N. 17 - Maggio 2009
(XLVIII)
l'aquila:
terremoto del 1703
una catastrofe
ignorata
di Francesco Marconi
Parlare del terremoto del 6 aprile che, in piena notte e in
soli 20 secondi, ha distrutto la mia duecentesca e
storica Città, è difficile farlo con freddezza e
distacco con cui giudicherei l’avvenimento osservandolo
non da giovane aquilano.
Sono invece, fortemente legato a quel “prezioso mondo” in
cui, vivendo lontano, ho la certezza di ritrovare sempre
affetti familiari, ricordi di persone riferibili alla
mia adolescenza, luoghi noti inseriti in un splendente
contesto artistico e monumentale.
Ma nonostante tutto bisogna guardare oltre l’emergenza; il
popolo abruzzese è stato formato a reagire dalla
sofferenza, ma come non riflettere sul fatto che se le
calamità naturali non possono essere evitate, si può al
contrario ridurne il pericolo e mitigarne gli effetti.
L’arte del recupero e della giusta considerazione della
memoria storica sembra essere tuttavia estranea alla
nostra natura di aquilani.
L’Aquila ha sofferto nei secoli passati le conseguenze
catastrofiche di diversi terremoti di cui studiosi e
storici aquilani si sono occupati, ma nel tempo sulla
loro testimonianza hanno finito per prevalere: fatalismo
individuale, imperizia amministrativa, affarismo
edilizio, imprevidenza collettiva.
I documenti relativi al devastante terremoto del 2 febbraio
1703 custoditi nell’Archivio di Stato dell’Aquila, da me
esaminati al tempo della stesura della tesi di laurea,
evidenziano diverse coincidenze storiche ed economiche
con l’attuale sisma e come ad un iniziale sentimento
d’impotenza umana, gli abitanti dell’Aquila siano
riusciti a trovare la certezza nella continuità della
vita, una generale rimotivazione a vivere, la voglia di
ricostruire la propria tela di civiltà, le proprie case,
le Chiese, i campanili dimezzati, i palazzi storici
custoditi nell’antica cerchia muraria.
La base della ricerca è essenzialmente costituita dalla
documentazione catastale settecentesca voluta da Carlo
di Borbone in un'ottica di riorganizzazione del sistema
tributario del Regno di Napoli e, almeno nelle
intenzioni, per cercare una più equa ripartizione del
carico fiscale tra le varie categorie di contribuenti.
La struttura stessa del catasto borbonico, e nello
specifico quella del catasto della città dell'Aquila,
permette di ricavare una mole considerevole di
informazioni riguardanti la composizione dei nuclei
familiari, i mestieri svolti dai capifamiglia, le
proprietà di beni immobili e le rendite che da tali
proprietà scaturivano, nonché l'indicazione di eventuali
crediti e debiti in capo alle singole famiglie.
La vita economica di una città dell'antico regime è infatti
fortemente condizionata dalla conoscenza dello spazio
che la circonda, dalla popolazione, dalle rendite e dal
contado circostante, nonché dai flussi di capitale
nell'ambito della stessa.
La sezione Archivio Civico dell'Archivio di Stato
dell'Aquila conserva i 18 tomi che formano il catasto
cosiddetto "Onciario" a partire dal 1756 rilevando i
beni che i cittadini dell'Aquila e i forestieri
residenti possedevano nella città stessa o nell'area del
circostante contado.
Il Catasto Onciario costituisce, infatti, una duplice fonte
di informazione, "in primis" a carattere singolare e
analitico in merito alle singole famiglie, e poi anche a
livello collettivo in quanto la rilevazione delle
proprietà indica quali gruppi o ceti risultavano egemoni
al momento della formazione del catasto.
Nel corso del Seicento il quadro regionale vedeva, come
oggi, l'accentuarsi di elementi recessivi.
Anche le frequenti carestie ed epidemie, in particolare
quella devastante del 1656, contribuirono al
depauperamento delle risorse e al calo demografico.
A L'Aquila in particolare il potente patriziato si andò
trasformando da ceto mercantile in oligarchia feudale e
terriera, assumendo i caratteri feudali tipici
dell'intera società meridionale.
In questo clima di lunga stagnazione economica, con la
quasi paralisi dei traffici e la carenza di manodopera,
si verificò uno degli avvenimenti più tragici della
storia aquilana: il disastroso terremoto del 2 febbraio
1703 che distrusse gran parte della città e del suo
contado.
Il terremoto finì per aggravare ancor più la situazione
economica già oberata da circa duecento anni di
dominazione spagnola. L'Antinori nei suoi manoscritti
(volume XXIV, a. 1703) ne fa ampia e desolata
descrizione. Nella città si contarono non meno di 2500
vittime e nel contado 1600; il sisma provocò, dunque, la
morte all'incirca di un terzo della popolazione.
Per quanto riguarda i danni, anch'essi furono gravissimi,
come attesta il verbale redatto il 19 febbraio nel corso
della prima riunione pubblica del general Consiglio
della città in cui si parla di edifici pubblici e
privati andati distrutti nella quasi totalità e della
morte « (...) di più migliaia di persone, e
specialmente di molte persone nobili, anche con
l'estinzione totale di alcune loro famiglie (...) ».
Situazione di profonda desolazione dunque, ma per fortuna
della città, dopo dieci giorni dal sisma, era stato
inviato da Napoli come Vicario Generale degli Abruzzi,
il Marchese della Rocca Marco Garofalo, su decisione del
Consiglio Collaterale riunitosi d'urgenza per i primi
provvedimenti a favore della popolazione.
L'azione del Garofalo, personaggio di grande spessore
politico, fu molto incisiva; egli, investito dei poteri
di commissario straordinario, divenne l'uomo
dell'emergenza. Attraverso una dialettica serrata e
talvolta polemica col potere centrale austriaco, prese i
principali provvedimenti per l'ordine pubblico e
l'incolumità delle persone, per il recupero delle cose,
per la riedificazione del castello semi distrutto e per
dissuadere la gente dall'abbandonare definitivamente la
città per trasferirsi nelle terre feudale o nello Stato
Pontificio.
Il 13 aprile riferendo di persona al viceré sulla
situazione aquilana, chiese e pretese energicamente che
gli abitanti della città venissero assistiti e
incoraggiati nell'opera di ricostruzione.
Grazie alle sue reiterate segnalazioni circa l'opportunità
di incentivi e sgravi fiscali a lungo termine, il
Garofalo con "provisioni" della Regia Camera del 23
novembre 1703, riuscì ad ottenere quello che fu il più
importante provvedimento a favore delle terre colpite:
l'esenzione dai pagamenti ordinari e straordinari per un
periodo di tempo variabile a seconda della gravità dei
danni nelle singole comunità che per L'Aquila fu
stabilito in dieci anni a partire dal primo gennaio
1703.
Il provvedimento giunse a dare maggiore vigore e sancire
l'opera di ricostruzione già largamente avviata dalla
stessa città con il concorso anche dei numerosi
forestieri che da tempo vi si erano stabiliti o di
quelli che, attratti dalle esenzioni e dai privilegi
giungevano a ripopolarla.
Tuttavia, l'opera del Vicario Generale e la validità delle
disposizioni emanate si desumono dalla relazione che il
Camerlengo della città inviò al viceré il 10 maggio
1703; che testimonia la vitalità dell'opera di
ricostruzione al di là, comunque, di una presenza
statale estremamente blanda. Infatti, le vie della
ricostruzione furono molto stentate, per le scosse del
sisma che durarono vari mesi e per la latitanza del
governo centrale nell'opera d'intervento che finì per
limitarsi al solo sgravio fiscale.
La popolazione dopo il terremoto si trovò ad affrontare
gravi problemi tra cui quello dell'approvvigionamento
idrico; poiché la ricostruzione degli acquedotti avvenne
solo a partire dall'11 aprile 1710; allo scopo fu
imposta una tassa straordinaria ripartita fra gli
abitanti del contado e quelli della città. Questi ultimi
furono sottoposti anche allo jus sito, da
pagare per la costruzione delle baracche nella Piazza
Grande, essendo la maggior parte delle case andate
distrutte. Per la ricostruzione di queste, le maestranze
arrivarono a stabilire a loro arbitrio somme
esorbitanti, tanto che il ricostituito Consiglio
generale decise di ricorrere alla calmierazione dei
prezzi dei materiali e delle giornate dei
"fabbricatori".
Lo stesso Consiglio più volte si vide costretto ad invocare
una maggiore sollecitudine nella ricostruzione della
città e, in particolare, delle opere di pubblica
utilità; il lungo lasso di tempo tra il giorno del
terremoto e l'inizio dei lavori di ricostruzione,
dimostra come vi fosse mancanza di programmazione e di
controllo sui provvedimenti che man mano venivano
emessi.
Nonostante l'intenso sforzo profuso dalla classe dirigente
e dalle nuove forze locali, dai Libri reformationum
della città si apprende che il caos dovette essere
indescrivibile anche nei momenti in cui vi fu una
timidissima ripresa di vita.
Il 24 aprile 1711, con un prudente anticipo rispetto alla
scadenza prevista, il Consiglio generale chiese alla
Regia Corte una proroga dell'esenzione fiscale e,
soprattutto, «il riconoscimento del diminuito numero di
fuochi da ottenersi attraverso una nuova numerazione»
per provare alla Corona, che nonostante fossero passati
dieci anni di esenzioni fiscali, la città non sarebbe in
grado, alla scadenza, di pagare le collette di focatico.
Si definisce fuoco l’insieme dei componenti di un nucleo
familiare.
Non si trattava di una generica lamentela, ma di una vera
necessità che si intendeva provare con il censimento al
quale si mise subito mano.
La rilevazione dello stato delle abitazioni cittadine e
delle botteghe disabitate, lesionate o restaurate
evidenziò che la stragrande maggioranza di esse (328)
era ancora distrutta o lesionata, nessuna era indenne e
che solo 49 risultavano ricostruite.
La numerazione dei fuochi fatta per quartieri, fu estesa
anche a quelli extra moenia, ma non tenne conto
delle comunità religiose, in quanto non soggette al
fisco. Le famiglie risultarono 670, gli abitanti 2.684.
Interi nuclei famigliari risultarono dispersi e tra questi
anche quelli che costituivano il nerbo del cosiddetto
ceto nobile e civile che aveva operato un'accumulazione
capitalistica e che ormai tendeva a rinnovarsi e ad
inglobare nuove forze che venivano dal contado.
Infatti, sempre stando alla numerazione del 1712, ben 47
famiglie, con volontà di rivincita e con capitali pronti
ad essere investiti provenivano dal contado mentre, 149
erano forestiere, attirate dall'economia di
ricostruzione: fra esse il gruppo più numeroso era
quello delle famiglie milanesi la cui immigrazione
all'Aquila era stata costante da oltre un paio di
secoli, ma che ora, dalla crisi del sisma prendeva
spunto per una presenza egemonica più compatta e
coerente sul piano del riassetto edilizio.
Sempre dalla numerazione dei fuochi il ceto numeroso degli
artigiani, risultava ampliato anche per l'apporto umano
del contado, in quanto i problemi della ricostruzione
richiedevano la crescita di categorie in grado di
realizzare gli arredi di cui si arricchivano le nuove
dimore private e la città nel suo insieme.
L'elenco delle professioni, lungo e composito, fornisce
l'immagine di una attività produttiva assai fervida. Per
alcune delle quali, come si è visto, vi era stata una
vera e propria immigrazione. Ma alcuni di questi
mestieri erano i residui di una attività propria della
zona praticata da quel ceto artigianale che aveva
costituito lo specifico sociale e politico della città
attraverso il governo delle Arti, ma che le varie
vicissitudini, da una assoluta preminenza avevano
portato verso posizioni subalterne.
Comunque, dal punto di vista della composizione demografica
il terremoto avviò un processo di ruralizzazione con
l'ascesa del contado verso la città, ora che le
resistenze di questa erano sempre più fievoli. Questa
tendenza alla aggregazione determinò profonde mutazioni
nel tessuto sociale: l'economia pastorale, venne
sovvertita dalla privatizzazione delle montagne e dei
pascoli e dall'ingigantirsi delle aziende.
I possessori di armenti del contado aspiravano ad essere, a
tutti gli effetti, cittadini intus per godere
delle estensioni pascolative soprattutto del Gran Sasso,
dove si estendevano i territori dei castelli "diruti"
dal terremoto.
Attraverso complesse forme d’investimento e finti atti di
compera dai residui delle assemblee di confocolieri,
delle proprietà collettive di cui godevano uti
universi fin dalla fondazione della città, finirono
con l'acquisire come proprietà privata intere montagne
della vallata aquilana.
Queste nuove famiglie portatrici di capitali nel momento in
cui acquisirono la cittadinanza aquilana, intesero anche
consolidarla con una residenza di prestigio, ma i siti
edificabili o le case "semi dirute" non erano
acquisibili con molta facilità per vischiose situazioni
che impedivano una rapida ricostruzione.
Si fece ricorso quindi, ad un sistema molto ingegnoso che
trasformò la prassi antichissima della concessione in
enfiteusi in uno strumento di canalizzazione di capitali
verso utili e pronti impieghi. La pratica di questa,
interessò subito i beni dei conventi ma in seguito,
entrò in uso anche per le acquisizioni private.
Il terremoto nel complesso, segnò quel profilo demografico,
economico e urbanistico dell'Aquila settecentesca che si
rifletterà nel Catasto Onciario.
Nel ventennio tra il 1712 e il 1732 affluirono nella città
160 nuovi fuochi, di cui un terzo da fuori del contado:
meretrici, vagabondi, mendicanti, inquisiti, manovalanza
generica: uno strato sociale "miserabile" ai limiti
della povertà che urbanisticamente aggravò la
"ghettizzazione" di alcuni quartieri già danneggiati dal
terremoto e dove le famiglie più rappresentative
dell'antico patriziato e degli homines novi
avevano i loro sontuosi palazzi quattrocenteschi o ne
costruivano di nuovi, dando vita ad una contrapposizione
e gerarchizzazione urbanistica di classe.
Quanto all'assetto urbano formale della città, il terremoto
pur avendo avuto un ruolo devastante non riuscì a
cambiarlo radicalmente; esso incise sulle strutture
edilizie appartenenti alle fasce più deboli della
società aquilana aggravandone il distacco nei confronti
di quelle tradizionalmente più forti o emergenti.
L'impianto stradale cittadino tuttavia non risultò alterato
né quello architettonico se non in chiave figurativa e
di gusto, né tanto meno provocò sconvolgimenti
nell'articolazione insediativa all'interno del tessuto
urbano.
La conquista della città da parte del contado, il ruolo
egemonico acquisito da quest'ultimo, la precarietà
strutturale dei ceti borghesi cittadini, il passaggio
dalla "leadership" pastorale a quella armentizia,
attraverso il possesso stabile delle montagne e dei
pascoli, sono dunque questi, i fattori fondamentali che
vengono a maturazione negli anni trenta del Settecento.
Ritornando al dramma dei nostri giorni, gli amministratori
locali già all’indomani del sisma hanno espresso la
richiesta di rientrare tra le «le aree depresse» che nel
gergo burocratico europeo indica le regioni con tasso di
sviluppo sotto la media dell’UE e come dar loro oggi
torto?
Tra la crisi economica e il sisma siamo già sotto il
parametro del 75% del PIL pro capite medio europeo; si
torna indietro almeno di 15 anni a quando l’Abruzzo era
riuscito ad affrancarsi, rispetto alle altre regioni del
Mezzogiorno, dallo status di ritardo economico per
procedere senza più gli aiuti speciali europei.
Sono trascorsi almeno 16 anni e l’Abruzzo segna oggi il
passo o meglio è L’Aquila e la sua Provincia ad non
avercela fatta.
Il disastro del terremoto ha evidenziato ancora di più i
modesti valori economici, al limite dell’Obiettivo 1,
che il territorio aquilano riusciva ad esprimere.
Tornare indietro può essere una strada, ma non priva e
indenne da responsabilità. I bilanci in rosso regionali
indicano che negli anni sono state tolte risorse
all’economia elevando la tassazione Irap e Irpef a
limiti insostenibili.
La grande crescita raggiunta agli inizi degli anni ’90
aveva visto L’Aquila come la città più ricca
dell’Abruzzo per il ruolo importante di un’economia
diffusa, con i distretti industriali del tessile –
abbigliamento – l’insediamento di grande imprese, con la
capacità della classe politica locale di intercettare
risorse pubbliche affievolitasi poi, negli anni
successivi.
Il riflesso della deindustrializzazione e della concorrenza
globale interrompe il trend economico soprattutto nella
zona aquilana con la crisi del polo elettronico e
telecomunicazioni e di riporto delle piccole aziende
dell’indotto.
I margini per una politica di rilancio regionale sono molto
limitati causa l’indebitamento e l’esplosione del vulnus
della spesa sanitaria.
Un quadro economico dunque, costellato di elementi
recessivi molto vicini e paragonabili, anche se maturati
in un naturale contesto storico diverso, a quello
precedente il terremoto del 2 febbraio 1703.
Oggi il terremoto ha portato come allora, morte e
distruzione, ma la Città ha voglia di ripartire, dal
punto di vista economico restano in piedi il polo
farmaceutico e il settore metalmeccanico; bisogna
ripartire quindi, con la produzione dell’imprese in
grado di garantire posti di lavoro, ma L’Aquila di oggi
ha una risorsa, impensabile nella sua storia lontana, il
cosiddetto “oro bianco” delle sue montagne innevate per
tanti mesi dell’anno e il “verde” estivo dei suoi parchi
nazionali.
Le risorse economiche che affluiranno andranno impiegate
nella riedificazione del centro storico, come già è
avvenuto a seguito delle precedenti distruzioni
telluriche, ma anche (e questa è l’occasione che non può
essere più sottovalutata) nel settore turistico con la
valorizzazione ambientale della montagna ed
architettonica dei suoi meravigliosi borghi.
È questo un percorso già avviato, non resta che impegnarsi
in tal senso incentivando l’imprenditorialità giovanile,
le piccole imprese ricreando le condizioni necessarie
per far risorgere le attività e le lavorazioni
artigianali, i prodotti tipici dell’Abruzzo aquilano
ricorrendo ove necessario, alla privatizzazione delle
strutture economicamente più impegnative, ma necessarie
per un significativo risultato che dovrà vedere l’intera
comunità impegnata in tal senso.
Il popolo abruzzese è ardimentoso e ha sempre proseguito
superando tante asperità, riuscendo a trasformare spesso
le difficoltà in opportunità.
Riferimenti bibliografici:
F.
Marconi, Il Catasto Onciario della Città dell'Aquila.
Status socio-economico ed evoluzione dell'assetto delle
più illustri famiglie aquilane nella seconda metà del
XVIII secolo, Milano 2001. |