N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
ARCHEOLOGIA FRA ARTE E SCIENZA
consigli PER UN’INDAGINE SISTEMICA DEI BENI ARCHEOLOGICI
di Giovanni Di Noto
L’Archeologia
è in
parte
la
scoperta
di
tesori
del
passato,
in
parte
il
meticoloso
lavoro
di
un
analista
scientifico.
È
faticare
sotto
il
sole
in
uno
scavo
fra
i
resti
di
Pompei,
è
lavorare
insieme
a
culture
diverse
in
luoghi
diversi,
è
immergersi
nel
largo
di
una
costa
marina
per
raggiungere
un
relitto
navale,
è
indagare
le
fognature
della
York
Romana;
ma è
soprattutto
il
cosciente
sforzo
attraverso
il
quale
si
arriva
a
comprendere
cosa
tutto
ciò
significhi.
È
necessario
quindi
che
questo
sforzo
sia
effettuato
con
criterio
e
coscienza
nelle
sue
fasi
interpretative
senza
saltare
alcuno
dei
delicati
passaggi
che
le
compongono,
utilizzando
diligentemente
tutti
gli
strumenti
in
possesso
dell’operatore:
dalla
Cartografia
Topografica
(spesso
indispensabile
nelle
fasi
preliminari
della
ricognizione)
alla
più
sofisticata
tecnica
di
datazione
scientifica,
e
facendo
sempre
attenzione
all’odiosa
pecca
della
concettualizzazione
post-litteram
e
della
sovrastruttura
culturale.
Uno
dei
problemi
fondamentali
dello
studio
Archeologico
rimane,
infatti,
quello
relativo
alla
sua
impostazione
eccessivamente
artistica,
connotazione
questa
che
ne
ha
limitato
nel
tempo
(fortunatamente
non
fino
a
oggi)
possibilità
e
sviluppi.
L’idea
di
una
storia
dell’Arte
e di
un’Archeologia
intese
come
elementi
di
trasmissione
del
concetto
di
bello
e di
estetica
attraverso
il
tempo,
dall’Antichità
a
oggi,
ha
deviato,
deformato
la
spazialità
del
concetto
tramutandolo
in
un
elemento
di
rappresentanza
pur
non
essendo
tale.
In
altre
parole
spesso
si
facevano
assurgere
singole
manifestazioni
artistiche
a
indicatori,
spie
di
civiltà:
in
realtà
non
è
che
ogni
greco
(per
parlare
di
civiltà
Greca)
si
alzava
la
mattina
per
scolpire
il
Doriforo
di
Policleto,
già
Bandinelli
lo
aveva
notato,
ma
ciò
doveva
essere
frutto
di
un
lungo
excursus
di
evoluzione.
In
sostanza
non
si
può
applicare
un
concetto
generale
al
particolare
elevandolo
a
simbolo
di
rappresentanza
di
tutta
una
cultura,
così
come
non
si
può
ricostruire
un’intera
area
per
concetti
partendo
solo
da
un
piccolo
saggio
di
scavo;
quel
saggio
e
quella
cultura,
è
bene
tenerlo
presente,
possono
benissimo
essere
manifestazioni
di
fenomeni
isolati.
In
pratica
se
un
Archeologo
trova
uno
strato
di
incendio
nello
scavo
di
un
teatro
della
Berlino
post-seconda
guerra
mondiale
non
deve
necessariamente
metterlo
in
relazione
con
bombardamenti
Inglesi
o
Americani,
certo
potrebbe
essere
ma è
altrettanto
probabile
che
lo
stesso
strato
si
riferisca
a un
fenomeno
localizzato;
le
conclusioni
andranno
tratte
solo
dopo
avere
analizzato
tutta
l’area
e
aver
fatto
le
corrette
proporzioni
e
relazioni
senza
farsi
fuorviare
da
schemi
mentali
che
presuppongono
appunto
sovrastrutture
culturali.
È
necessario
sapere
infatti
che
tendiamo
naturalmente
a
interpretare
i
dati
del
passato
secondo
i
nostri
canoni
e
modelli
applicando
a
culture
infinitamente
distanti
dalla
nostra
dei
termini
di
relazione
da
renderne
spesso
impossibile
una
corretta
decifrazione.
Una
prova
su
tutte
è la
continua
insistenza
di
voler
continuamente
denominare
culture
antiche
con
definizioni
e
termini
post-litteram
(Ossia
denominare
culture
con
nomenclature
spesso
nate
secoli
dopo
che
essa
si è
manifestata).
Per
non
parlare
poi
di
termini
appositamente
inventati
per
studiare
tutte
quelle
arti
assurdamente
definite
minori:
gli
”Instrumentum
Domesticum”
per
cui
s’ipotizzano
teoriche
fratture
insanabili
fra
arti
maggiori
e
minori,
dovrebbero
essere
un
esempio
lampante
in
merito
a
tale
questione.
Ma
chi
stabilisce
se
un
Arte
e
”Maggiore”
o
”minore”?
Il
gusto
estetico
è
quanto
di
più
soggettivo
e
personale
possa
esistere
e
troviamo
del
tutto
impressionante
che
i
canoni
estetici
di
Croce
e
Longhi
abbiano
influenzato
per
tanto
tempo
e
così
profondamente
la
nostra
società,
evidentemente
pur
prendendo
in
senso
molto
lato
tale
affermazione
siamo
ancora
troppo
lontani
dalla
”Fenomenologia
dello
Spirito”
di
Hegel,
se
non
si
voglia
incautamente
giustificare
il
tutto
con
una
sorta
di
recepimento
passivo
consolidatosi
o
per
stanchezza
o
per
disinteresse;
tuttavia
se
interessi
mai
si
formano,
e
grazie
e
Dio
è
possibile
affermare
che
se
ne
sono
formati,
essi
vanno
sempre
canalizzati
verso
direzioni
meno
stereotipate
e
tradizionali
in
nome
di
un’onestà
scientifica
più
alta.
Si
dovrebbero
quindi
cominciare
a
studiare
tutti
quegli
aspetti
del
mondo
antico
che
non
sono
solo
storia
dell’Arte
o
pura
Arte,
ma i
periodi
e le
manifestazioni
finalizzate
ai
prodotti
della
collettività,
ai
riti
culturali
e
cultuali,
gli
avvenimenti,
l’organizzazione
e il
tessuto
sociale,
lo
Stato,
la
burocrazia
ecc.
e
tutto
questo
andrebbe
fatto
senza
mai
discriminare
l’ausilio
della
metodologia
scientifica
in
questa
prospettiva.
In
Italia
specialmente
su
questo
punto
è
doveroso
ricordare
che
fino
al
1987
non
esisteva
un
manuale
di
scavo,
lo
stesso
Lamboglia
aveva
solo
pubblicato
i
suoi
scavi
dicendo
come
aveva
fatto
ma
non
aveva
composto
un
trattato
di
manualistica,
e
mentre
tutte
le
altre
materie
scientifiche,
dall’Architettura
alla
Matematica
vantavano
dei
manuali
lunghi
o
brevi
che
le
elevava
al
rango
di
discipline
l’Archeologia
restava
confinata
nello
sterile
ripostiglio
delle
scienze
non
solo
inesatte
ma
anche
“Improbabili”.
Si
doveva
aspettare
la
nascita
del
concetto
non
storico
di
Archeologia,
cioè
del
fatto
che
esistono
tecniche
totalmente
indipendenti
dalla
cronologia
dei
posti
in
cui
si
scava
o
dalla
loro
latitudine,
per
potere
finalmente
elaborare
delle
formule,
delle
tabelle
convenzionali
che
andassero
bene
ovunque
e
che
facessero
uscire
l’indagine
archeologico-scientifica
dalla
sua
prigione
di
“Volgarità”
e
dalla
sua
prospettiva
“Plebea”.
Si
considera
Lapalissiano
in
questa
sede
a
tal
proposito
citare
l’esempio
delle
teste
di
Modigliani,
ma
sembra
alquanto
doveroso
dire
che
fin
quando
la
datazione
e la
valutazione
sono
di
carattere
storico-artistico
e
quindi
“Aristocratiche”
sono
soggettive
e
possono
fallire:
il
fatto
che
un
Federico
Zevi
nella
sua
concezione
puramente
artistica
dica
che
un
tal
reperto
è di
Modigliani,
per
fare
un
esempio,
non
significa
che
lo
sia
davvero
o
che
debba
necessariamente
esserlo.
È
risaputo
altresì
che
proprio
in
merito
a
tale
questione
proprio
la
parte
più
“Plebea”
dell’Archeologia
(C14,
Termoluminescenza,
Dendrocronologia,
Stratigrafia…)
è
quella
che
poi
da
invece
i
risultati
migliori
e
che
in
ogni
caso
si
dimostra
in
grado
di
ridurre
drasticamente
i
margini
di
errore.
Il
C14
ad
esempio,
introdotto
dopo
il
1945,
è un
metodo
di
datazione
relativamente
efficace.
Si
basa
sulle
caratteristiche
di
un
nuclide
instabile,
il
C14
che
tende
a
trasformarsi
in
azoto
(N14)
eguagliando
il
numero
di
protoni
e
neutroni
(14=7+7).
Durante
questo
procedimento
vengono
emesse
delle
particelle
beta
()
che
possono
essere
misurate;
in
sostanza
il
C14
è un
isotopo
del
C12
che
decade
(tempo
di
dimezzamento)
con
una
regolarità
costante
di
5.760
anni
(vita
media),
attraverso
questo
principio
contando
gli
atomi
e
ponendoli
in
relazione
col
periodo
di
dimezzamento
possiamo
risalire
alla
datazione
dell’oggetto
attraverso
la
formula:
-5.730
%
C14
t =
-------------.
log.
--------------
0,301
100
Ciò
ci
consente
di
spostarci
agevolmente
in
un
ambito
di
copertura
cronologica
all’incirca
di
50.000
anni
e
c’è
da
dire
che
ultimamente
con
l’introduzione
dell’AMS,
ossia
spettrometria
con
acceleratore
di
massa
questo
sistema
di
datazione
ci
consente
di
risalire
fino
a
80.000
anni
fa.
La
sua
applicazione,
che
in
ogni
caso
deve
sempre
essere
calibrata
dalla
dendrocronologia
(curva
di
Stuiver
e
Pearson)
per
offrire
dei
risultati
discretamente
attendibili,
può
comunque
differire
da
laboratorio
in
laboratorio.
Solitamente
una
datazione
al
C14
viene
espressa
nel
seguente
modo:
3.700
+/-
100
BP
(P
685)
Ciò
avviene
perché
i
laboratori
che
effettuano
le
datazioni
al
C14
anno
convenzionalmente
adottato
il
1950
d.C.
quale
loro
presente
a
causa
della
variazione
di
anidride
carbonica
e
C14
avvenuta
nell’atmosfera
nel
corso
dei
secoli,
ma
non
ci
sembra
questa
la
sede
adatta
per
approfondire
tale
argomento.
Basti
dire
che
si
tratta
di
un
sistema
di
datazione
dalle
molte
potenzialità
e
costantemente
in
via
di
perfezionamento.
Andando
avanti
nella
rassegna
delle
datazioni
scientifiche
altro
importante
elemento
di
supporto
per
gli
archeologi
è
rappresentato
dalla
termoluminescenza.
Si
tratta
di
una
tecnica
di
indagine
scientifica
basata
sul
decadimento
dei
materiali
radioattivi
presenti
nei
reperti
a
struttura
cristallina
come
la
ceramica.
Uranio,
Torio
e
Potassio
radioattivo
entrambi
presenti,
se
pure
in
piccole
quantità,
nelle
classi
ceramiche,
decadono
a
velocità
costante
emettendo
radiazioni
alfa,
beta,
gamma
che
bombardano
la
struttura
cristallina
dislocando
elettroni
e
intrappolandoli
nei
punti
di
imperfezione
del
reticolo.
Solo
quando
il
materiale
viene
rapidamente
riscaldato
a
500°
C
gli
elettroni
intrappolati
possono
fuggire,
riportando,
per
così
dire,
l’orologio
a
zero;
in
questo
processo
viene
emessa
una
luce
che
costituisce
appunto
il
fenomeno
della
termoluminescenza.
Misurando
la
quantità
di
termoluminescenza
emessa
da
un
campione
riscaldato
in
laboratorio
si
può
arrivare
a
calcolare
il
tempo
trascorso
a
partire
dalla
cottura
originaria
del
pezzo.
Questo
è un
metodo
di
indagine
particolarmente
efficace
quando
si
ha a
che
fare
con
sola
cultura
materiale
perché
rispetto
al
C14
consente
di
datare
elementi
inorganici.
Certo,
nessuno
se
la
sente
di
affermare
a
priori
l’assoluta
infallibilità
dei
metodi
scientifici
anche
perché
in
tutti
questi
sistemi
è
sempre
implicito
un
certo
margine
di
errore,
quel
che
è
certo
però
è il
fatto
che
rispetto
a
una
datazione
di
tipo
“aristocratico”
l’indagine
scientifica
consente
di
capire
se
ci
si
trova
di
fronte
a un
falso!
(Modigliani
docet).
Altri
strumenti
di
carattere
scientifico
molto
efficaci
sono
forniti
dal
potassio
argon,
dalla
fissione
e
dalla
stratigrafia
sia
verticale
sia
orizzontale.
Questa
della
stratigrafia
poi
è
una
conquista
del
tutto
“moderna”
in
senso
stretto
che
ci
consente
un’acquisizione
analitica
dei
dati
per
arrivare
a
sintesi
di
carattere
storico
topografico
ricostruttivo.
È
noto
a
tutti
come
la
totale
comprensione
dell’antichità
passi
attraverso
una
sequenza
più
o
meno
interrotta
di
grandi
scoperte
e
come
questa
sequenza
trovi
il
suo
apice
nell’intuizione
da
parte
dei
geologi
dell’esistenza
di
un
processo
definito
“processo
di
stratificazione”,
cioè
del
fatto
che
i
livelli
o
gli
strati
si
dispongono
uno
su
l’altro
secondo
una
sequenza
che
continua
tuttora:
il
contenuto
degli
strati
inferiori
è
generalmente
più
antico
(esiste
l’insidiosa
possibilità
di
materiali
intrusivi)
di
quello
degli
strati
superiori,
ma
ciò
non
va
assunto
come
certezza
assoluta.
Uno
dei
concetti
base
della
stratigrafia
e in
generale
di
tutta
la
metodologia
scientifica
è
quello
di
poter
ricostruire
le
vicende
antiche
in
modo
più
fedelmente
possibile
al
loro
originario
sviluppo.
Sull’area
di
scavo
difatti,
applicando
questo
generale
principio
non
si
dovrebbe
fare
altro
che
isolare
tutta
una
serie
di
elementi,
metterli
in
ordine
e
tendere
a
interpretarli
lentamente
e
senza
fretta
facendo
coincidere
queste
interpretazioni
a
una
serie
di
regole
che
verranno
esaminate
più
avanti.
Il
punto
di
partenza
è
sostanzialmente
il
fatto
che
gli
scavi
sia
di
origine
antropica
sia
di
altra
natura
corrispondono
a
determinate
leggi
di
sovrapposizione.
Tutte
le
forme
di
stratificazione,
geologiche
o
antropiche,
sono
infatti
il
risultato
di:
1)
Erosione
2)
Movimento
3)
Deposito
distruzione
trasporto
accumulo
Immaginiamo
ad
esempio
cosa
potrebbe
accadere
a
una
collinetta
di
sabbia
in
questa
prospettiva.
Probabilmente
il
vento
la
rastrellerebbe
e la
trasporterebbe
altrove
accumulandola
presumibilmente
in
un
terzo
luogo
ancora,
stessa
situazione
se
pensiamo
a un
uomo
che
con
una
pala
faccia
una
buca
intaccando
lo
strato
asportandone
materiale
e
gettandolo
altrove
formando
un
accumulo…
I
vari
strati
sono
poi
così
suddivisi:
1.
quelli
di
terra
hanno
una
serie
di
accumuli
indagabili
anch’essi
con
tecniche
di
indagine
risalenti
ai
geologi,
in
pratica
il
terreno
possiede
una
superficie
che
può
essere
orizzontale,
inclinata
o
verticale.
2.
la
superficie
di
uno
strato
è
delimitata
da
un
contorno
e
possiede
un
rilievo
che
può
essere
analizzato
con
curve
di
livello.
3.
dal
livello
della
superficie
di
uno
strato
combinato
con
quello
degli
strati
sottostanti
si
ricava
il
volume,
ossia
intervallo
unitario
che
intercorre
fra
uno
strato
sovrastante
e
uno
sottostante.
Ogni
strato
quindi
ha
una
sua
posizione
topografica
nello
spazio
e
una
sua
posizione
stratigrafica
nel
tempo.
La
stratigrafia
corrisponde
essenzialmente
a
quattro
leggi
fondamentali,
anch’esse
provenienti
dai
geologi
che
sono:
Legge
dell’originaria
sovrapposizione
degli
strati
per
cui
lo
strato
più
alto
è
anche
il
più
tardo
o
recente.
Legge
dell’originaria
orizzontalità
per
cui
tutti
gli
strati
si
sono
formati
sott’acqua
e
sostanzialmente
tendono
a
essere
disposti
su
piani
orizzontali
per
cui
le
superfici
sono
continue.
Legge
dell’originaria
continuità
nel
senso
che
tendono
a
essere
continui
e se
vi
sono
fratture
ciò
dipende
da
interventi
esterni.
Legge
della
successione
faunistica
per
cui
gli
strati
sono
datati
in
base
ai
fossili
che
contengono.
Tutto
ciò
integrato
con
delle
buone
ricognizioni
sistematiche
generalmente,
prescindendo
dai
risultati,
delle
buone
campagne
di
scavo.
A
tal
proposito
si
ritiene
doveroso
aprire
una
parentesi
su
un
argomento
tanto
importante
quanto
funzionale.
Per
ricognizione
sistematica
s’intende
l’ispezione
diretta
(talvolta
definita
autoptica)
di
porzioni
di
territori
generalmente
sottoposti
a
coltivazioni,
fatta
in
modo
di
garantire
la
copertura
uniforme
del
contesto
indagato.
I
ricognitori
organizzati
solitamente
in
squadre
attraversano
il
campo
per
linee
parallele
e a
intervalli
regolari,
quando
un
sito
viene
rinvenuto
i
ricognitori
abbandonano
temporaneamente
la
marcia
e
documentano
in
dettaglio
le
tracce
presenti.
Altro
tipo
di
ricognizione
è
quella
autoptica
non
sistematica
che
si
riferisce
in
genere
a
indagini
sul
territorio
che
non
mirano
solitamente
a
coprire
una
zona
prefissata,
tecnica
molto
utile
nello
studio
dei
ruderi
e di
siti
a
tutt’oggi
abitati
come
poderi,
fattorie
o
ville
disseminati
per
le
campagne.
Il
tipo
di
ricognizione
comunque
più
legato
alla
nostra
trattazione
e
che
costituisce
un
campo
di
ricerca
a
parte
è
quello
rappresentato
dalle
indagini
geognostiche
e
dai
sondaggi.
Per
quanto
riguarda
le
indagini
geognostiche
la
presenza
di
siti
è in
genere
riscontrabile
da
anomalie
presenti
nelle
caratteristiche
fisiche
o
chimiche
del
terreno.
Alterazioni
della
capacità
di
condurre
corrente
elettrica
ad
esempio
(Resistività)
o
nell’orientamento
del
campo
magnetico
(geomagnetismo)
possono
verificarsi
in
corrispondenza
di
strutture
murarie
sepolte
di
vario
genere.
Tuttavia
la
localizzazione
di
nuovi
siti
senza
altri
indizi
oltre
le
seguenti
tecniche
è
resa
spinosa
dalla
possibilità
che
le
anomalie
siano
semplicemente
dovute
a
particolari
conformazioni
geopedologiche
del
sottosuolo.
Significativa
eccezione
a
questo
sistema
di
cose
è
costituita
dal
georadar.
Questo
strumento
può
fornire
profili
che
arrivano
a
profondità
oltre
i
10m
e
coprire
distanze
notevoli
in
tempi
relativamente
brevi.
L’uso
dei
sondaggi
è
stato
invece
introdotto
dagli
archeologi
americani
(McManamon
1984;
Shott
1985)
per
indagare
zone
a
scarsissima
visibilità
di
superficie,
come
foreste
e
pascoli
e
prevede
la
realizzazione
di
fori
di
piccole
dimensioni
(es.
50cm)
a
distanze
regolari
molto
ampie
(fino
a
100m)
in
modo
da
coprire
il
territorio
da
indagare
con
una
maglia
uniforme
di
sondaggi
che
espongano
il
sottosuolo.
I
più
importanti
strumenti
per
individuare
elementi
sepolti
usando
le
proprietà
magnetiche
restano
in
ogni
caso
i
magnetometri,
i
radiometri
e i
rivelatori
di
metallo
(metaldetector).
Il
magnetometro
a
protoni
(o
nucleare)
è
costituito
da
un
elemento
sensibile
(sonda)
formato
da
una
bottiglia
piena
d’acqua
attorno
alla
quale
viene
avvolto
un
solenoide
fissato
all’estremità
di
un
braccio;
il
solenoide
è
collegato
mediante
un
cavo
a un
apparecchio
elettronico
portatile.
Il
dispositivo
è in
grado
di
individuare
variazioni
piccole
ma
nette
dell’intensità
del
campo
magnetico
terrestre
causate
da
oggetti
ed
elementi
sepolti.
Si è
voluta
fare
questa
rassegna
per
ricordare
che
per
quanto
importante
la
stratigrafia,
essa
non
avrebbe
una
così
vasta
e
valida
applicabilità
se
non
fosse
supportata
da
altre
scienze
che
consentono
non
solo
l’indagine
del
sito
ma
anche
e
soprattutto
la
sua
localizzazione.
Per
tornare
al
nostro
discorso
invece
rimane
da
chiedersi
come
siano
arrivati
i
geologi
ad
affermare
che
i
fossili
datano
gli
strati.
Ebbene
ciò
avviene
sulla
base
del
rapporto
con
la
legge
della
originaria
sovrapposizione,
cioè
quella
degli
strati
alti
coincidenti
con
gli
ultimi.
Si è
visto
che
i
fossili
contenuti
nei
vari
strati
diminuivano
per
percentuale
se
appartenenti
a
specie
viventi
man
mano
che
si
scendeva
verso
i
livelli
più
bassi
e si
sono
individuati
proprio
negli
strati
più
bassi
presenze
di
sole
specie
estinte.
Per
cui
secondo
questo
meccanismo
nel
momento
stesso
in
cui
si
riusciva
a
capire
che
un
determinato
tipo
di
fossile
stava
all’interno
di
un
determinato
tipo
di
strato,
automaticamente
il
fossile
datava
lo
strato
e lo
strato
datava
a
sua
volta
altri
materiali
in
esso
contenuti.
Ragionamento
sicuramente
utile,
ma
bisogna
tenere
presente
che
mentre
nella
formazione
degli
strati
geologici
il
90%
delle
cause,
se
non
più,
è di
carattere
naturale,
nella
formazione
degli
strati
Archeologici
si
ha
spesso
una
considerevole
quantità
di
interventi
umani.
Ciò
interessato
inoltre
dall’ulteriore
distinzione
che
negli
strati
geologici
l’opera
di
distruzione
è di
lunghissimo
periodo
mentre
in
quelli
Archeologici
ciò
si
riduce
a
periodi
piuttosto
brevi;
anzi
man
mano
che
la
tecnologia
aumenta
tanto
più
aumenta
la
capacità
distruttiva
di
una
civiltà
nei
suoi
aspetti
topografici:
basti
pensare
che
oggi
con
una
ruspa
è
possibile
eseguire
il
lavoro
di
cento
operai
di
un
secolo
fa.
Questo
comporta
un
notevole
aumento
della
capacità
distruttiva-ricostruttiva
degli
strati
topografici.
L’altro
fondamentale
elemento
dal
punto
di
vista
culturale
è il
seguente:
Lamboglia
aveva
intuito
la
possibilità
del
riconoscimento
stratigrafico,
attraverso
l’identificazione
della
terra
e
alla
identificazione
di
tutte
le
azioni
in
una
serie
di
unità
stratigrafica
(concetto
moderno),
ma
ciò
rappresenta
ancora
oggi
una
tecnica
di
indagine
dalla
potenzialità
parzialmente
inespressa
(forse
in
realtà
solo
poco
usata).
Per
fare
un
esempio,
se
noi
dovessimo
procedere
a
un’indagine
di
unità
stratigrafiche
in
una
stanza
dovremmo
risalire
indietro
nel
tempo
fino
alla
prima
azione
che
in
essa
è
stata
compiuta.
Quindi
in
primis
la
formazione
del
pavimento,
l’edificazione
delle
pareti,
i
materiali
aggiuntivi
e
così
via
(senza
per
ora
pensare
a
cosa
può
succedere
quando
questa
stessa
indagine
viene
condotta
in
situazioni
interessate
da
strati
di
crollo
che
coprono
le
azioni
e
che
sono
essi
stessi
delle
azioni)
stabilendo
da
chi
e
come
sono
stati
portati
i
vari
materiali
(operai,
vento,
frane?)
e
considerando
sempre
il
fatto
che
anche
le
sovrapposizioni
di
terra
diventano
comunque
azioni.
È
necessario
tenere
presente
altresì,
per
quanto
detto
sopra,
che
tutto
questo
sistema
di
cose
coincide
spesso
con
dei
fissi
e
rigidi
schemi
mentali
(potenzialità
inespressa
del
metodo)
che
ci
inducono
a
pensare,
per
meccanismi
indotti,
in
determinate
forme
piuttosto
che
in
altre.
L’esempio
che
si
presta
più
caldamente
a
questa
concezione
è
quello
relativo
al
concepimento
spesso
schematizzato
in
forma
di
pieno
e
non
di
vuoto:
li
strati,
i
pavimenti
appunto.
In
pratica
se
io
realizzo
una
fogna
e
rompo
il
pavimento
per
costruirla;
la
rottura
del
pavimento
coincide
con
l’azione
della
realizzazione
della
fogna
e
questo
è un
tipo
di
interpretazione
in
forma
di
vuoto;
stessa
cosa
per
i
palazzi
molto
antichi
in
cui
spesso
scale
e
scalini
presentano
concavità
storicizzate
da
secoli
di
calpestio
(Palazzo
Università
a
Catania
per
esempio).
Ora,
tutti
questi
elementi
vanno
riorganizzati
sotto
un’altra
legge
che
è la
legge
dei
rapporti
intrinseci
o
meglio
definita
come:
Legge
della
valutazione
dei
rapporti
intrinseci.
I
rapporti
tra
i
vari
strati
possono
essere
di
due
tipi:
contemporanei
diacronici
definiti
dalla
locuzione:
uguale
a
si
lega
a
un
muro
costruito
insieme
ad
angolo
fornisce
l’esempio
adatto
a
un’immediata
delucidazione,
perché
in
pratica
quando
si
va a
identificare
questo
muro
dirò
che
il
muro
uno
si
lega
al
muro
due,
oppure
non
essendo
contemporanei
identifico
un
primo
e un
dopo.
Per
stabilire
i
rapporti
di
successione
nel
tempo
si
ricorre
invece
alle
locuzioni:
-Copre
o
coperto
da
è il
caso
in
cui
lo
strato
superiore
copre
quello
inferiore
in
successione
cronologica.
-Si
appoggia,
gli
si
appoggia
è il
caso
di
un
tramezzo
appoggiato
successivamente
a un
muro
per
esempio
-Taglia
o
tagliato
da
anche
questo
inteso
come
elemento
di
successione
temporale
-Riempie
o
riempito
da
è il
caso
della
cavità
e in
ultimo
la
cosiddetta:
-Legge
del
mancato
rapporto.
Sulla
base
di
queste
semplicissime
linee
direttive
ogni
archeologo
può
affrontare
qualsiasi
scavo
senza
più
doversi
fidare
ciecamente
del
parere
artistico
del
barone
“x”.
L’elemento
di
portata
rivoluzionaria
di
questi
quattro
concetti
consiste
quindi
nell’introduzione
di
punti
fermi
che
l’archeologia
mai
aveva
avuto
(basti
pensare
alle
datazioni
sulla
base
del
nitore
della
linea
alba)
elevandola
dalla
condizione
di
semplice
scienza
umanistica
e
quindi
inesatta
al
rango
di
scienza
teoricamente
riproducibile
attraverso
strumenti
come
il
disegno
cartografico,
con
la
possibilità
di
fissare
dei
protocolli
che
la
rendano
addirittura
dimostrabile.
Purtroppo
comunque
la
riproducibilità
solo
cartografica
ne
determina
un’effettiva
irriproducibilità
reale
allontanandola
così
dall’atto
scientifico
propriamente
inteso
che
nelle
sue
peculiarità
essenziali
come
è
risaputo
deve
essere
dimostrabile
e
riproducibile
sempre
e
ovunque
e
alle
stesse
condizioni.
L’unica
vera
possibilità
che
si
ha
in
questi
casi
è
quella
di
rendere
riproducibile
gli
studi
archeologici
in
forma
documentaria
nel
miglior
modo
possibile
e
nella
maniera
più
fedele.
In
questi
casi
poi
l’elemento
qualificante
è
dato
dal
fatto
che
tutte
le
azioni
di
esportazione,
di
erosione,
di
movimento,
trasporto
ecc.
vengono
riportate
minuziosamente
in
forma
grafica,
fotografica,
filmata,
cartografica…
che
ci
permette
di
avere
lo
strato
di
terra
come
virtualmente
ancora
esistente
e di
trarne
le
conseguenti
deduzioni
operati
gli
opportuni
studi.
È
vero
che
in
tutto
ciò
rimane
pur
sempre
un
margine
di
errore
legato
alla
capacità
soggettiva
di
chi
materialmente
opera:
scavatore,
tecnici,
disegnatore
ma è
anche
vero
che
il
metodo
di
per
sé
presuppone
in
ogni
caso
una
drastica
riduzione
di
tale
margine.
Lo
scavo
archeologico
è
quindi
un
atto
scientifico
checché
se
ne
possa
dire
e va
dunque
compiuto
dall’archeologo
così
come
è il
medico
a
operare
i
suoi
pazienti
senza
lasciarlo
fare
al
portantino,
e va
fatto
con
tutta
l’attenzione
che
una
tale
operazione
richiede.
Già
Carandini
vedeva
la
terra
come
un
grande
archivio
storico
ricco
di
informazioni
soggetto
a
modifiche
consistenti
a
ogni
atto
di
lettura
da
parte
dell’uomo
e
sollecitava
al
giusto
riguardo
nei
confronti
di
esso.
In
pratica
ogni
volta
che
si
scava
voltando
la
pagina
per
leggerla
questa
pagina
si
distrugge
e
non
ci
rimane
per
preservarla
in
qualche
modo
che
“fotocopiarla”
attraverso
la
strumentazione
grafica.
Ed è
proprio
grazie
a
questa
strumentazione
grafica
che
siamo
oggi
in
grado
di
ricostruire
ipoteticamente
e
“idealmente”
gli
assetti
urbanistici,
topografici,
geomorfologici
di
siti
antichi
complessi
e
meno
complessi.
Ciò
premesso
ci
limiteremo
a
esaminare
il
solo
sito
di
Agrigento
per
fare
un
esempio
elevandolo
luogo
rappresentativo
di
un
intero
sistema,
ma
senza
dimenticare
che
ciò
meriterebbe
uno
studio
più
approfondito
e
dettagliato
(l’urbanistica
specie
nel
mondo
greco
di
Sicilia
aveva
canoni
e
proporzioni
diversificate
tra
colonia
e
colonia).
Detto
questo
passiamo
a
esaminare
direttamente
il
sito.
La
conformazione
topografica
della
città
moderna
per
cominciare
si
interseca
e si
integra
con
riferimento
ai
quartieri
antichi
che
sono
anche
i
più
alti
(230m
S.L.M).
I
quartieri
di
S.Geraldo,
S.
Michele
e
Madonna
degli
Angeli
sono
ancora
oggi
in
un
dedalo
di
stradine
strette
e
ripide
che
molto
bene
si
prestavano
nei
tempi
passati
ai
meccanismi
di
difesa.
Le
due
colline
che
a
Nord
fanno
da
corona,
il
“Colle
di
Girgenti”
e la
“Rupe
Atenea”
costituivano
l’Acropoli
della
città.
Di
tipo
agrario-
ad
abitazioni
isolate
o a
gruppi
di
abitazioni
sparse
nei
campi
lottizzati-
doveva
presentarsi
nel
suo
primo
assetto
la
città
siceliota.
La
ricchezza
raggiunta
alla
metà
del
VI
secolo
sotto
Falaride
(il
tiranno
del
toro
direbbe
qualcuno)
fu
soprattutto
legata
alla
fertilità
dei
sui
campi
che
l’Akragas
e l’Hypsos
potevano
rendere
facilmente
irrigui.
L’area
occupata
dagli
ecisti
Aristinoo
e
Pistillo
intorno
al
580
fu
una
valle
largamente
aperta
in
leggero
declino
sul
mare
ben
delimitata
dai
due
fiumi
e
protette
dall’alto
rilievo
di
cui
fa
parte
la
Rupe
Atenea.
Circa
450
ettari
di
terreno
nei
quali
non
si
trova
una
tomba
né
furono
tagliati
temeni
per
gli
Dei,
potevano
verosimilmente
rappresentare
uno
spazio
comunitario
in
quest’area
fin
dalla
fase
arcaico-classica.
La
valle
fu
tutta
circondata
da
mura
imponenti
già
dalla
seconda
metà
del
secolo
VI,
ma
fu
sottoposta
a un
razionale
processo
di
urbanizzazione
solo
un
cinquantennio
dopo,
il
che
d’altra
parte
si
riflette
nelle
porte
urbiche
chiaramente
orientate
secondo
percorsi
provenienti
e
diretti
verso
il
territorio
piuttosto
che
legate
alla
maglia
cittadina,
più
tarda.
Fuori
la
linea
delle
mura
meridionali,
ma a
esse
addossate,
si
raggruppano
officine
di
coroplasti
mentre
la
necropoli,
coeva
alla
fondazione,
è
stata
rinvenuta
a
300m
dalla
portaVI
e si
estendeva
verso
est.
A
partire
dal
dalla
fine
del
VI
secolo
i
saccelli
sulle
colline
si
trasformano
gradualmente
in
templi
e la
valle
comincia
la
sua
lenta
urbanizzazione.
Si
ha
certezza
che
l’impianto
per
strigas
(plateiai
e
stenopoi)
appoggiato
su
sei
plateiai
est-ovest
larghe
7m e
su
numerose
stenopoi
nord-sud
con
un
probabile
rapporto
1:2
degli
isolati
o
oikopeda,
identificato
dalle
fotografie
aeree
negli
anni
cinquanta,
è da
far
risalire
al
cadere
del
VI
secolo.
In
definitiva
assistiamo
ad
Agrigento
al
consolidarsi
e
all’affinarsi
di
principi
urbanistici
già
realizzati
a
Selinunte
un
decennio
prima
e
all’incubarsi
di
tecniche
urbanistiche
che
si
sarebbero
sempre
più
perfezionate
nei
secoli
fino
agli
schemi
Ippodamei
e
oltre.
Un
discorso
a
parte
meriterebbe
in
questa
rassegna
l’archeologia
subacquea
dai
suoi
primordiali
impulsi
(1853/54)
fino
ai
suoi
ultimi
stadi
di
evoluzione,
ma i
limiti
di
tempo
e
spazio
non
consentono
di
affrontare
la
questione,
ciò
che
invece
in
definitiva
ci
sentiamo
di
affermare
è
che
quanto
esposto
sinora
dovrebbe
sufficientemente
dimostrare
come
la
parte
scientifica
dell’archeologia
non
possa
più
essere
banalizzata
all’interno
di
denominazioni
volgarizzanti
come
“Plebea”
e
come
anzi
la
sua
evoluzione
dalla
nascita
del
concetto
non
storico
e
moderno
le
abbia
consentito
di
fare
dei
progressi
e
dei
salti
qualitativi
in
auspicabili
in
una
prospettiva
“Aristocratica”;
con
questo
non
si
vuole
assolutamente
tacciare
la
connotazione
artistica
come
“inferiore”
o
“subordinata”
ma
semplicemente
mettere
in
chiaro
una
cosa:
come
Hesse
ipotizzava
un
mondo
perfetto
se
sorretto
da
artisti
e
scienziati
nel
suo
gioco
delle
perle
di
vetro,
allo
stesso
modo
l’archeologia
darà
i
suoi
massimi
frutti
quando
terminando
teorici
e
inutili
contrasti
studiosi
e
appassionanti
saranno
in
grado
di
orientare
correttamente
il
suo
cammino
fra
Arte
e
Scienza.
Riferimenti
bibliografici:
C.
Renfrew,
P.
Bahn,
Archeologia,
metodi
pratica
modelli,
F.
Cambi,
N.
Terreno,
Introduzione
all’archeologia
dei
paesaggi,
Carrocci
editore
Club
Pleun
Air
Bds,
Sicilia
tesori
nascosti,
Palermo,
Sigma
edizioni,1994-96
G.
Pugliese
Caratelli,
I
Greci
in
occidente,
Bompiani
C.
Arias,
Scienze
in
archeologia,
Firenze,
all’insegna
del
giglio,1990.