storia & sport
L’ANTICO GIOCO DEL TENNIS
BREVE EXCURSUS TRA LE CORTI D'ITALIA
E D’EUROPA
di Marialuisa Dus
La toponomastica di Venezia racconta la
storia di una città unica per assetto
urbanistico, crogiolo di bellezza, arte
e cultura. Campi, campielli e corti,
calli, fondamenta e rii, salizzade e
sottoportici, sestieri e parrocchie, con
i loro curiosi nomi in dialetto
veneziano, rievocano figure, fatti e
leggende.
La nomenclatura della viabilità di
Venezia è illuminante sulla tradizione
della città: la vita degli abitanti, la
genealogia della cittadinanza e le
trasformazioni urbanistiche. La storia
dà profondità al presente. È il caso di
Venezia e della toponomastica veneziana
che, costellata dei nomi più vari,
talvolta insoliti e fantasiosi, racconta
la storia segreta di una città magica,
teatro di continui cambiamenti.
A Venezia la riscrittura s’è dilungata
nei secoli donando alle pietre della
città un fascino ineguagliabile. Le
denominazioni delle vie di terra e di
acqua, al di là dalle variazioni subite
nel tempo, hanno da sempre qualificato i
luoghi urbani principali attraverso i
nomi d’illustri personaggi e santi, di
nobili famiglie e comunità straniere, di
botteghe e osterie, di case fondaco e
teatri, di dimore ed edifici di culto.
Tra le insegne, i così detti
nizioleti, che cifrano Venezia e
orientano nel labirintico sistema viario
della città lagunare, ce ne sono alcune
che non sfuggono agli amanti del tennis.
Nella contrada di San Felice una calle,
un sottoportico e un ponte prendono il
nome dall’antico gioco della racheta,
detto a Venezia anche lacchetta.
Il ceto civile giocava in Calle dei
Botteri a San Cassiano, i patrizi
prima di metter veste, ovvero prima di
compiere venticinque anni, si radunavano
ai Birri, mentre il popolo
preferiva la Calle Longa tra San
Felice e Santa Caterina.
A Venezia il gioco della racchetta era
molto amato dai giovani delle
Compagnie della Calza, società di
gentiluomini nate a metà del
Quattrocento, così dette dal costume
d’indossare calze di seta ricamate, con
una gamba spesso di colore differente
rispetto all’altra. A Carnevale le
compagnie «tenevano allegra la città» –
afferma Giuseppe Tassini, organizzavano
feste e spettacoli riservati alla
nobiltà. Dai cinquecenteschi Diarii
del veneziano Marin Sanuto si apprende
che i festeggiamenti «consistevano in
balli, conviti, mascherate,
rappresentazioni teatrali, regate e
pompose cavalcate».
Nel primo dei quattro volumi Gli
abiti de Veneziani di quasi ogni età con
diligenza raccolti e dipinti nel secolo
XVIII, l’artista di origini
fiamminghe Giovanni Grevembroch
restituisce il costume delNobile con
racchetta e dell’antico gioco ne dà
breve descrizione. Rappresentato di
spalle, il giocatore con tricorno tiene
in mano una palla di cuoio mentre esegue
un colpo di dritto impugnando una
piccola racchetta.
A Venezia il gioco della racchetta
approda nel 1595. Nel sestiere di
Canareggio viene costruito il primo
campo da gioco al chiuso, in un area
prossima al monastero di Santa Caterina,
proprietà delle reverende madri. Nel
libro La Repubblica di Venezia e lo
sport Luigi Roffarè ricorda come «i
nobili convenivano numerosissimi sul
campo delle Fondamente Nuove, diretto da
Pasquale Cicogna […] giocarono
Ambasciatori e Nunzi pontifici, Carlo VI
e Carlo VII, il Re di Polonia, il Re di
Danimarca, gli elettori di Magonza e di
Baviera e il giovanotto Federico Augusto
di Sassonia, il più bravo di tutti […]
Dei veneziani si distinsero in questo
gioco, per la loro abilità, i nobili
Domenico Morosini, Vincenzo Erizzo e
Marco MichielSalamon». Il
riferimento probabilmente è a una salada
racchetta costruita circa vent’anni dopo
la prima edificata in città.
A Parigi nel 1596 si contavano
duecentocinquanta sale per iljue de
paume (gioco del palmo), l’indotto
del gioco dava da vivere a più di
settemila persone. La più celebre tra le
sale francesi è la sala del Palazzo di
Versailles, dove il 20 giugno del 1789,
prima dello scoppio della Rivoluzione
francese, il Terzo Stato pronuncia il
giuramento contro Luigi XVI, ricordato
come Giuramento della Pallacorda.
Fra il Cinquecento e il Settecento anche
in Italia le corti principesche
costruiscono sale e campi per l’antico
gioco del tennis. Trasformate in luoghi
per lo spettacolo, le sale da racchetta
anticipano gli edifici teatrali nella
tradizione della corte rinascimentale.
Il principe Alfonso II d’Este sembra sia
stato il primo a convertire le sale da
racchetta in sale provvisorie per la
commedia.
Da metà Cinquecento in poi palla e
commedia coabitano. Le sale da racchetta
sono ampie e consentono l’allestimento
di gradinate, palchi e palchetti, spesso
isolate e attrezzate per il
divertimentosiprestano a ospitare un
vasto pubblico. Con il diminuire
dell’interesse per il gioco, dalla metà
del Seicentoin poi molte sale furono
date in affitto ad attori, giocolieri e
saltimbanchi, alcune trasformate in
teatri permanenti.
Rispetto al gioco lo spettacolo offriva
maggior guadagno ai proprietari delle
strutture ludiche. A Torino dove oggi
c’è il Teatro Carignano, esempio
straordinario di teatro all’italiana del
Settecento, c’era il Trincotto Rosso,
seicentesca sala per la pallacorda,
rettangolare, coperta e con pareti
rosse.
La parola tennis, di origine francese,
in un testo italiano compare per la
prima volta in epoca medioevale. In
Cronica Domestica, Messer Donato
Velluti descrive la storia della sua
famiglia. Nel raccontare le vicende che
precedono la battaglia di Altopascio,
Velluti ricorda che a Firenze nel 1325
giunsero cinquecento cavalieri francesi,
uomini gentili che giocavano a una
versione evoluta della pallacorda
italiana, avvisavano l’avversario
gridando tenez (tenete).
Sviluppatasi sulle basi di antichi
giochi greci, romani e persiani,
l’attività ludica si diffonde ampiamente
in epoca medioevale in Europa,
soprattutto in ambiente ecclesiastico.
Tra il XII e XIV secolo nobili e
religiosi francesi si esercitano alla
paume chiamata pallacorda in
Italia. La pratica ludica diviene presto
popolare anche tra il volgo. A Parigi
nel 1292 operavano tredici fabbricanti
di palle a fronte di otto librai.
Diversamente dalla pelota
spagnola, dove la palla colpita con una
mazza è agguantata in ricezione con le
mani, il jeu de paume si gioca a
mani nude o con guanti protettivi.
Appassionati del gioco, i sovrani
francesi tentano di rendere il
passatempo esclusivo della nobiltà
emanando ordinanze e imponendo divieti.
Nel 1369, in piena guerra dei cent’anni,
Carlo V di Francia proibisce la paume
e altri giochi dissipatori poiché
distolgono il popolo dall’imparare il
mestiere delle armi.
Da metà Cinquecento in poi nelle corti
europeei reali si allenano al gioco
della racchetta durante tutto l’anno,
prendono lezioni da maestri e
organizzano tornei. In epoca
rinascimentale, momento di massimo
splendore del jeu depaume, la
racchetta prende il sopravvento sul
guanto che in precedenza aveva
sostituito le corregge di cuoio.
Francesco I di Francia, giocatore tra i
più forti e appassionati, semina di
campi il suo reame e nel 1539 gioca su
un battello risalendo la Loira. Noto per
il suo straordinario atletismo, Enrico
VIII d’Inghilterra nel 1522 assieme a
Carlo V sfida in una partita di doppio
il principe d’Orange e il marchese di
Brandeburgo. Il fornitore di racchette e
palline, all’occasione anche compagno di
doppio, Anthony Ansley, viaggia in tutta
Europa al seguito del re inglese che non
intende sospendere gli allenamenti.
L’ambasciatore veneziano della corte
reale Sebastian Giustinanirimane
meravigliato dalle abilitàginniche del
monarca, ricorda la pelle chiara di
Enrico VIII risplendere attraverso le
camicie di fine tessuto. Carlo IX di
Valois, che dal padre Enrico II riceve
la prima racchetta a soli due anni, nel
1571 organizza il primo torneo di jeu
de paume con racchette per
categorie: apprendisti, amatori e
professionisti. Quell’anno il re
francese sancisce anche la nascita della
prima corporazione di racchettieri
professionisti.
Tra i ritratti di nobili bambini con
racchetta fra le mani, oltre a quello
del figlio di Caterina de’ Medici
Carlo Massimiliano duca di Orleans
(Germain Le Manier, 1512), ci sono
Federico Ubaldo della Rovere
(Alessandro Vitali, 1607) e Luigi
Gonzaga (Anonimo, 1617). Mentre il
giovanissimo Carlo IX di Francia impugna
una racchettina con corde annodate a
ogni incrocio, per resistere alla
pesantezza delle palle, il principino
Federico Ubaldo della Rovere stringe una
pallina e una paletta di legno. Il
ritratto del piccolo nobile testimonia
la fama e l’abitudine del gioco alla
corte di Urbino; tre erano le sale da
racchetta a Palazzo Ducale.
L’importanza del gioco nella formazione
dei piccoli principi italiani è
documentata anche da un altro dipinto
che ritrae Francesco Giacinto e Carlo
Emanuele (Francesco Cairo, 1636),
figli di Vittorio Amedeo I di Savoia e
Cristina di Francia. I fratellini posano
vicino a un seggiolone rosso, il
maggiore tiene in mano una racchetta e
una pallina.
«Ancor nobile esercizio e
convenientissimo a uom di Corte è il
gioco di palla, nel quale molto si vede
la disposizione del corpo e la prestezza
e discioltura di ogni membro».
Così scrive nel 1528 Baldassarre
Castiglione nel Cortegiano. Nelle
corti italiane l’esplosione del
fanatismo per l’antico gioco del tennis
ha inizio già nella seconda metà del
Quattrocento. A Milano nella Sala della
Balla, nel Castello Sforzesco, Galeazzo
Maria Sforza, che voleva sempre giocare
con palle nuove, batte regolarmente il
fratello Ludovico il Moro. A Urbino, nel
Palazzo Ducale attorno al 1470 Federico
da Montefeltro fa costruire una sala per
il gioco della palla.
«Giocorno a detta palla forsi
quattr’hore, dove sua Maestà si
exercitava molto bene et assai ne sa di
tal gioco, et giocavano di vinti scudi
d’oro la partita, dove alla fine sua
Maestà prese sexanta scudi. Et poi
fornito, sua Maestà se ne ritornò in
camara solamente con li soiCamarieri, et
si mudò di camisia, et alquanto se
rinfrescò, et stette così per un pezzo
ad riposare».
Nella Cronaca del soggiorno di Carlo
V in Italia Luigi Gonzaga I di
Palazzolo racconta che l’imperatore
Carlo V assieme a monsignore di Balasone
sfida Ferrante Sanseverino, principe di
Besignano, e monsignore de la Cueva. Tra
il 1529 e il 1530 a Mantova, Sua Maestà
Carlo V gioca un doppio in una sala da
racchetta contigua alla Camera dei
Giganti di Palazzo Te, costruita vicino
alle stalle dei cavalli di Francesco II.
Alla corte gonzaghesca in pieno
Rinascimento il gioco, molto popolare,si
praticava anche a Palazzo San Sebastiano
e a Palazzo Ducale. Nel 1555 a Venezia
la tipografia Gabriel Giolito de’
Ferrari e Fratelli pubblica il primo
libro sulle regole del tennis, il
Trattato del Giuoco della Palla.
Scritto dall’abate Antonio Scaino da
Salò il volume è dedicato al duca
Alfonso II d’Este, accanito giocatore.
Lo scrittore e filosofo tomista Scaino,
analizza le regole e le attrezzature
della sferistica, dalla pallapugno alla
pallamaglio – antenato del moderno golf
– e insiste sul valore educativo del
gioco della racchetta da esercitarsi
«con destreza et giudicio».
Dopo una disputa avuta con il duca di
Ferrara sull’attribuzione di un punto,
Scaino decide di redigere un trattato
che codifichi le regole del gioco.
Descrive palle, racchette e campi. La
palla può essere «soda, ripiena di pelo
di lana», oppure«palla a vento, di
spirito dentro piena, con mirabile
artificio». Due tipi di palla consentono
sei diversi giochi. Si può battere la
palla con la mano aperta o con un pugno
ferrato, uno scanno o una racchetta. Si
può giocare alla distesa, all’aperto,
oppure con la corda o la rete, in luoghi
recintati e coperti. Quarant’anni dopo,
in Francia, l’anziano maitre de
paume Forbet pubblica il primo
regolamento ufficiale sul tennis.
Il duca Alfonso II d’Este, instancabile
calciatore e tennista, gioca al
zuogo della racheta quasi ogni
giorno con professionisti, amici,
cortigiani e servitori «in abito
succinto […] e con i piedi calzati alla
leggera, come sono le scarpe assolate in
pelle di bufalo». Si allena spesso con
il cameriere Vincenzo Flisco e con il
giovane studioso Scaino, giocatore
professionista. L’abate bresciano gioca
con una splendida racchetta, cordata
obliquamentee con doppia impugnatura.
Giovanni Canigiani, ambasciatore
fiorentino della corte estense, ricorda
che il 21 dicembre 1564 il duca Alfonso
II sfida il conte Luigi Pico della
Mirandola in una partita della durata di
quasi cinque ore, nonostante avesse
sempre nevicato.
Tra i racchettieri stipendiati dal duca
ci sono: Giovanni Clove, i maestri
Pietro Piettone, Loren de Morio, Giffre
Sartone e Giovanni Ricardi. A metà
Cinquecento la Casa d’Este finanzia la
costruzione di sale e campi per il gioco
della racchetta al Palazzo di corte e ai
Castelli di San Michele, Fossadalbero e
Belfiore. Con il tempo si attrezzano per
il gioco anche le residenze più lontane
come Villa d’Este a Tivoli, dove viene
realizzato un campo all’aperto. Molti i
pittori impiegati a corte che furono
pagati«per haver dato de nigro» alle
pareti delle sale da racchetta. I muri
dei campi coperti dovevano essere
ridipinti di tanto in tanto per
ripulirli delle effigi bianche lasciate
dalle «palle picciole».
Nel giardino del palazzo rinascimentale
fra fontane, limonaie, labirinti e
piscine d’acqua spesso c’è anche un
campo da tennis. Nel paesaggio di
contorno alla scena biblica del Re
Davidche consegna una lettera a Uria
dipinta a inizio Cinquecento da Lucas
Gassel ha luogo un incontro al gioco
della racchetta. Il campo all’aperto
ritratto dal paesaggista fiammingo è
rettangolare, pavimentato e protetto da
un’alta cinta muraria.
A Fontainebleau l’architetto manierista
Sebastiano Serlio progetta per il
cardinale Ippolito d’Este II un campo da
tennis lungo, alla francese, chiamato da
Scaino «maggior steccato». A fine
Ottocento, con la nascita del britannico
lawn tennis, muri e sponde
scompariranno e il campo in erba,
all’aperto assumerà forma a clessidra.
Al gioco estivo all’aria aperta si
affianca quello invernale nelle sale, il
più delle volte concepite come edifici
autonomi; ne è un esempio, la sala da
pallacorda costruita a fine Settecento
nel giardino della Villa Medicea di
Poggio a Caiano.
Il cardinale Ferdinando de’ Medici
incarica nel 1583-84 l’architetto
Bartolomeo Ammannati di realizzare una
sala da pallacorda nell’ala grande della
Villa Medici a Roma. Sono molti i
palazzi romani che tra Cinque e Seicento
possiedono campi e sale per il gioco
della pallacorda, tra questi Palazzo del
Quirinale, Palazzo Altemps, Palazzo
Farnese e Palazzo Colonna.
Anche al Vaticano si gioca all’antico
tennis. Nel diario romano del 1539
Torquato Tasso scrive di stanze prossime
agli appartamenti privati di Papa Giulio
III adibite al gioco della palla. In
un’incisione di Domenico Parasacchi
contenuta nella Raccolta delle
principali fontane dell'inclitta città
di Roma del 1647 due uomini con
racchetta, uno dei quali in procinto di
colpire la pallina, giocano su un
pavimento piastrellato davanti a una
fontana, detta Fontana del Capo
Cor’itore del Vaticano nell’appartamento
antico.
Il pittore veneziano Gabriele Bella,
illustratore della vita festosa della
Serenissima, documenta la moda
dell’antico tennis nella Venezia del
Settecento con il Giocco Della
Racchetta, dipinto realizzato tra il
1779 e il 1792 e conservato alla
pinacoteca della Fondazione Querini
Stampalia. Quattro racchettieri giocano
un doppio su un campo chiuso e al
coperto. Due gallerie disposte sui lati
lunghi della sala ospitano un pubblico
di tifosi e scommettitori. Vicino a uno
dei finestroni dell’edificio un
raccattapalle recupera una palla rimasta
impigliata tra le reti di protezione
delle vetrate. I giocatori disputano la
partita su un terreno lastricato in
mattoni e diviso da un’alta rete,
impugnano racchette cordate
obliquamentee giocano con ballette
a spicchi neri e rossi. La parete di
fondo del campo riporta segnate le
caccie.
A documentare prima di Bella che
l’antico gioco del tennis fosse un
passatempo in voga nella Venezia
settecentesca è Giambattista Tiepolo con
la celeberrima Morte di Giacinto,
opera del 1752-1753 conservata alla
Fondazione Thyssen-Bornemisza di Madrid.
Noto ai cultori della storia del tennis,
il dipinto rappresenta l’antica favola
del dio Apollo e dell’amante Giacinto.
Il poeta latino Ovidio nelle
Metamorfosi racconta che il
bellissimo principe spartano, conteso da
Zefiro e Apollo, viene ferito a morte
durante una gara di lancio del disco. Il
disco deviato da un colpo di vento
alzato da Zefiro colpisce alla tempia
Giacinto che, riverso a terra, versa
sangue. Disperato della perdita
dell’amante, Apollo trasforma il
giovinetto in un fiore.
Nella rilettura tiepolesca dell’antico
mito la palla rimpiazza il disco. In
primo piano, vicino a palline in cuoio
cucite sta distesa a terra una racchetta
cordata verticalmente con un emblema
nobiliare all’incrocio fra manico e
telaio, in lontananza, invece, fra le
gambe di un alabardiere, s’intravede una
rete divisoria afflosciata.
L’adattamento moderno della favola è da
imputare al poeta cinquecentesco
Giovanni Andrea dell’Anguillara che
nella traduzione delle Metamorfosi
ovidiane del 1561 introduce il
rinascimentale gioco della racchetta,
chiamato dai britannici royal tennis.
Il principe Wilhelm Friedrich
Schaumburg-Lippe, committente del
dipinto, era un abile tennista, inoltre,
all’epoca, gli incidenti mortali dovuti
alla durezza delle palle non erano una
rarità.
L’insolita rappresentazione della gara
tra Apollo e Giacinto, ritratti nelle
vesti di giocatori di racchetta, è già
presente nell’iconografia del Seicento.
Apollo soccorre Giacinto e mentre tiene
in pugno ancora la racchetta sostiene il
corpo dell’amante ormai privo di vita.
La racchetta del giovane ferito sta a
terra in primo piano. Il dipinto
realizzato attorno al 1630 e attribuito
da Gianni Papi a Francesco Boneri, detto
Cecco del Caravaggio, modello prediletto
oltre che compagno di gioco di
Michelangelo Merisi da Caravaggio,
racconta un episodio biografico che
coinvolge entrambi gli artisti, il
maestro e l’allievo. A Roma presso il
Muro Torto, il 28 maggio 1606 in via
della Pallacorda Caravaggio uccide
durante una rissa Ranuccio Tommasoni da
Terni, rivale in amore e avversario
nella tifoseria sul campo di gioco.
Grandi amanti del gioco, come i reali,
anche gli artisti nella palla e nella
racchetta si dilettano e trovano
ispirazione. «Avevo in questo mio
castello un giuoco di palla da giuocare
alla corda, dal quale io traevo assai
utile». Così Benvenuto Cellini, maestro
orafo e scultore del manierismo
fiorentino, ricorda il soggiorno alla
corte di Francesco I di Francia nella
sua Vita. Secondo lo studioso
Cees De Bondt, Donato fiorentino detto
Donatello ambienta il Miracolo del
figlio pentito, rilievo bronzeo
appartenente all’altare della Basilica
del Santo di Padova, dentro un campo per
il gioco della palla.
Nel suo lungo sviluppo dal tiro con il
palmo a quello con la racchetta,
l’antico gioco del tennis continua a
regalare ancor oggi, come Scaino a metà
Cinquecento scrisse nel suo Trattato,«beneficio
al corpo, ricreazione e tranquillità
all’animo».
Riferimenti bibliografici:
G. Clerici, Il tennis nell’arte.
Racconti di quadri e sculture
dall’antichità a oggi. Mondadori,
Milano 2018.
L. Bottazzi, Tennis - 100 anni di
storie. Giunti Editore, Milano 2018.
G. Flossi, Il Dio del sole un asso
del tennis?in«ArteDossier», 349
dicembre 2017, pp. 80-81.
L.G. Secchieri, Gioco della racchetta
a Ferrara tramanifestazioni
cavalleresche, rappresentazioni teatrali
e attività economiche, in «Atti
dell’Accademia delle Scienze di
Ferrara», vol. 88, 2010-2011, pp.
99-128.
G. Clerici, 500 anni di tennis,
Mondadori, Milano 2007.
C. De Bondt, Royal Tennis in
Renaissance Italy, Brepols (Belgio),
2006.
G. Tassini, Curiosità Veneziane,
Filippi Editore, Venezia 1970. |