N. 32 - Agosto 2010
(LXIII)
bREVE ANTROPOLOGIA DEL “DIVERSO” NELL’ANTICA GRECIA
LO SCHIAVO, LA DONNA, L’OMOSSESSUALE
di Danilo Caruso
Talvolta,
accennando
alle
pari
opportunità,
viene
ricordata
l’antichità
greca
in
modo
imperfetto
e
approssimativo
delineando
paragoni
sociologici
che
non
contribuiscono
a
una
conoscenza
storica
corretta.
La
donna
e lo
schiavo
non
stavano
sullo
stesso
piano
socio-giuridico.
Alla
schiavitù
erano
sottoposti
sconfitti
in
guerra
e
non
Greci:
il
primo
caso
godeva
di
una
giustificazione
pratica
(chi
perdeva
diveniva
proprietà
del
vincitore),
il
secondo
invece
si
avvaleva
di
motivazioni
pseudo-biologiche
(il
barbaro
era
per
natura
colui
che
possedeva
ridotte
facoltà
intellettive).
Questa
visione
biologica
colpiva
anche
le
donne
che
erano
ritenute
di
capacità
mentali
inferiori
agli
uomini.
Per
via
di
questo
pregiudizio
naturalistico
la
sorte
femminile
si
accostava
a
quella
dello
schiavo
dato
che
erano
concepiti
come
due
esseri
cui
faceva
difetto
in
misura
diversa
il
possesso
integrale
della
razionalità.
I
ridotti
in
schiavitù
erano
alla
stregua
degli
animali
domestici
(senza
nessun
diritto).
Per
fare
un
esempio
chiarificatore:
lo
schiavo
incaricato
dal
padrone
di
commettere
un
dolo
non
era
imputabile
del
suo
atto,
l’unico
responsabile
era
il
mandante.
La
situazione
delle
donne
era
differente.
Avendo
come
riferimento
il
concetto
di
minorenne
si
può
dire
che
il
loro
status
era
di
perpetua
minorità,
e
non
dava
perciò
adito
a
diritti
di
maggiorenni
maschi.
Ma
non
per
questo
erano
ignorate
dalle
leggi.
La
famiglia
doveva
infatti
avere
un
titolare
maschio
e
alle
varie
evenienze
si
doveva
sopperire
necessariamente
(fino
al
caso
limite
dell’adozione
di
un
tutore).
Un
ruolo
in
cui
le
donne
avevano
rilevanza
è
quello
del
sacerdozio:
una
sacerdotessa
poteva
addirittura
accedere
a
teatro
con
posto
riservato,
la
qual
cosa
era
in
assoluto
interdetta
alla
restante
popolazione
femminile
(anche
come
attrici:
le
loro
parti
erano
interpretate
da
uomini).
Un
altro
ambito
in
cui
avevano
considerazione
era
quello
dei
riti
funebri:
solo
loro,
dispensatrici
di
vita,
potevano
accostarsi
all’impurità
di
un
cadavere
e
curarsi
della
sua
preparazione
per
il
funerale,
affrontando
il
lato
finale
della
morte.
Questo
accadeva
ad
Atene,
mentre
a
Sparta
a
causa
del
costante
impegno
militare
dei
maschi
erano
maturati
notevoli
spazi
di
autonomia.
Platone,
ammiratore
dell’ordinamento
spartano,
ne
LA
REPUBBLICA
prospettò
la
liberazione
dai
pregiudizi
di
sorta
e
parlò
di
istruzione
anche
per
le
fanciulle
e di
accesso
al
mondo
della
politica
in
quanto
le
donne
come
appartenenti
al
genere
umano
partecipavano
della
razionalità
nello
stesso
grado
degli
uomini.
Il
commediografo
Aristofane
ne
LE
DONNE
ALL’ASSEMBLEA
mise
in
scena
un
colpo
di
Stato
al
femminile
ambientato
nell’antica
Atene
la
cui
dimensione
comica
è
molto
indicativa.
Nel
divino
il
femminile
si
svuotava
dei
suoi
aspetti
sostanziali
per
diventare
unicamente
questione
di
forma.
Una
dea
non
aveva
i
presunti
limiti
intellettivi
di
una
donna,
ne
manteneva
le
connotazioni
esteriori
e
vari
tratti,
ma
diveniva
un
dio
al
femminile.
Nonostante
il
clima
di
emarginazione
la
grecità
antica
ha
dato
testimonianza
di
alcune
donne
di
grandi
qualità:
vale
la
pena
menzionare
la
poetessa
Saffo
che
Platone,
non
a
torto,
definì
la
decima
Musa.
Nella
visione
antica
le
pratiche
omosessuali
(si
vedano
i
tiasi,
le
scuole
militari
spartane,
Atene,
etc.)
erano
un
fenomeno
attinente
alla
sfera
spirituale
dell’individuo,
non
a
quella
biologica:
l’unione
di
due
persone
di
analogo
sesso
era
qualcosa
che
si
svolgeva
al
di
là
dell’ordine
biologico,
e il
suo
scopo
era
appunto
un
presunto
arricchimento
spirituale
risultato
di
una
particolare
amicizia.
Nonostante
l’omosessualità
fosse
considerata
una
cosa
normale
(quasi
naturale)
dai
Greci,
a
tal
punto
che
quello
che
leggiamo
nel
SIMPOSIO
di
Platone
–
nell’esposizione
di
Aristofane
– è
una
giustificazione
della
per
noi
normalità
sessuale
(e
non
viceversa
una
giustificazione
del
“vizio
greco”),
mai
nessun
governo
–
romano,
ateniese,
o
spartano
– ha
mai
elaborato
una
norma
che
parificasse
una
unione
di
fatto
tra
omosessuali
al
normale
matrimonio
tra
persone
di
diverso
sesso.
La
sostanza
del
loro
ragionamento
trovava
una
base
nel
fatto
di
distinguere
il
matrimonio
vero
(con
la
facoltà
data
della
procreazione)
da
un’altra
cosa
che
matrimonio
non
era
(la
famiglia
normale,
diceva
Aristotele,
è
una
“società
naturale”):
linguisticamente
il
matrimonio
greco
(γάμος)
prevedeva
un
γαμέτες
(sposo)
e
una
γαμετή
(sposa);
il
termine
latino
“matrimonium”
è
derivato
da
“mater”
(madre),
è
naturalmente
impossibile
che
in
una
coppia
omosessuale
qualcuno/a
divenga
“madre”.