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N. 72 - Dicembre 2013 (CIII)

ARCHEOLOGIA FRA ARTE E SCIENZA
consigli PER UN’INDAGINE SISTEMICA DEI BENI ARCHEOLOGICI

di Giovanni Di Noto

 

L’Archeologia è in parte la scoperta di tesori del passato, in parte il meticoloso lavoro di un analista scientifico. È faticare sotto il sole in uno scavo fra i resti di Pompei, è lavorare insieme a culture diverse in luoghi diversi, è immergersi nel largo di una costa marina per raggiungere un relitto navale, è indagare le fognature della York Romana; ma è soprattutto il cosciente sforzo attraverso il quale si arriva a comprendere cosa tutto ciò significhi.

 

È necessario quindi che questo sforzo sia effettuato con criterio e coscienza nelle sue fasi interpretative senza saltare alcuno dei delicati passaggi che le compongono, utilizzando diligentemente tutti gli strumenti in possesso dell’operatore: dalla Cartografia Topografica (spesso indispensabile nelle fasi preliminari della ricognizione) alla più sofisticata tecnica di datazione scientifica, e facendo sempre attenzione all’odiosa pecca della concettualizzazione post-litteram e della sovrastruttura culturale.

 

Uno dei problemi fondamentali dello studio Archeologico rimane, infatti, quello relativo alla sua impostazione eccessivamente artistica, connotazione questa che ne ha limitato nel tempo (fortunatamente non fino a oggi) possibilità e sviluppi.

 

L’idea di una storia dell’Arte e di un’Archeologia intese come elementi di trasmissione del concetto di bello e di estetica attraverso il tempo, dall’Antichità a oggi, ha deviato, deformato la spazialità del concetto tramutandolo in un elemento di rappresentanza pur non essendo tale.

 

In altre parole spesso si facevano assurgere singole manifestazioni artistiche a indicatori, spie di civiltà: in realtà non è che ogni greco (per parlare di civiltà Greca) si alzava la mattina per scolpire il Doriforo di Policleto, già Bandinelli lo aveva notato, ma ciò doveva essere frutto di un lungo excursus di evoluzione. In sostanza non si può applicare un concetto generale al particolare elevandolo a simbolo di rappresentanza di tutta una cultura, così come non si può ricostruire un’intera area per concetti partendo solo da un piccolo saggio di scavo; quel saggio e quella cultura, è bene tenerlo presente, possono benissimo essere manifestazioni di fenomeni isolati.

 

In pratica se un Archeologo trova uno strato di incendio nello scavo di un teatro della Berlino post-seconda guerra mondiale non deve necessariamente metterlo in relazione con bombardamenti Inglesi o Americani, certo potrebbe essere ma è altrettanto probabile che lo stesso strato si riferisca a un fenomeno localizzato; le conclusioni andranno tratte solo dopo avere analizzato tutta l’area e aver fatto le corrette proporzioni e relazioni senza farsi fuorviare da schemi mentali che presuppongono appunto sovrastrutture culturali.

 

È necessario sapere infatti che tendiamo naturalmente a interpretare i dati del passato secondo i nostri canoni e modelli applicando a culture infinitamente distanti dalla nostra dei termini di relazione da renderne spesso impossibile una corretta decifrazione. Una prova su tutte è la continua insistenza di voler continuamente denominare culture antiche con definizioni e termini post-litteram (Ossia denominare culture con nomenclature spesso nate secoli dopo che essa si è manifestata). Per non parlare poi di termini appositamente inventati per studiare tutte quelle arti assurdamente definite minori: gli ”Instrumentum Domesticum” per cui s’ipotizzano teoriche fratture insanabili fra arti maggiori e minori, dovrebbero essere un esempio lampante in merito a tale questione.

 

Ma chi stabilisce se un Arte e ”Maggiore” o ”minore”? Il gusto estetico è quanto di più soggettivo e personale possa esistere e troviamo del tutto impressionante che i canoni estetici di Croce e Longhi abbiano influenzato per tanto tempo e così profondamente la nostra società, evidentemente pur prendendo in senso molto lato tale affermazione siamo ancora troppo lontani dalla ”Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, se non si voglia incautamente giustificare il tutto con una sorta di recepimento passivo consolidatosi o per stanchezza o per disinteresse; tuttavia se interessi mai si formano, e grazie e Dio è possibile affermare che se ne sono formati, essi vanno sempre canalizzati verso direzioni meno stereotipate e tradizionali in nome di un’onestà scientifica più alta. Si dovrebbero quindi cominciare a studiare tutti quegli aspetti del mondo antico che non sono solo storia dell’Arte o pura Arte, ma i periodi e le manifestazioni finalizzate ai prodotti della collettività, ai riti culturali e cultuali, gli avvenimenti, l’organizzazione e il tessuto sociale, lo Stato, la burocrazia ecc. e tutto questo andrebbe fatto senza mai discriminare l’ausilio della metodologia scientifica in questa prospettiva.

 

In Italia specialmente su questo punto è doveroso ricordare che fino al 1987 non esisteva un manuale di scavo, lo stesso Lamboglia aveva solo pubblicato i suoi scavi dicendo come aveva fatto ma non aveva composto un trattato di manualistica, e mentre tutte le altre materie scientifiche, dall’Architettura alla Matematica vantavano dei manuali lunghi o brevi che le elevava al rango di discipline l’Archeologia restava confinata nello sterile ripostiglio delle scienze non solo inesatte ma anche “Improbabili”.

 

Si doveva aspettare la nascita del concetto non storico di Archeologia, cioè del fatto che esistono tecniche totalmente indipendenti dalla cronologia dei posti in cui si scava o dalla loro latitudine, per potere finalmente elaborare delle formule, delle tabelle convenzionali che andassero bene ovunque e che facessero uscire l’indagine archeologico-scientifica dalla sua prigione di “Volgarità” e dalla sua prospettiva “Plebea”.

 

Si considera Lapalissiano in questa sede a tal proposito citare l’esempio delle teste di Modigliani, ma sembra alquanto doveroso dire che fin quando la datazione e la valutazione sono di carattere storico-artistico e quindi “Aristocratiche” sono soggettive e possono fallire: il fatto che un Federico Zevi nella sua concezione puramente artistica dica che un tal reperto è di Modigliani, per fare un esempio, non significa che lo sia davvero o che debba necessariamente esserlo. È risaputo altresì che proprio in merito a tale questione proprio la parte più “Plebea” dell’Archeologia (C14, Termoluminescenza, Dendrocronologia, Stratigrafia…) è quella che poi da invece i risultati migliori e che in ogni caso si dimostra in grado di ridurre drasticamente i margini di errore.

 

Il C14 ad esempio, introdotto dopo il 1945, è un metodo di datazione relativamente efficace. Si basa sulle caratteristiche di un nuclide instabile, il C14 che tende a trasformarsi in azoto (N14) eguagliando il numero di protoni e neutroni (14=7+7). Durante questo procedimento vengono emesse delle particelle beta () che possono essere misurate; in sostanza il C14 è un isotopo del C12 che decade (tempo di dimezzamento) con una regolarità costante di 5.760 anni (vita media), attraverso questo principio contando gli atomi e ponendoli in relazione col periodo di dimezzamento possiamo risalire alla datazione dell’oggetto attraverso la formula:

 

 -5.730 % C14

t = -------------. log. --------------

 0,301 100

 

Ciò ci consente di spostarci agevolmente in un ambito di copertura cronologica all’incirca di 50.000 anni e c’è da dire che ultimamente con l’introduzione dell’AMS, ossia spettrometria con acceleratore di massa questo sistema di datazione ci consente di risalire fino a 80.000 anni fa. La sua applicazione, che in ogni caso deve sempre essere calibrata dalla dendrocronologia (curva di Stuiver e Pearson) per offrire dei risultati discretamente attendibili, può comunque differire da laboratorio in laboratorio. Solitamente una datazione al C14 viene espressa nel seguente modo:

 

3.700 +/- 100 BP (P 685)

 

Ciò avviene perché i laboratori che effettuano le datazioni al C14 anno convenzionalmente adottato il 1950 d.C. quale loro presente a causa della variazione di anidride carbonica e C14 avvenuta nell’atmosfera nel corso dei secoli, ma non ci sembra questa la sede adatta per approfondire tale argomento. Basti dire che si tratta di un sistema di datazione dalle molte potenzialità e costantemente in via di perfezionamento. Andando avanti nella rassegna delle datazioni scientifiche altro importante elemento di supporto per gli archeologi è rappresentato dalla termoluminescenza.

 

Si tratta di una tecnica di indagine scientifica basata sul decadimento dei materiali radioattivi presenti nei reperti a struttura cristallina come la ceramica. Uranio, Torio e Potassio radioattivo entrambi presenti, se pure in piccole quantità, nelle classi ceramiche, decadono a velocità costante emettendo radiazioni alfa, beta, gamma che bombardano la struttura cristallina dislocando elettroni e intrappolandoli nei punti di imperfezione del reticolo. Solo quando il materiale viene rapidamente riscaldato a 500° C gli elettroni intrappolati possono fuggire, riportando, per così dire, l’orologio a zero; in questo processo viene emessa una luce che costituisce appunto il fenomeno della termoluminescenza.

 

Misurando la quantità di termoluminescenza emessa da un campione riscaldato in laboratorio si può arrivare a calcolare il tempo trascorso a partire dalla cottura originaria del pezzo. Questo è un metodo di indagine particolarmente efficace quando si ha a che fare con sola cultura materiale perché rispetto al C14 consente di datare elementi inorganici.

 

Certo, nessuno se la sente di affermare a priori l’assoluta infallibilità dei metodi scientifici anche perché in tutti questi sistemi è sempre implicito un certo margine di errore, quel che è certo però è il fatto che rispetto a una datazione di tipo “aristocratico” l’indagine scientifica consente di capire se ci si trova di fronte a un falso! (Modigliani docet). Altri strumenti di carattere scientifico molto efficaci sono forniti dal potassio argon, dalla fissione e dalla stratigrafia sia verticale sia orizzontale. Questa della stratigrafia poi è una conquista del tutto “moderna” in senso stretto che ci consente un’acquisizione analitica dei dati per arrivare a sintesi di carattere storico topografico ricostruttivo.

 

È noto a tutti come la totale comprensione dell’antichità passi attraverso una sequenza più o meno interrotta di grandi scoperte e come questa sequenza trovi il suo apice nell’intuizione da parte dei geologi dell’esistenza di un processo definito “processo di stratificazione”, cioè del fatto che i livelli o gli strati si dispongono uno su l’altro secondo una sequenza che continua tuttora: il contenuto degli strati inferiori è generalmente più antico (esiste l’insidiosa possibilità di materiali intrusivi) di quello degli strati superiori, ma ciò non va assunto come certezza assoluta.

 

Uno dei concetti base della stratigrafia e in generale di tutta la metodologia scientifica è quello di poter ricostruire le vicende antiche in modo più fedelmente possibile al loro originario sviluppo.

 

Sull’area di scavo difatti, applicando questo generale principio non si dovrebbe fare altro che isolare tutta una serie di elementi, metterli in ordine e tendere a interpretarli lentamente e senza fretta facendo coincidere queste interpretazioni a una serie di regole che verranno esaminate più avanti. Il punto di partenza è sostanzialmente il fatto che gli scavi sia di origine antropica sia di altra natura corrispondono a determinate leggi di sovrapposizione. Tutte le forme di stratificazione, geologiche o antropiche, sono infatti il risultato di:

 

1) Erosione 2) Movimento 3) Deposito

 distruzione trasporto accumulo

 

Immaginiamo ad esempio cosa potrebbe accadere a una collinetta di sabbia in questa prospettiva. Probabilmente il vento la rastrellerebbe e la trasporterebbe altrove accumulandola presumibilmente in un terzo luogo ancora, stessa situazione se pensiamo a un uomo che con una pala faccia una buca intaccando lo strato asportandone materiale e gettandolo altrove formando un accumulo…

 

I vari strati sono poi così suddivisi:

 

1. quelli di terra hanno una serie di accumuli indagabili anch’essi con tecniche di indagine risalenti ai geologi, in pratica il terreno possiede una superficie che può essere orizzontale, inclinata o verticale.

2. la superficie di uno strato è delimitata da un contorno e possiede un rilievo che può essere analizzato con curve di livello.

 

3. dal livello della superficie di uno strato combinato con quello degli strati sottostanti si ricava il volume, ossia intervallo unitario che intercorre fra uno strato sovrastante e uno sottostante.

 

Ogni strato quindi ha una sua posizione topografica nello spazio e una sua posizione stratigrafica nel tempo. La stratigrafia corrisponde essenzialmente a quattro leggi fondamentali, anch’esse provenienti dai geologi che sono:

 

Legge dell’originaria sovrapposizione degli strati per cui lo strato più alto è anche il più tardo o recente.

 

Legge dell’originaria orizzontalità per cui tutti gli strati si sono formati sott’acqua e sostanzialmente tendono a essere disposti su piani orizzontali per cui le superfici sono continue.

 

Legge dell’originaria continuità nel senso che tendono a essere continui e se vi sono fratture ciò dipende da interventi esterni.

 

Legge della successione faunistica per cui gli strati sono datati in base ai fossili che contengono.

 

Tutto ciò integrato con delle buone ricognizioni sistematiche generalmente, prescindendo dai risultati, delle buone campagne di scavo.

 

A tal proposito si ritiene doveroso aprire una parentesi su un argomento tanto importante quanto funzionale. Per ricognizione sistematica s’intende l’ispezione diretta (talvolta definita autoptica) di porzioni di territori generalmente sottoposti a coltivazioni, fatta in modo di garantire la copertura uniforme del contesto indagato.

 

I ricognitori organizzati solitamente in squadre attraversano il campo per linee parallele e a intervalli regolari, quando un sito viene rinvenuto i ricognitori abbandonano temporaneamente la marcia e documentano in dettaglio le tracce presenti.

 

Altro tipo di ricognizione è quella autoptica non sistematica che si riferisce in genere a indagini sul territorio che non mirano solitamente a coprire una zona prefissata, tecnica molto utile nello studio dei ruderi e di siti a tutt’oggi abitati come poderi, fattorie o ville disseminati per le campagne.

 

Il tipo di ricognizione comunque più legato alla nostra trattazione e che costituisce un campo di ricerca a parte è quello rappresentato dalle indagini geognostiche e dai sondaggi. Per quanto riguarda le indagini geognostiche la presenza di siti è in genere riscontrabile da anomalie presenti nelle caratteristiche fisiche o chimiche del terreno.

 

Alterazioni della capacità di condurre corrente elettrica ad esempio (Resistività) o nell’orientamento del campo magnetico (geomagnetismo) possono verificarsi in corrispondenza di strutture murarie sepolte di vario genere. Tuttavia la localizzazione di nuovi siti senza altri indizi oltre le seguenti tecniche è resa spinosa dalla possibilità che le anomalie siano semplicemente dovute a particolari conformazioni geopedologiche del sottosuolo. Significativa eccezione a questo sistema di cose è costituita dal georadar. Questo strumento può fornire profili che arrivano a profondità oltre i 10m e coprire distanze notevoli in tempi relativamente brevi.

 

L’uso dei sondaggi è stato invece introdotto dagli archeologi americani (McManamon 1984; Shott 1985) per indagare zone a scarsissima visibilità di superficie, come foreste e pascoli e prevede la realizzazione di fori di piccole dimensioni (es. 50cm) a distanze regolari molto ampie (fino a 100m) in modo da coprire il territorio da indagare con una maglia uniforme di sondaggi che espongano il sottosuolo. I più importanti strumenti per individuare elementi sepolti usando le proprietà magnetiche restano in ogni caso i magnetometri, i radiometri e i rivelatori di metallo (metaldetector).

 

Il magnetometro a protoni (o nucleare) è costituito da un elemento sensibile (sonda) formato da una bottiglia piena d’acqua attorno alla quale viene avvolto un solenoide fissato all’estremità di un braccio; il solenoide è collegato mediante un cavo a un apparecchio elettronico portatile. Il dispositivo è in grado di individuare variazioni piccole ma nette dell’intensità del campo magnetico terrestre causate da oggetti ed elementi sepolti.

 

Si è voluta fare questa rassegna per ricordare che per quanto importante la stratigrafia, essa non avrebbe una così vasta e valida applicabilità se non fosse supportata da altre scienze che consentono non solo l’indagine del sito ma anche e soprattutto la sua localizzazione.

 

Per tornare al nostro discorso invece rimane da chiedersi come siano arrivati i geologi ad affermare che i fossili datano gli strati. Ebbene ciò avviene sulla base del rapporto con la legge della originaria sovrapposizione, cioè quella degli strati alti coincidenti con gli ultimi.

 

Si è visto che i fossili contenuti nei vari strati diminuivano per percentuale se appartenenti a specie viventi man mano che si scendeva verso i livelli più bassi e si sono individuati proprio negli strati più bassi presenze di sole specie estinte. Per cui secondo questo meccanismo nel momento stesso in cui si riusciva a capire che un determinato tipo di fossile stava all’interno di un determinato tipo di strato, automaticamente il fossile datava lo strato e lo strato datava a sua volta altri materiali in esso contenuti.

 

Ragionamento sicuramente utile, ma bisogna tenere presente che mentre nella formazione degli strati geologici il 90% delle cause, se non più, è di carattere naturale, nella formazione degli strati Archeologici si ha spesso una considerevole quantità di interventi umani. Ciò interessato inoltre dall’ulteriore distinzione che negli strati geologici l’opera di distruzione è di lunghissimo periodo mentre in quelli Archeologici ciò si riduce a periodi piuttosto brevi; anzi man mano che la tecnologia aumenta tanto più aumenta la capacità distruttiva di una civiltà nei suoi aspetti topografici: basti pensare che oggi con una ruspa è possibile eseguire il lavoro di cento operai di un secolo fa.

 

Questo comporta un notevole aumento della capacità distruttiva-ricostruttiva degli strati topografici. L’altro fondamentale elemento dal punto di vista culturale è il seguente: Lamboglia aveva intuito la possibilità del riconoscimento stratigrafico, attraverso l’identificazione della terra e alla identificazione di tutte le azioni in una serie di unità stratigrafica (concetto moderno), ma ciò rappresenta ancora oggi una tecnica di indagine dalla potenzialità parzialmente inespressa (forse in realtà solo poco usata).

 

Per fare un esempio, se noi dovessimo procedere a un’indagine di unità stratigrafiche in una stanza dovremmo risalire indietro nel tempo fino alla prima azione che in essa è stata compiuta.

 

Quindi in primis la formazione del pavimento, l’edificazione delle pareti, i materiali aggiuntivi e così via (senza per ora pensare a cosa può succedere quando questa stessa indagine viene condotta in situazioni interessate da strati di crollo che coprono le azioni e che sono essi stessi delle azioni) stabilendo da chi e come sono stati portati i vari materiali (operai, vento, frane?) e considerando sempre il fatto che anche le sovrapposizioni di terra diventano comunque azioni.

 

È necessario tenere presente altresì, per quanto detto sopra, che tutto questo sistema di cose coincide spesso con dei fissi e rigidi schemi mentali (potenzialità inespressa del metodo) che ci inducono a pensare, per meccanismi indotti, in determinate forme piuttosto che in altre.

 

L’esempio che si presta più caldamente a questa concezione è quello relativo al concepimento spesso schematizzato in forma di pieno e non di vuoto: li strati, i pavimenti appunto. In pratica se io realizzo una fogna e rompo il pavimento per costruirla; la rottura del pavimento coincide con l’azione della realizzazione della fogna e questo è un tipo di interpretazione in forma di vuoto; stessa cosa per i palazzi molto antichi in cui spesso scale e scalini presentano concavità storicizzate da secoli di calpestio (Palazzo Università a Catania per esempio).

 

Ora, tutti questi elementi vanno riorganizzati sotto un’altra legge che è la legge dei rapporti intrinseci o meglio definita come:

 

Legge della valutazione dei rapporti intrinseci.

 

I rapporti tra i vari strati possono essere di due tipi:

 

contemporanei

diacronici

 

definiti dalla locuzione:

uguale a

si lega a

 

un muro costruito insieme ad angolo fornisce l’esempio adatto a un’immediata delucidazione, perché in pratica quando si va a identificare questo muro dirò che il muro uno si lega al muro due, oppure non essendo contemporanei identifico un primo e un dopo.

 

Per stabilire i rapporti di successione nel tempo si ricorre invece alle locuzioni:

 

 -Copre o coperto da

è il caso in cui lo strato superiore copre quello inferiore in successione cronologica.

 

 -Si appoggia, gli si appoggia

è il caso di un tramezzo appoggiato successivamente a un muro per esempio

 

 -Taglia o tagliato da

anche questo inteso come elemento di successione temporale

 

 -Riempie o riempito da

è il caso della cavità

 

e in ultimo la cosiddetta:

 

 -Legge del mancato rapporto.

 

Sulla base di queste semplicissime linee direttive ogni archeologo può affrontare qualsiasi scavo senza più doversi fidare ciecamente del parere artistico del barone “x”.

 

L’elemento di portata rivoluzionaria di questi quattro concetti consiste quindi nell’introduzione di punti fermi che l’archeologia mai aveva avuto (basti pensare alle datazioni sulla base del nitore della linea alba) elevandola dalla condizione di semplice scienza umanistica e quindi inesatta al rango di scienza teoricamente riproducibile attraverso strumenti come il disegno cartografico, con la possibilità di fissare dei protocolli che la rendano addirittura dimostrabile.

 

Purtroppo comunque la riproducibilità solo cartografica ne determina un’effettiva irriproducibilità reale allontanandola così dall’atto scientifico propriamente inteso che nelle sue peculiarità essenziali come è risaputo deve essere dimostrabile e riproducibile sempre e ovunque e alle stesse condizioni.

 

L’unica vera possibilità che si ha in questi casi è quella di rendere riproducibile gli studi archeologici in forma documentaria nel miglior modo possibile e nella maniera più fedele. In questi casi poi l’elemento qualificante è dato dal fatto che tutte le azioni di esportazione, di erosione, di movimento, trasporto ecc. vengono riportate minuziosamente in forma grafica, fotografica, filmata, cartografica… che ci permette di avere lo strato di terra come virtualmente ancora esistente e di trarne le conseguenti deduzioni operati gli opportuni studi.

 

È vero che in tutto ciò rimane pur sempre un margine di errore legato alla capacità soggettiva di chi materialmente opera: scavatore, tecnici, disegnatore ma è anche vero che il metodo di per sé presuppone in ogni caso una drastica riduzione di tale margine. Lo scavo archeologico è quindi un atto scientifico checché se ne possa dire e va dunque compiuto dall’archeologo così come è il medico a operare i suoi pazienti senza lasciarlo fare al portantino, e va fatto con tutta l’attenzione che una tale operazione richiede.

 

Già Carandini vedeva la terra come un grande archivio storico ricco di informazioni soggetto a modifiche consistenti a ogni atto di lettura da parte dell’uomo e sollecitava al giusto riguardo nei confronti di esso. In pratica ogni volta che si scava voltando la pagina per leggerla questa pagina si distrugge e non ci rimane per preservarla in qualche modo che “fotocopiarla” attraverso la strumentazione grafica.

 

Ed è proprio grazie a questa strumentazione grafica che siamo oggi in grado di ricostruire ipoteticamente e “idealmente” gli assetti urbanistici, topografici, geomorfologici di siti antichi complessi e meno complessi. Ciò premesso ci limiteremo a esaminare il solo sito di Agrigento per fare un esempio elevandolo luogo rappresentativo di un intero sistema, ma senza dimenticare che ciò meriterebbe uno studio più approfondito e dettagliato (l’urbanistica specie nel mondo greco di Sicilia aveva canoni e proporzioni diversificate tra colonia e colonia).

 

Detto questo passiamo a esaminare direttamente il sito. La conformazione topografica della città moderna per cominciare si interseca e si integra con riferimento ai quartieri antichi che sono anche i più alti (230m S.L.M).

 

I quartieri di S.Geraldo, S. Michele e Madonna degli Angeli sono ancora oggi in un dedalo di stradine strette e ripide che molto bene si prestavano nei tempi passati ai meccanismi di difesa. Le due colline che a Nord fanno da corona, il “Colle di Girgenti” e la “Rupe Atenea” costituivano l’Acropoli della città.

 

Di tipo agrario- ad abitazioni isolate o a gruppi di abitazioni sparse nei campi lottizzati- doveva presentarsi nel suo primo assetto la città siceliota. La ricchezza raggiunta alla metà del VI secolo sotto Falaride (il tiranno del toro direbbe qualcuno) fu soprattutto legata alla fertilità dei sui campi che l’Akragas e l’Hypsos potevano rendere facilmente irrigui. L’area occupata dagli ecisti Aristinoo e Pistillo intorno al 580 fu una valle largamente aperta in leggero declino sul mare ben delimitata dai due fiumi e protette dall’alto rilievo di cui fa parte la Rupe Atenea. Circa 450 ettari di terreno nei quali non si trova una tomba né furono tagliati temeni per gli Dei, potevano verosimilmente rappresentare uno spazio comunitario in quest’area fin dalla fase arcaico-classica.

 

La valle fu tutta circondata da mura imponenti già dalla seconda metà del secolo VI, ma fu sottoposta a un razionale processo di urbanizzazione solo un cinquantennio dopo, il che d’altra parte si riflette nelle porte urbiche chiaramente orientate secondo percorsi provenienti e diretti verso il territorio piuttosto che legate alla maglia cittadina, più tarda.

 

Fuori la linea delle mura meridionali, ma a esse addossate, si raggruppano officine di coroplasti mentre la necropoli, coeva alla fondazione, è stata rinvenuta a 300m dalla portaVI e si estendeva verso est. A partire dal dalla fine del VI secolo i saccelli sulle colline si trasformano gradualmente in templi e la valle comincia la sua lenta urbanizzazione.

 

Si ha certezza che l’impianto per strigas (plateiai e stenopoi) appoggiato su sei plateiai est-ovest larghe 7m e su numerose stenopoi nord-sud con un probabile rapporto 1:2 degli isolati o oikopeda, identificato dalle fotografie aeree negli anni cinquanta, è da far risalire al cadere del VI secolo. In definitiva assistiamo ad Agrigento al consolidarsi e all’affinarsi di principi urbanistici già realizzati a Selinunte un decennio prima e all’incubarsi di tecniche urbanistiche che si sarebbero sempre più perfezionate nei secoli fino agli schemi Ippodamei e oltre.

 

Un discorso a parte meriterebbe in questa rassegna l’archeologia subacquea dai suoi primordiali impulsi (1853/54) fino ai suoi ultimi stadi di evoluzione, ma i limiti di tempo e spazio non consentono di affrontare la questione, ciò che invece in definitiva ci sentiamo di affermare è che quanto esposto sinora dovrebbe sufficientemente dimostrare come la parte scientifica dell’archeologia non possa più essere banalizzata all’interno di denominazioni volgarizzanti come “Plebea” e come anzi la sua evoluzione dalla nascita del concetto non storico e moderno le abbia consentito di fare dei progressi e dei salti qualitativi in auspicabili in una prospettiva “Aristocratica”; con questo non si vuole assolutamente tacciare la connotazione artistica come “inferiore” o “subordinata” ma semplicemente mettere in chiaro una cosa: come Hesse ipotizzava un mondo perfetto se sorretto da artisti e scienziati nel suo gioco delle perle di vetro, allo stesso modo l’archeologia darà i suoi massimi frutti quando terminando teorici e inutili contrasti studiosi e appassionanti saranno in grado di orientare correttamente il suo cammino fra Arte e Scienza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

C. Renfrew, P. Bahn, Archeologia, metodi pratica modelli,

F. Cambi, N. Terreno, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, Carrocci editore

Club Pleun Air Bds, Sicilia tesori nascosti, Palermo, Sigma edizioni,1994-96

G. Pugliese Caratelli, I Greci in occidente, Bompiani

C. Arias, Scienze in archeologia, Firenze, all’insegna del giglio,1990.



 

 

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