N. 101 - Maggio 2016
(CXXXII)
arabi
in
sicilia
progresso
agronomico
e
mutazione
del
paesaggio
di
Federica
Campanelli
Il
secolare
ruolo
di
“granaio”
rivestito
dalla
Sicilia
in
epoca
antica,
aveva
consegnato
ai
nuovi
dominatori
musulmani
un
paese
segnato
dalla
persistente
pratica
della
coltivazione
estensiva
dei
cereali.
La
massiccia
presenza
del
latifondo
destinato
alla
monocoltura
aveva
nel
tempo
depauperato
il
territorio,
inaridito
i
suoli
e
spento
la
biodiversità.
Ma
la
civiltà
islamica,
che
già
nell’IX
secolo
vantava
conquiste
territoriali
–
quindi
scambi
culturali
– a
vasto
raggio,
seppe
rivoluzionare
radicalmente
la
situazione:
l’impero
arabo
guardava
a
Oriente
e
importava
in
Occidente:
introdusse
avanzate
competenze
scientifiche
e
nuove
tecniche
rurali
in
grado
di
sostenere
la
coltivazione
delle
numerose
e
nuove
specie
di
piante
da
frutto,
e
soprattutto
di
ortaggi,
sopraggiunte
nell’isola.
Gli
arabi
attuarono
un
vero
e
proprio
processo
di
mediazione
culturale
e
promossero
in
Sicilia
nuove
metodologie
per
lo
sfruttamento
energetico
delle
fonti
idriche,
nuove
metodologie
che
a
loro
volta
avevano
messo
a
punto
assorbendo
varie
competenze
nei
paesi
del
medio
e
lontano
Oriente.
Non
è
affatto
un
controsenso,
quindi,
che
tale
rivoluzione
agronomica,
improntata
specialmente
sulle
innovative
tecniche
di
convogliamento,
conservazione
e
razionale
distribuzione
dell’acqua,
sia
scaturita
da
una
popolazione
d’origine
nomade.
Chi
oggi
conosce
e
pratica
il
territorio
siciliano
può
cogliere
quello
straordinario
lascito
anche
nel
sostanzioso
numero
di
vocaboli
pertinenti,
soprattutto,
alle
attività
dell’agricoltura
e
del
giardinaggio:
catusu,
cubba,
favara,
gebbia,
saja,
zagara,
zuccu…
sono
solo
alcuni
lemmi
ereditati
dall’esperienza
araba
in
Sicilia.
È da
questa
esperienza
che
hanno
avuto
vita
(una
vita
lunghissima)
i
prodotti
tipici
del
Meridione:
limone,
arancio,
pesco,
albicocco,
carrubo,
melo
cotogno,
melograno,
gelso,
asparagi,
pistacchio,
cotone,
canna
da
zucchero,
palma
da
dattero,
grano
duro,
sesamo,
riso,
melanzane,
spinaci,
cetrioli,
zucche
e
zucchine,
meloni,
angurie,
ficodindia,
cipolle...
da
cui
gli
spettacolari
risultati
raggiunti
in
campo
gastronomico,
dal
dolce
al
salato,
che
hanno
contribuito
al
marchio
del
made
in
Sicily.
Tra
le
iniziative
d’ingegneria
idraulica
più
efficienti
e
rivoluzionarie
vi
furono
le
ampie
reti
di
distribuzione
idrica
sotterranea
basate
sul
qanat,
d’origine
iranica,
tecnica
che
ben
si
adattava
ai
territori
della
Sicilia,
del
Nord
Africa
e
della
penisola
iberica.
Tale
espediente,
oltre
a
rinvigorire
l’agricoltura,
finalmente
dedita
a
nuove
pratiche
di
coltura
intensiva,
comportò
un
netto
miglioramento
delle
condizioni
di
vita
cittadina,
permettendo
altresì
la
realizzazione
dei
caratteristici
e
lussuosi
giardini
privati.
Per
la
realizzazione
del
qanat
(a
Palermo,
dove
tutt’ora
sono
visitabili
alcune
opere
idrauliche
di
matrice
araba,
i
qanat
sono
noti
come
’ngruttati),
una
volta
identificata
la
falda
sotterranea
da
cui
attingere
l’acqua,
generalmente
situata
in
un’area
pedemontana,
si
operava
scavando
una
serie
cunicoli
ad
andamento
verticale,
che
dalla
superficie
scendevano
fino
alla
profondità
in
cui
veniva
poi
eseguito
il
canale
principale
che
intercettava
la
falda
acquifera.
I
cunicoli
verticali
non
solo
consentivano
l’estrazione
di
materiale
durante
la
realizzazione
del qanat,
ma
fungevano
anche
da
pozzi
per
l’approvvigionamento
idrico
pubblico
e
privato.
Lo
scavo
del
qanat,
eseguito
dai
maestri
muqanni,
iniziava
a
valle,
laddove
si
collocava
lo
sbocco
del
canale,
per
poi
risalire
a
monte.
Inutile
dire
quali
e
quante
competenze
in
materia
di
geomorfologia
e
tecnologia
fossero
necessarie
per
portare
avanti
un
progetto
simile.
I qanat erano
in
grado
di
coprire
distanze
lunghissime
e
nel
loro
percorso
sotterraneo
mantenevano
sempre
la
minima
pendenza
possibile,
affinché
il
flusso
dell’acqua
si
mantenesse
costante
ma
sufficientemente
lento
da
non
causare
fenomeni
d’erosione
delle
pareti
del
canale.
Per
la
captazione
delle
acque
particolarmente
diffusa
era
la
noria,
in
siciliano
sénia,
cioè
una
ruota
idraulica
azionata
dal
tiro
di
animali
che
per
mezzo
di
orci
attingeva
l’acqua
dai
pozzi
e
riempiva
le
gebbie,
termine
arabo
ancora
largamente
usato
in
Sicilia
per
definire
le
cisterne
in
muratura
onnipresenti
nelle
campagne.
L’acqua
convogliata
nella
gebbia
veniva
distribuita
per
l’irrigazione
dei
campi
tramite
canalette,
cioè
le
saje.
Insomma,
la
nuova
realtà
rurale,
dove
chi
“possedeva”
l’acqua
e ne
vendeva
le
concessioni
per
l’utilizzo
era
in
netto
vantaggio
rispetto
ai
possidenti
terrieri,
dovette
far
mutare
molto
la
società
e il
paesaggio
siciliano:
dai
terrazzamenti
con
muretti
a
secco
di
contenimento,
ai
numerosi
mulini
ad
acqua
(di
notevole
diffusione
in
tutto
il
bacino
del
Mediterraneo),
dai
nuovi
sistemi
d’irrigazione,
alla
costruzione
dei
giardini.
Tra
l’altro
alla
fornitura
di
servizi
e
infrastrutture
utili
al
programma
di
bonifica
dei
suoli
e
sviluppo
agricolo
è
intimamente
legata
la
presenza
d’insediamenti
sparsi
(qarya)
e
caseggiati
rurali,
o
rahal.
Tante
furono
le
dimostrazioni
del
rinnovato
e
fecondo
rapporto
uomo-territorio,
ormai
lontano
dal
passivo
sistema
latifondista,
e
imperniato
sull’equilibrio,
l’educazione
e
l’adattamento
reciproco.