quelle
intorno
ai
focolari
primitivi
che,
con
l’andare
del
tempo,
hanno
alterato
la
stratificazione
in
maniera
diversa
da
qualsiasi
forza
naturale;
terzo,
ha
cominciato
ad
effettuare
scavi
nel
terreno
piuttosto
per
scelta
culturale
che
non
per
istinto.
Questa
rivoluzione
separa
la
stratigrafia
archeologica
da
quella
geologica,
il
naturale
dall’umano”.
La
scoperta
dei
principi
specifici
della
stratigrafia
è,
ovviamente,
ben
più
antica
dello
studioso
Harris;
già
nel
1660
Steno
aveva
individuato
la
vera
natura
dei
fossili
e
dei
manufatti
ed
identificato
gli
strati
di
terreno
come
formazioni
diverse
di
origine
naturale
o
umana.
Dal
1790
al
1930
Frere,
Hutton,
Kidder,
Wheeler
e
Lyell
avevano
teorizzato
la
presenza
di
“interfacce
stratigrafiche”
(cioè
di
momenti
di
sospensione
cronologica
in
cui
un
periodo
si
fonde
in
un
altro,
avendo
a
disposizione
soltanto
pochi
mm
di
terreno,
rilevato
l’importanza
dell’assegnazione
sistemica
della
provenienza
dei
manufatti
dai
singoli
depositi
e
riconosciuto
dei
modelli
di
cambiamento
o di
evoluzione
nei
fossili
provenienti
da
strati
successivi
(evoluzione
che
in
seguito
venne
definita
tipologia).
Dal
punto
di
vista
stratigrafico
inizialmente
gli
scavatori
furono
più
interessati
ai
muri,
alle
grandi
strutture,
e
alla
preziosità
dei
manufatti:
le
strutture
monumentali
erano
allora
considerate
come
oggetti
preziosi,
ed è
soltanto
molto
più
tardi
che
gli
strati
del
suolo
hanno
ricevuto
l’attenzione
che
giustamente
meritavano.
Un
esempio
piuttosto
famoso
è
rappresentato
da
una
villa
costruita
intorno
alla
metà
del
II
secolo
d.C.
dai
Quintilii
e
situata
nell’immediato
suburbio
di
Roma,
al V
miglio
della
Via
Appia.
Nel
corso
degli
scavi
iniziati
nel
XVIII
secolo
e
protrattisi
per
quasi
tutto
il
secolo
successivo,
sono
stati
portati
in
superficie:
decorazioni
architettoniche,
mosaici,
rivestimenti
marmorei,
statue,
intonaci
e
stucchi
dipinti
e
figurati
e
suppellettili,
tuttavia
gli
scavi
recenti
e
recentissimi
hanno
registrato
la
presenza
di
una
enorme
quantità
di
reperti
ceramici
che
non
erano
mai
stati
raccolti.
Il
risultato
di
questo
tipo
di
metodo
è
stato,
per
troppo
tempo,
il
non
riuscire
a
rispondere
a
domande
circa
la
funzione
degli
ambienti,
la
cronologia
delle
diverse
fasi
di
vita
o di
abbandono
della
struttura
e,
in
sostanza,
la
piena
difficoltà
di
avere
una
ricostruzione
storico-diacronica
coerente
degli
edifici.
Uno
studio
teso
a
cercare
di
risolvere
questi
problemi
è
stato
possibile
solo
partendo
dalla
raccolta
e
dalla
catalogazione
sistematica
proprio
di
quei
frammenti
che
per
secoli
erano
stati
stati
scartati
perché
considerati
privi
d’interesse.
Anche
oggi,
in
particolare
a
causa
degli
esigui
spazi
concessi
dai
magazzini
delle
varie
Soprintendenze
Archeologiche,
pur
se
viene
riconosciuta
la
necessità
e
l’utilità
di
raccogliere
tutti
i
reperti,
ogni
scavo
archeologico
prevede
che
un
certo
numero
di
reperti
vengano
reinterrati
e
spesso
prevalgono,
nella
cernita
del
materiale,
criteri
di
ordine
estetico.
È
dunque
necessaria
una
pre-catalogazione
al
fine
di
non
perdere
notizie
altrimenti
irrecuperabili.
Anche
nell’antichità
gli
oggetti
vecchi
venivano
gettati
o
riutilizzati
cambiandone
la
funzione;
è
per
questo
che
il
lavoro
dell’archeologo
si
occupa
del
piccolo
come
del
grande,
del
singolo
come
del
vasto,
della
Storia
(intesa
per
grandi
tematiche)
come
del
quotidiano
inserendo
ogni
dettaglio
in
un
tessuto
organizzativo
unitario
operando
in
modo
che
all’arbitrio
del
singolo
sia
da
preferire
un
metodo
universalmente
riconosciuto
e
riconoscibile.
Gli
sforzi
compiuti
a
partire
dagli
anni
70
del
secolo
scorso,
hanno
portato
studiosi
come
Carandini
alla
redazione
di
schede
elaborate
sul
modello
di
quelle
in
uso
in
Inghilterra
per
documentare
ogni
“striscia
di
terra”
(definita
Unità
Stratigrafica)
individuata
nel
corso
dello
scavo.
Su
queste
schede
sono
presenti
voci
che
costringono
l’archeologo
a
fornire
elementi
e
dati
essenziali
non
solo
alla
comprensione
dell’Unità
stratigrafica
in
sé,
ma
anche
dei
rapporti
cronologici
esistenti
fra
uno
strato
di
terra
e
l’altro
in
base
al
concetto
chiave
di
“anteriorità
e
posteriorità”
(cioè
quale
strato
è
più
antico
e
quale
è
più
recente).
Nonostante
dunque
gli
innumerevoli
passi
avanti
che
sono
stati
fatti
nel
corso
dei
secoli
per
rendere
scientifica
una
disciplina
che,
a
sentire
le
convinzioni
della
gente
comune,
di
scientifico
non
sembra
avere
nulla,
ancora
molta
strada
resta
da
fare:
innanzi
tutto
rivedere
il
concetto
di
divulgazione
archeologica
rendendo
fruibile
ad
un
pubblico
più
vasto
il
metodo
che
sottende,
ad
esempio,
al
lungo
e
sofisticato
percorso
che
porta
alla
datazione
dei
singoli
reperti.
Per
quanto
oggi
la
metodologia
sembri
essere
scontata,
tuttavia
difficilmente
se
ne
parla
nelle
pubblicazioni,
come
se
indirizzare
le
medesime
agli
addetti
ai
lavori
renda
quest’ultima
sottovalutabile
se
non,
addirittura,
inutile.