ANTIOCO IV
EPIFANE
SOVRANO SELEUCIDE E “ANTICRISTO” /
PARTE II
di Monica Pezzella
Di capitale importanza nello studio
delle idee relative all’Anticristo è
l’opera di Ireneo, vescovo di Lione,
nato intorno al 140 d.C. in Asia
Minore. Egli tratta dell’argomento
in ben cinque capitoli del V libro
dell’Adversus Haereses,
riuscendo per la prima volta a
fondere le diverse tradizioni,
unificando tutti i dati
scritturistici intorno all’unico
termine “Anticristo”. Se prima di
lui l’avversario escatologico non
veniva indicato con un unico nome,
con Ireneo si impone il termine
antichrìstos usato nelle Lettere di
Giovanni.
Intendo soffermarmi proprio sui
molteplici riferimenti di Ireneo ai
testi finora esaminati, in
particolare il Libro di Daniele e i
Vangeli di Marco e Matteo, che ad
esso si rifanno esplicitamente
quando trattano dell’”abominio della
desolazione”, oltre che la Seconda
lettera ai Tessalonicesi di Paolo.
Mi riferisco in particolare ai brani
dell’Adversus Haereses nei
quali l’Anticristo è presentato come
personaggio escatologico, poiché è
in questi ultimi che il richiamo al
Libro di Daniele (e dunque la
tradizione riconducibile ad Antioco
IV Epifane) appare più evidente.
Da subito Ireneo afferma che
l’Anticristo incarna la
“ricapitolazione di ogni apostasia”.
L’idea della ricapitolazione è
fondamentale nella cristologia del
vescovo di Lione. Egli la riprende
da Paolo (cfr. Ef. 1,10) e la
sviluppa per affermare l’unità e
l’unicità del Cristo contro le
tendenze dualiste e dissolutive
degli gnostici. In tale prospettiva
va compresa l’attribuzione di questo
concetto all’Anticristo, poiché si
tratta della medesima idea
considerata non più sul versante
della salvezza, ma su quello
dell’empietà: non più
l’affermazione, nella storia, del
Regno di Dio, ma il successo, almeno
temporaneo, dell’apostasia. La
stessa visione della storia sarà
ampiamente illustrata nella Città di
Dio di Sant’Agostino qualche secolo
più tardi.
Ireneo si richiama esplicitamente
all’importante profezia che Paolo
esprime in 2 Ts. 2:3-4 per chiarire
la natura dell’ultima e definitiva
apostasia: il “figlio della
perdizione” si innalzerà “sopra
tutto ciò che viene detto Dio” (gli
idoli, secondo Ireneo, i quali, “pur
non essendolo, vengono considerati
dagli uomini divinità”) e si
spingerà fin nell’interno del tempio
a Lui dedicato, per usurparne il
trono. “Il tempio” di cui parla
Paolo, e che il profeta Daniele
aveva indicato come luogo in cui si
sarebbe perpetuato “l’orrore
desolante” da parte di Antioco IV
Epifane, è identificato da Ireneo
con il Tempio di Gerusalemme, il
quale “fu fatto per ordine del vero
Dio, Padre di Nostro Signore”.
Con ciò Ireneo intende lanciare un
ulteriore attacco alle teorie
gnostiche secondo cui il tempio
menzionato da Paolo è in realtà il
santuario eretto in onore del
Demiurgo, il Dio dell’Antico
Testamento, quel Dio Creatore che
nel pensiero gnostico era un dio
inferiore rispetto al Padre del
Nuovo Testamento. Al di là della
diatriba tra il vescovo di Lione e
l’eresia gnostica, ciò che a noi
interessa particolarmente è
l’affermazione di Ireneo secondo cui
è ancora nel Tempio di Gerusalemme
“che l’avversario troneggerà e
cercherà di farsi passare per
Cristo”; subito dopo egli richiama
esplicitamente il passo del vangelo
di Matteo in cui Gesù prefigura
l’”abominio della desolazione, di
cui parla il profeta Daniele, stante
nel luogo santo”.
L’Anticristo di Ireneo, che come si
è detto assume qui i tratti
fondamentali che lo
caratterizzeranno per i secoli
successivi, è ancora impregnato di
quella tradizione, nata al tempo di
Antioco IV Epifane e tramandata
attraverso le parole di Daniele,
secondo cui il male estremo si
sarebbe impiantato nel santuario di
Gerusalemme: l’”orrore desolante”
del profeta veterotestamentario, che
ai tempi di Antioco Epifane poteva
essere interpretato variamente come
un idolo raffigurante la figura del
sovrano/Zeus o un altare pagano, ha
perso la sua connotazione storica,
ma ha conservato attraverso i secoli
la valenza simbolica: il santuario
di Gerusalemme, profanato al tempo
dell’Epifane, è ancora il luogo in
cui si manifesterà l’estremo atto di
arroganza da parte dell’ultimo
oppositore.
Per Ireneo, Gerusalemme è la
Gerusalemme terrena, in
contrapposizione alla “Gerusalemme
celeste”: essa rappresenta una
“vedova dimentica di Dio” che fugge
presso il giudice iniquo opposto al
Signore. È in questo senso che,
secondo il vescovo di Lione, va
interpretata la desolazione del
santuario narrata da Daniele: al
tempo del suo regno, l’Anticristo
trasferirà il suo trono a
Gerusalemme e siederà nel tempio di
Dio spacciandosi per il Cristo e
ingannando coloro che lo adorano.
Dall’esegesi che Ireneo applica al
testo di Daniele emerge un’idea a
lui particolarmente cara,
l’accoglimento dell’Anticristo da
parte del popolo giudaico, questione
legata a una delle più vive
preoccupazioni del Cristianesimo
nascente: il rifiuto e la
persecuzione operata da parte dei
giudei contro Gesù prima e contro i
suoi seguaci poi.
È interessante notare come il
vescovo di Lione si serva dunque del
racconto danielico della
profanazione del Tempio di
Gerusalemme in chiave
sostanzialmente antigiudaica,
giungendo infine, non senza qualche
contraddizione, a considerare il
santuario dei giudei come la sede di
intronizzazione dell’Anticristo.
Le dieci corna della Bestia di Ap.
17:12-14, le quali, come le corna
viste da Daniele e le dieci dita dei
piedi della statua apparsa in sogno
a Nabucodonosor, rappresentano dieci
re, sono chiaramente identificate da
Ireneo con i re dell’Impero Romano,
coloro che “si spartiranno l’impero
che ora domina”. L’idea che
l’Anticristo debba essere un
imperatore romano è, come si è
visto, precedente a Ireneo.
L’origine di tale convinzione è da
ricercare, oltre che nell’acceso
spirito antiromano che anima la
letteratura apocalittica (prima fra
tutti, l’Apocalisse di Giovanni),
nella persuasione che quello romano
è l’ultimo impero nella serie degli
imperi egemoni.
Tuttavia l’identificazione
dell’Anticristo con un imperatore
romano contrasta con quella che lo
vuole nato in un contesto giudaico
accolto trionfalmente dagli stessi
giudei. Si tratta in realtà di due
diverse tradizioni, l’una facente
capo all’immagine dell’Anticristo
quale tiranno escatologico e ultimo
persecutore, con radici nel periodo
successivo all’esilio babilonese e
al conflitto del tempo di Antioco
Epifane; l’altra all’identificazione
dell’Anticristo con il falso
profeta, il falso Messia, il grande
ingannatore degli ultimi tempi di
cui per la prima volta parla Paolo
di Tarso. Ireneo accoglie entrambe
le tradizioni senza tuttavia
preoccuparsi di armonizzarle.
Per gli autori di III secolo
l’Anticristo rappresenta ancora
l’estremo persecutore della comunità
dei credenti. Ippolito è il solo a
dedicare all’argomento un intero
trattato, il De Christo et
Antichristo, in cui si propone
di illustrare la venuta dell’estremo
nemico del Signore e il tempo in cui
essa si collocherà; il luogo e la
tribù da cui l’oppositore trarrà
origine; il suo nome secondo il
numero indicato nell’Apocalisse di
Giovanni; la sua attività
ingannatrice, la persecuzione che
egli opererà contro i santi e la sua
auto divinizzazione, che ne
decreteranno la fine nel giorno
della venuta del Cristo.
Di maggiore interesse ritengo però
alcuni passi che Ippolito dedica
all’argomento nel suo Commento a
Daniele, nel quale, tramite
un’esegesi che non cessa di scorgere
riferimenti cristologici in ogni
passo delle Scritture anche a costo
di interpretazioni molto ardite,
egli ripropone sostanzialmente
quanto già espresso nel De
Antichristo, riservando però una
particolare attenzione
all’interpretazione dei passi
scritturistici e all’elemento
storico, là dove la figura
dell’Anticristo viene inserita
all’interno della successione delle
epoche storiche e dei grandi imperi
universali.
Ancor più che nell’opera di Ireneo,
in cui l’Impero romano è
identificato con l’ultimo impero
della storia dal quale sorgerà
l’Anticristo, nel commento di
Ippolito è esplicitato un acceso
spirito antiromano e
antimperialista: l’Impero romano,
ravvisato da Ippolito nella quarta
bestia del capitolo 7 del Libro di
Daniele, nel corso dell’opera viene
definito con disprezzo come
un’accozzaglia di popoli e razze, ed
è presentato come simbolo della
potenza anticristiana per
eccellenza, la quale vuole
diabolicamente imitare e soppiantare
il Cristo nel tentativo di riunire
sotto un solo nome tutte le nazione
della terra.
Se Ippolito identifica Roma con la
quarta bestia di Daniele, egli vede
nelle dieci corna una prefigurazione
di dieci regni futuri, non ancora
affermatisi nella storia, dai quali
sorgerà un ultimo, piccolo corno con
“occhi simili a quelli di un uomo” e
una bocca che parla “con alterigia”:
non più Antioco IV Epifane, radice
malata generatasi dall’Impero di
Alessandro Magno e dai regni dei
Diadochi, ma l’Anticristo, il nemico
escatologico, il quale, “gonfiato
d’orgoglio dallo spirito perverso
che lo possiede”, muoverà guerra
contro i santi con la pretesa di
essere ovunque glorificato e adorato
come un dio. Coerentemente con
questa interpretazione, Ippolito
identifica l’ostacolo menzionato da
Paolo in 2 Ts. 2:1-9, “colui che
trattiene” l’Anticristo, con
l’Impero romano: la quarta bestia di
Daniele, “rovesciata e tolta di
mezzo la quale verrà l’Ingannatore”.
Seguendo la stessa linea
interpretativa, la figura
protagonista delle profezie
dell’ultima grande visione di
Daniele (Dn. 11,36-45) è
identificata da Ippolito non con
Antioco Epifane ma con l’Ingannatore
escatologico, da lui chiamato
“l’abominazione”: sarà egli infatti,
in un tempo futuro, a ergersi al di
sopra di ogni altro dio, dimentico
delle divinità dei padri, per
adorare con oro e argento un dio
sconosciuto. L’Anticristo, prosegue
Ippolito, “ricostruirà la città di
Gerusalemme e riedificherà il tempio
abbattuto, ridarà tutto il paese e i
suoi confini ai Giudei il cui popolo
richiamerà dalla schiavitù delle
nazioni e si proclamerà loro re”.
Ritorna dunque l’idea, già espressa
da Ireneo ma in Ippolito esposta con
particolare asprezza di toni,
secondo cui l’Anticristo sarà
accolto trionfalmente dai giudei, i
quali, incapaci di riconoscere in
Cristo il vero Messia, per una
specie di legge del contrappasso,
accoglieranno quello falso e si
renderanno complici dello sterminio
dei fedeli.
In un passo assai interessante,
Ippolito distingue due differenti
tipi di “abominazione” in Daniele:
la prima, da lui definita
“abominazione della distruzione”,
sarebbe quella operata a suo tempo
da Antioco IV Epifane; l’altra,
l’”abominazione della desolazione”,
è invece quella universale che si
verificherà con la venuta
dell’Anticristo. Anche in questo
caso, dunque, Antioco Epifane è
visto come una prefigurazione nella
storia dell’estremo nemico di Dio,
il quale agirà invece fuori di essa.
L’ultimo consiglio di lettura non
può che essere l’opera di Origene,
grazie al quale si afferma un’idea
completamente diversa dell’estremo
nemico del Cristo. A questo
proposito è bene precisare che farò
riferimento unicamente al
Commentariorum in Matthaeum, ma non
va dimenticato che Origene affronta
il tema dell’Anticristo anche nel
Contro Celso e nel Commento al
Vangelo di Giovanni.
Autore di straordinaria erudizione,
Origene nacque intorno al 185 d.C.
ad Alessandria e morì probabilmente
nel 254 d.C. a Tiro, dopo aver
sofferto la prigione e le torture
durante la persecuzione
dell’imperatore Decio. Nel trattare
dell’Anticristo, Origene si
distingue notevolmente dagli altri
autori che nei primi tre secoli
dell’era cristiana si sono occupati
dell’argomento. Questi, come abbiamo
visto, si muovono generalmente entro
le linee dell’escatologia di stampo
asiatico che, sulla base di
un’esegesi letterale, presenta una
figura dell’Anticristo dai contorni
estremamente concreti. Nonostante
esso non si sia ancora manifestato,
i tratti con cui viene descritto
sono quelli di un personaggio reale,
un uomo con una tremenda
personalità.
Con Origene, massimo esponente della
scuola alessandrina e fautore
dell’allegorismo esegetico, si entra
invece in un universo filosofico,
teologico ed esegetico completamente
diverso. Tutta l’escatologia viene
da Origine reinterpretata alla luce
del metodo allegorico: l’Anticristo
perde tutte le caratteristiche di un
personaggio concreto e reale e,
privato della dimensione
escatologica, viene considerato
soltanto come il simbolo della
contraffazione della verità. Esso
non è più l’estremo persecutore del
popolo dei credenti, colui che,
plasmato sulle imprese storiche dei
re dell’esilio e di Antioco IV
Epifane, si opporrà a Dio in
un’ultima lotta risolutiva.
Se una concretezza ancora gli viene
accordata è solo quella dell’azione
subdola e ingannatrice degli eretici
e della loro opera di diffusione di
dottrine false attraverso la falsa
interpretazione della Sacra
Scrittura (nel commentare il Vangelo
di Matteo Origene menziona
esplicitamente, tra gli altri
eretici, i Marcioniti, gli Apelliani
– seguaci di Apelle, discepolo di
Marcione, il quale si distaccò dal
maestro negando la distinzione tra
il dio dell’Antico Testamento e
quello del Nuovo e si dimostrò ancor
più radicale nel negare ogni valore
all’Antico Testamento – e gli Ofiti,
setta gnostica così chiamata dal
posto che nella sua dottrina occupa
il serpente, ophis, considerato come
il datore della “gnosi”).
Il tempio in cui secondo Daniele
avviene la profanazione non è più il
santuario di Gerusalemme: esso si
spoglia qui di ogni connotazione
storica per indicare non più un
reale edificio, ma il complesso
delle Scritture sacre ai cristiani.
Il “luogo santo” in cui si situa
l’abominatio desolationis di Mt.
24:15 è per Origene “ogni detto
delle Divine Scritture pronunciato
dai santi profeti che vissero molti
secoli fa […], nonché i detti degli
evangelisti e degli apostoli di Gesù
Cristo. In questo luogo santo di
tutte le Sacre Scritture […]
l’Anticristo, cioè il falso verbo,
viene a trovarsi frequentemente …”.
Anche l’”abominazione” non è più un
atto di adorazione idolatrica
perpetuato all’interno del sancta
sanctorum, ma il termine è qui
utilizzato per designare lo
stravolgimento del Verbo divino. Se
Cristo è l’incarnazione di tale
Verbo, l’Anticristo altro non è che
la sua contraffazione.
Sulla stessa linea Origene
interpreta anche la menzione dei
“molti anticristi” di Giovanni e dei
falsi profeti che verranno in nome
del Cristo e “sedurranno molti” nel
Vangelo di Matteo: non si tratta di
individui che si spacceranno per il
Cristo tramite prodigi strabilianti,
ma di false dottrine, poiché secondo
Origene “ogni verbo che è estraneo
alla verità e si spaccia per verbo
di dio è l’Anticristo” (va precisato
qui che Origene naturalmente conosce
l’interpretazione letterale dei
testi esaminati, ma per lui essa è
riservata a coloro che non vogliono
scandagliare il testo sacro alla
ricerca del senso più profondo.
Nell’interpretazione di Origene
gioca anche un’avversione verso
tutta l’escatologia di stampo
asiatico, come si riscontra nel suo
dichiarato antimillenarismo).
In tal modo egli risolve anche la
questione relativa
all’unicità/molteplicità
dell’Anticristo: “considerato come
genere, [l’Anticristo] è uno; ma ha
molte specie”, esattamente come la
menzogna, che è unica nella sua
natura, ma, esaminando la varietà
delle false dottrine, si scopre che
le menzogne sono molte. In tal modo
si spiegano i “falsi cristi”
menzionati nel Vangelo di Matteo,
identificati da Origene con i molti
mentitori (eretici) del tempo.
Se dunque il Cristo è la verità,
l’Anticristo è la menzogna,
nient’altro che la simulazione della
verità (l’identificazione
dell’Anticristo con la menzogna
muove in Origene dalla convinzione
che esso è il figlio del diavolo,
convinzione desunta principalmente
dai molti riferimenti all’argomento
fatti da Paolo nella Seconda lettera
ai Tessalonicesi); se Cristo è la
sapienza, l’Anticristo è
“l’ingannatore di quanti amano la
sapienza di Dio”; se Cristo è
giustizia, l’Anticristo non è che
giustizia apparente, e così via.
Esso è in sostanza, secondo Origene,
la contraffazione di tutte le virtù
incarnate in Cristo, compresa
soprattutto la capacità di compiere
miracoli, tramite i quali esso
“seduce gli sprovveduti”. La
capacità di distruggere l’Anticristo
spetta a coloro i quali cacceranno
l’abominio dal luogo santo
comprendendo la vera interpretazione
della Sacra Scrittura, ma
soprattutto a Cristo, “il quale
annienterà con il soffio della sua
bocca ogni falso verbo”.
Ireneo e Origene rappresentano
rispettivamente la tradizione
asiatica e quella alessandrina,
diverse non soltanto poiché l’una
predilige un’esegesi letterale e
l’altra quella allegorica, ma
soprattutto a causa del differente
sguardo che esse rivolgono alla
storia e alla cultura del tempo:
l’una più chiusa nell’ambito della
tradizione giudaico-cristiana,
l’altra più aperta alle istanze
provenienti dal mondo ellenistico.
Da ciò deriva il diverso modo di
affrontare il tema dell’Anticristo:
da una parte, mero simbolo
dell’estrema malvagità del genere
umano; dall’altra, personaggio
storico dai tratti concreti e ben
delineati, antagonista del Cristo
nel tempo della fine.