N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
ANTONIO
PIERMATTEO
parte
I - TRA
COLLEZIONISMO
E
RICERCA
di
Teresa
Nicolangelo
L’emozione
del
dare
un
volto
a un
nome,
un
nome
a un
volto
−
anche
se
quel
volto
e
quel
nome
non
appartengono
a
persona
fisica,
ma a
un’opera
d’arte
‒,
passa,
alle
volte,
anche
attraverso
un’ekphrasis
letteraria
in
un
periodico
d’epoca.
E
non
ha
prezzo.
O
forse
è
solo
l’anima
del
ricercatore
che
amplifica
l’emozione
della
scoperta,
quando,
del
tutto
inattesi,
spulciando
tra
le
fonti,
si
materializzano
passi
che
nuovi
orizzonti
aprono
lungo
il
cammino
sulle
tracce
di
un
personaggio
ai
margini
della
memoria…
Antonio
Piermatteo,
questo
sconosciuto.
Un
nome
che
dovrebbe
risuonare
nella
memoria,
pioniere
e
rivoluzionario
della
tecnica
pittorica
ceramica
del
Novecento
italiano
quale
è
stato,
ma
che
lo
scorrere
del
tempo
ha,
invece,
contribuito
ad
avvolgere
di
un’aura
nebulosa
che
ne
offusca
i
contorni
e la
figura.
Eppure
ne
aveva
da
dire,
il
Piermatteo,
attraverso
la
propria
arte,
che
combina
una
padronanza
perfetta
dell’uso
del
colore
e
del
pennello,
perfetta
a
tal
punto
da
permettersi
di
superarla,
affidandosi
a
sperimentazioni
tecniche,
quali
l’utilizzo
diffuso
della
tecnica
“a
spruzzo”
(aerografo),
a
scelte
stilistico-iconografiche
che
si
discostano
dall’imperante
storicismo
del
repertorio
ceramico
tradizionalmente
in
uso,
mediante
la
creazione
di
una
nuova,
personalissima
“mitologia”
che
attinge
in
egual
misura
tanto
al
repertorio
biblico
quanto,
in
adesione
all’ideologia
e al
gusto
propri
del
Ventennio,
alle
orgogliose
radici
storiche
del
popolo
italico,
attualizzandole.
Cifra
distintiva
della
produzione
dell’artista,
anche
in
caso
di
figurazioni
implicanti
una
certa
sublimazione
del
soggetto,
è
un’imperante
vis
che
si
manifesta
nel
vigoroso
tratto
segnico
del
pennello,
che
scivola
sulle
trasparenze
−
velature
realizzate
attraverso
il
solo
ausilio
dell’aerografo
−
quasi
acquarellate
delle
tinte,
nelle
espressioni
cariche
di
pathos,
nella
muscolatura
colta
e
bloccata
nell’akmé,
nel
gesto
al
culmine
dell’azione…
Ed è
quanto
riscontrabile
nella
maiolica,
attualmente
in
collezione
privata,
minuziosamente
descritta
in
un
articolo
firmato
da
G.
Milani
alla
fine
degli
anni
Venti:
«Ho
potuto
vedere
una
sua
ultima
creazione;
una
piastra
di
centimetri
35
per
40,
che
rappresenta
“Sansone
abbattente
le
colonne
del
Tempio,
per
far
perire
i
Filistei”.
La
figura
del
gigante,
che
si
vede
a
torso
quasi
nudo
e
pure
a
gambe
nude,
è
meraviglioso;
anatomicamente
si
può
dire
veramente
perfetta.
Basta
osservare
come
è
reso
evidente
lo
sforzo
dei
muscoli
del
colosso,
la
posa
delle
mani
contro
le
colonne,
che
stanno
per
cadere,
le
pose
dei
Filistei
morti,
perché
già
colpiti
dai
capitelli
delle
colonne,
dalle
travi
del
tetto,
lo
spavento
dei
Filistei
ancora
viventi.
È un
capolavoro
nel
quale
l’artista
fa
veramente
comprendere
la
sua
ottima
conoscenza
anatomica
del
corpo
umano,
e
delle
figure
nelle
loro
varie
espressioni;
non
senza
aggiungere
che
la
bellissima
maiolica,
anche
per
la
cottura,
e
per
la
riuscita
dei
colori,
è
perfetta».
Il
focus
iconografico
della
composizione
è
sapientemente
convogliato
dal
Piermatteo
al
centro
dell’opera,
nella
poderosa,
quasi
michelangiolesca,
muscolatura
del
protagonista
−
posta
ulteriormente
in
evidenza
dal
vermiglio
dell’exomis,
il
corto
chitone
affibbiato
su
un’unica
spalla
indossato
da
Sansone
e
immediato
rimando
alla
sua
condizione
di
schiavitù
−
e
nel
magistrale
espediente
messo
in
atto
dall’artista
nell’incorniciatura
del
volto
atterrito
e
attonito
del
fanciullo,
dal
pathos
tutto
ellenistico,
all’interno
di
una
studiata
sezione
triangolare
che
contribuisce
ad
amplificarne
la
visibilità.
La
tavolozza
cromatica
è
interamente
giocata
sui
toni
dei
bruni,
dell’ocra
e
dei
verdi,
memoria
delle
tinte
della
rigogliosa,
natia
Terra
d’Abruzzo
e
altro
tratto
distintivo
delle
opere
d’ideazione
originale
del
Piermatteo,
come
ben
testimonia
un
altro
capolavoro,
anch’esso
in
collezione
privata,
che
trova
ampia
descrizione
nelle
parole
di
A.
Francia,
datate
1930:
«Bellissimo
un
quadro
di
soggetto
sacro
e
puramente
abruzzese.
La
Vergine,
a
cui
sovrasta
una
teoria
di
piccoli
spiriti
celesti
in
una
meravigliosa
alba
d’argento,
guarda
in
raccoglimento
la
ferace
terra
d’Abruzzo,
da
cui
ha
colto
testè
un
rametto
di
menta
selvatica.
L’ha
ancora
tra
le
dita
intrecciate
in
atto
di
preghiera
e lo
stringe
con
tale
delicatezza,
che
sembra
deliziarsi
al
profumo
silvestre
che
ne
emana.
Alcuni
angioletti
sorreggono
un
nastro
in
cui
si
legge
l’antica
leggenda
del
nostro
popolo
“Chi
trova
la
mintuccie
e
nni
l’addore,
nni
vede
la
Madonna
quande
more!”.
Nel
volto
della
Vergine
il
Piermatteo
ha
ritratto
il
tipo
della
donna
abruzzese
dai
lineamenti
che
esprimono
la
bellezza
abbronzata
dal
sole
dei
campi
e
delle
marine,
ma
insieme
vi
si
rivelano
la
gentilezza,
la
grazia,
la
soavità.
Con
mano
maestra
egli
ha
giocato
di
ombre
e di
luci,
onde
ci
fa
toccare
con
mano
maestra
gli
abiti
che
cingono
la
persona
della
Madre
di
Dio,
i
quali
scendono
sino
ai
piedi
con
tale
grazia
e
con
tanta
morbidezza,
che
solo
sa
ottenere
chi
possiede
una
tecnica
perfetta
nel
maneggio
dei
colori.
Al
Piermatteo
non
si
può
rivolgere
lode
migliore,
più
acconcia
e
più
giusta
che
egli
è
ormai
un
pittor
fine,
che
sa
dar
anima
alle
sue
creature.
Un
tempio,
un
albero,
un
fiore,
un
palpito
trovano
un
sentimento
adeguato;
è
l’interprete
sicuro
e
sensibile
di
quanto
cade
sotto
i
suoi
occhi
e
comprende
che
ogni
stato
d’animo
ha
da
avere
il
suo
spirito».
Anche
nella
resa
della
Vergine,
nessuna
concessione
ad
affettazione
o
leziosità:
la
forza
irradiante
dalla
figura,
dalle
proporzioni
quasi
virili
e
dai
tratti
del
volto
tutt’altro
che
eterei,
è
stemperata
soltanto
da
una
soave
espressività
frammista
a
una
certa
mestizia,
dalla
morbidezza
del
panneggio
dell’himation,
del
manto,
che
ne
addolcisce
le
forme
e
dalla
grazia
del
gesto
delle
mani
che
sorreggono
la
“mentuccia”,
protagonista
anche
del
cartiglio
che
ricorda
il
detto
abruzzese
legato
alla
credenza
popolare
che
della
menta,
appunto,
ha
fatto
l’unico
cibo
di
Maria
nei
giorni
immediatamente
successivi
alla
morte
del
Figlio
e,
pertanto,
simbolica
promessa
d’intercessione
in
punto
di
morte.
Un
soggetto,
dunque,
che
ben
si
sposa
con
la
probabile
originaria
destinazione
funeraria
della
pala
maiolicata,
come
sembrano
ulteriormente
suggerire
le
importanti
dimensioni
(un’altezza
complessiva
di
ben
156
centimetri!)
e la
coeva
cornice
a
intarsio
dotata
di
una
stilizzata
coppia
di
fiaccole
lignee
ornamentali.
Il
riconoscimento
da
parte
dei
contemporanei
di
ingenium,
innovazione
e
qualità
nella
produzione
dell’artista
e i
conseguenti
successo
e
popolarità
dello
stesso,
alimentati
ancor
più
da
importanti
commissioni
pubbliche
e
private,
fattori
tutti
che
hanno
caratterizzato
la
realtà
di
Antonio
Piermatteo
tra
gli
anni
Venti
e
Trenta
del
secolo
scorso,
non
lo
hanno
preservato,
negli
anni
successivi
alla
sua
prematura
scomparsa
(1958),
da
un
destino
di
quasi
completo
oblio:
non
resta
ora,
pertanto,
che
tentare
di
restituirne
la
figura
alla
memoria
collettiva
mediante
una
quanto
più
possibile
completa
ricostruzione
storica,
alquanto
ardua
per
scarsità
di
fonti
e
dispersione
opere,
avanzando
nella
sequela
di
seppur
labili
tracce,
in
continuo
bilico
tra
collezionismo
e
ricerca.
Riferimenti
bibliografici:
Ortona
1860-1945.
I
protagonisti,
in
“Quaderno
di
ricerca
Associazione
Ortonese
di
Storia
Patria”,
n.
2,
Luglio
2005,
pp.
5-6.
G.
Finamore,
Botanica
popolare
abruzzese,
in
“Archivio
per
lo
Studio
delle
Tradizioni
Popolari”,
Rivista
Trimestrale,
Volume
Ottavo,
Palermo
1889,
pp.
211-220.
A.
Francia,
Arte
e
ceramica,
in
“La
Nuova
Fiaccola”,
Periodico
quindicinale
indipendente,
Anno
VII
n.
99,
Ortona
a
mare
18
maggio
1930,
Anno
VIII,
p.
4.
R.
Megni,
Esperienze
di
pittura
classica
sulla
ceramica,
s.l.
1998.
G.
Milani,
Piermatteo,
in
“Corriere
dei
ceramisti.
Rivista
tecnica
mensile
delle
industrie
ceramiche”,
Anno
IX
n.
12,
Perugia
Dicembre
1928
VII
E.
F.,
pp.
509-513.
G.
Milani,
Piermatteo,
in
Maiolica
Italiana
Anni
Venti:
dalla
raccolta
del
Corriere
dei
Ceramisti,
a
cura
di
A.
Barbieri,
Casalgrande
Alto
2007,
pp.
101-104.