N. 57 - Settembre 2012
(LXXXVIII)
INGEGNERIA ROMANA
LUNGO GLI ARCHI D'ACQUA
di Massimo Manzo
Nel
I
secolo
a.C.
il
geografo
greco
Strabone
notando
che
“i
Romani
posero
ogni
cura
su
tre
cose
sopra
a
tutte,
che
furono
invece
trascurate
dai
Greci,
l’aprire
cioè
strade,
il
costruire
acquedotti,
il
disporre
nel
sottosuolo
le
cloache”,
coglieva
in
pieno
l’importanza
che
la
mentalità
romana
diede
alla
realizzazione
di
opere
complesse
di
ingegneria
civile.
Spiriti
pratici
per
eccellenza,
i
romani
furono
il
primo
popolo
dell’antichità
a
cui
si
devono
l’evoluzione
e lo
sviluppo
dell’ingegneria,
con
tecniche
così
moderne
e
risultati
talmente
maestosi
e
duraturi,
da
stupire
persino
nel
Terzo
millennio.
La
costruzione
di
strade,
acquedotti,
impianti
fognari,
ponti,
disseminati
fin
nelle
più
remote
province
dell’impero,
di
cui
ancora
oggi
rimangono
testimonianze
tangibili,
è da
considerarsi
uno
dei
tratti
distintivi
e
forse
più
importanti
della
civiltà
latina,
un
vero
e
proprio
“marchio
di
romanità”,
unico
e
insuperato
per
più
di
mille
anni.
L’immenso
impianto
viario
è in
questo
senso
emblematico.
Sintomo
evidente
della
potenza
politica
ed
economica
romana,
esso
si
irradiava
a
coprire
tutto
l’impero,
simboleggiando
la
centralità
di
Roma
quale
punto
d’incontro,
sintesi
e
unione
di
civiltà
ed
esperienze
culturali
lontanissime
tra
loro.
La
stessa
urbanizzazione
di
molte
province
è
legata
all’evoluzione
di
tale
sistema
di
comunicazione.
Le
sue
origini
sono
molto
remote
nel
tempo,
ma
fu
soprattutto
in
epoca
tardo
repubblicana
e
imperiale
che
la
rete
stradale
raggiunse
il
suo
massimo
sviluppo,
arrivando
ad
avere
una
maglia
di
ben
120.000
chilometri.
Nella
denominazione,
le
strade
più
antiche
risentono
dei
chiari
scopi
commerciali
per
i
quali
sorsero
e
dei
nomi
delle
località
o
regioni
a
cui
giungevano.
Ne
sono
chiari
esempi
la
via
Salaria,
legata
alle
rotte
del
sale
che
coinvolgevano
l’Italia
centrale;
la
via
Ostiense,
che
ancor
prima
del
sorgere
dell’omonima
città
collegava
Roma
alla
foce
(ostium
appunto)
del
Tevere;
e
ancora
la
via
Tuscolana,
che
portava
a
Tusculum
o la
Tiburtina
che
invece
giungeva
a
Tivoli.
Fu
solo
con
la
celeberrima
via
Appia,
voluta
dal
censore
Appio
Claudio
nel
312
a.C.,
che
le
viae
cominciarono
a
essere
intitolate
al
magistrato
che
ne
disponeva
la
costruzione,
tributandogli
così
un
onore
paragonabile
solo
al
trionfo
riservato
ai
generali
vittoriosi.
Strade
come
la
Flaminia,
l’Aurelia,
la
Cassia,
l’Aemilia,
i
cui
nomi
sono
ancora
oggi
familiari
per
chi
vive
a
Roma,
testimoniano
tale
tendenza.
Il
tracciato
delle
antiche
viae,
seguendo
un
percorso
volto
al
rapido
raggiungimento
della
meta,
veniva
studiato
con
la
massima
cura
ed
era
quasi
sempre
rettilineo,
anche
con
forti
pendenze,
che
arrivavano
a
raggiungere
in
certi
tratti
il
20%.
Pur
sfruttando
al
massimo
la
natura
del
paesaggio
che
attraversava,
però,
si
doveva
spesso
contrastarlo
con
opere
che
rivelano
la
grande
perizia
tecnica
dei
costruttori.
Trafori,
viadotti,
ponti,
terrazzamenti,
oltre
a
opere
di
consolidamento
e
protezione
della
via
come
muri
e
canali
di
deiezione,
erano
infatti
indispensabili
per
rendere
rapido
e
sicuro
il
percorso,
conferendogli
stabilità
e
uniformità.
Un
altro
elemento
imprescindibile
nella
scelta
del
tracciato
era
la
conoscenza
perfetta
della
geomorfologia
dei
terreni
e
della
natura
del
sottosuolo,
che
avrebbe
garantito
la
durevolezza
dell’opera,
evitando
cedimenti,
frane
o
sprofondamenti.
Deciso
l’itinerario,
iniziava
il
duro
lavoro
di
costruzione,
che
partiva
con
lo
scavo
di
un
canale
profondo
intorno
ai
60
centimetri,
corrispondente
alla
carreggiata,
riempito
con
diversi
strati
di
malta
e
pietrisco,
e
terminava
con
il
posizionamento
di
grandi
pietre
poligonali,
per
lastricare
la
strada.
In
genere
la
carreggiata
era
larga
4
metri,
con
l’aggiunta
di
marciapiedi
che
aggiungevano
3
metri
per
lato.
Si
arrivava
così
a
una
larghezza
complessiva
di
10
metri.
Lungo
le
viae,
amministrate
in
età
repubblicana
dagli
edili
e a
partire
da
Augusto
da
appositi
curatores
viarum
di
nomina
imperiale,
si
trovava
inoltre
un
sistema
di
segnalazioni,
costituito
dalle
pietre
miliari
(blocchi
di
pietra
cilindrica
che
indicavano
ogni
miglio
le
distanze
da
Roma
o da
altre
importanti
città),
e
una
rete
di
punti
di
sosta
per
i
viaggiatori.
L’efficienza
delle
comunicazioni
stradali
in
epoca
romana
è
confermata
dai
tempi
di
percorrenza
e
dall’esistenza
di
un
sistema
postale
velocissimo,
che
permetteva
alle
staffette
di
raggiungere
in
media
le
50
miglia
giornaliere.
Un’altra
meraviglia
dell’ingegneria
erano
gli
acquedotti,
suggestivamente
soprannominati
da
Goethe
“una
successione
di
archi
di
trionfo”,
sottolineando
il
fascino
decadente
delle
loro
rovine.
Resa
indispensabile
per
la
fornitura
idrica
di
Roma,
che
si
avviava
a
divenire
una
metropoli,
la
costruzione
di
acquedotti
iniziò
nel
IV
secolo
a.C.
a
opera
del
solito
Appio
Claudio,
dal
quale
prese
il
nome
il
primo
di
essi.
Iniziando
nei
pressi
della
via
Collatina,
l’acquedotto
Appio
aveva
una
lunghezza
di
16
chilometri,
percorsi
quasi
completamente
sottoterra,
e
arrivava
fino
al
Foro
Boario,
tra
il
Campidoglio
e
l’Aventino.
A
esso
ne
seguirono
molti
altri:
solo
Roma
ne
aveva
11,
per
una
lunghezza
totale
di
500
chilometri,
senza
contare
quelli
sparsi
nel
resto
del
suo
vasto
impero.
D’altronde
gli
impianti
termali,
le
fontane,
le
piscine
diffuse
nell’Urbe,
nonché
le
abitazioni
dei
pochi
facoltosi
in
grado
di
permetterselo,
richiedevano
una
fornitura
d’acqua
spaventosa,
soprattutto
se
confrontata
a
quella
attuale:
nel
complesso
la
quantità
giornaliera
era
infatti
di
circa
un
milione
di
metri
cubi;
oggi
Roma
ne
fornisce
circa
un
milione
e
ottocento,
ma
ha
il
triplo
degli
abitanti.
Il
primo
dei
nodi
da
sciogliere
per
la
costruzione
di
un
acquedotto
era
la
scelta
della
sorgente
naturale
adatta,
che
veniva
selezionata
valutando
la
sua
posizione
geografica,
la
regolarità
del
flusso,
nonché
le
caratteristiche
dell’acqua:
il
grado
di
purezza,
il
sapore,
la
temperatura,
la
presenza
di
sali
minerali
e
persino
le
qualità
medicamentose.
Le
sorgenti
si
trovavano
tutte
in
zone
collinari,
situate
più
in
alto
rispetto
alla
città,
dato
che
l’unico
“motore
naturale”
che
gli
ingegneri
romani
usarono
per
trasportare
l’acqua
era
la
forza
di
gravità.
Il
percorso
che
l’acquedotto
avrebbe
seguito
era
quindi
scelto
calcolando
una
leggera
e
continua
pendenza,
in
media
del
2%,
analizzando
attentamente
la
natura
del
territorio.
Per
tracciare
l’itinerario
venivano
utilizzati
appositi
strumenti
tecnici
come
il
chorobates
(simile
alla
livella),
che
permetteva
di
tracciare
una
linea
orizzontale
immaginaria
seguendo
il
corso
dell’acquedotto
e
segnando,
a
intervalli
regolari,
le
distanze
verticali
tra
questa
e il
terreno.
Prima
di
essere
incanalata
in
apposite
condutture
di
piombo,
l’acqua
passava
per
delle
vasche
di
decantazione,
presenti
anche
lungo
il
tragitto
dell’acquedotto,
dette
piscinae
limariae,
dove
scorrendo
più
lentamente,
veniva
eliminata
qualsiasi
impurità.
Gran
parte
del
percorso
avveniva
poi
sottoterra,
e
solo
quando
c’era
da
superare
un
ostacolo
naturale
l’acquedotto
usciva
allo
scoperto,
rivelando
quelle
magnifiche
strutture
ad
archi
le
cui
rovine
sono
ancora
maestose
e
affascinanti.
Chi
si
prende
cura
degli
acquedotti
di
Roma,
e
quindi
controllava
e
amministrava
di
tutte
le
risorse
idriche,
fu
il
potente
curator
aquarum,
che
per
svolgere
efficacemente
il
suo
ruolo
aveva
alle
dipendenze
un
vasto
staff
fatto
di
architetti,
ingegneri,
tecnici,
nonché
di
centinaia
di
schiavi
“pubblici”,
ovvero
mantenuti
dallo
Stato.
È
proprio
grazie
al
trattato
di
un
curator
aquarum,
Sesto
Giulio
Frontino,
vissuto
nel
I
secolo
d.C.,
che
si è
riusciti
ad
avere
informazioni
essenziali
sui
metodi
di
costruzione
e
altre
preziosissime
notizie
relative
agli
acquedotti.
Ultima
delle
tre
realizzazioni
ingegneristiche
richiamate
da
Strabone
fu
la
creazione
a
Roma
di
un
vasto
sistema
di
cloache,
finalizzate
allo
smaltimento
dei
prodotti
di
rifiuto
e
delle
acque
nere.
La
prima
fra
queste,
la
Cloaca
Maxima,
fu
la
più
antica
e
grande
fra
le
opere
di
urbanizzazione
di
Roma.
La
sua
costruzione
risale
addirittura
all’epoca
dei
Tarquini
(VI
secolo
a.C.)
quando
l’Urbe
era
ancora
una
monarchia.
Prima
che
fosse
realizzato
il
sistema
delle
cloache,
Roma
era
infatti
circondata
da
paludi
e
acquitrini,
talché
la
loro
ideazione
fu
il
presupposto
indispensabile
per
la
crescita
della
città.
Sotto
questo
aspetto
i
Romani
devono
senz’altro
molto
agli
Etruschi,
da
cui
appresero
utilissime
tecniche
di
ingegneria
idraulica
che
riprenderanno
e
affineranno,
per
organizzare
e
migliorare
su
larga
scala
il
loro
impianto
fognario.
Fu
proprio
grazie
alla
Cloaca
Maxima
che
si
riuscirono
a
sanare
ampie
aree
della
città
corrispondenti
al
Circo
Massimo,
al
Foro
e
alla
Suburra.
La
sua
manutenzione
continuò
imperterrita
durante
tutta
l’epoca
imperiale,
tanto
da
rendere
visibili
successivi
rimaneggiamenti
e
miglioramenti
dell’opera.
In
alcuni
tratti,
ancora
oggi
percorribili,
essa
esprime
una
“monumentalità”,
che
da
sola
ne
spiega
la
fama.
Valutando
i
traguardi
dell’ingegneria
romana,
non
si
può
che
rimanere
stupefatti,
riconoscendogli
una
modernità,
un’efficienza
e
una
genialità
che
travalicano
i
limiti
temporali,
rendendo
quell’esperienza
unica
e
irripetibile.
Essa
è
forse
veramente
“la
più
alta
manifestazione
della
grandezza
di
Roma”,
come
affermava
Frontino.
Di
sicuro,
rappresenta
una
delle
eredità
più
autentiche
che
i
Romani
hanno
lasciato
al
mondo.