N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
andrés Escobar
Quando il calcio si macchia di sangue
di Francesco Agostini
Quando
John
Harkes,
centrocampista
degli
Stati
Uniti,
il
22
giugno
del
1994,
effettuò
un
innocuo
cross
dalla
sinistra
in
uno
Stati
Uniti
–
Colombia,
tutto
avrebbe
potuto
immaginare
tranne
che
avrebbe
dato
sfogo
a
una
pura
e
semplice
follia
collettiva.
Questa
follia
collettiva
sarebbe
sfociata
qualche
giorno
più
tardi,
il 2
luglio
1994,
nell’omicidio
del
giocatore
più
rappresentativo
della
compagine
colombiana
presente
ai
mondiali
del
‘94:
Andrés
Escobar.
Ma
andiamo
con
ordine.
La
nazionale
del
commissario
tecnico
Francisco
Maturana
al
mondiale
americano
era
accreditata
come
una
fra
le
possibili
sorprese
del
torneo:
oltre
a un
gioco
offensivo
e
divertente,
quasi
di
stampo
“sacchiano”,
fra
le
sue
fila
annoverava
nomi
altisonanti
quali
l’attaccante
del
Parma
Faustino
Asprilla
e il
centrocampista
più
appariscente
della
storia,
il
biondissimo
Carlos
Valderrama.
Ad
accrescere
ancora
di
più
la
nomea
di
mina
vagante
del
torneo
erano
state
le
qualificazioni
al
mondiale,
nelle
quali
la
Colombia
si
era
classificata
come
prima
del
girone
a
dieci
punti
davanti
alla
ben
più
attrezzata
Argentina
di
Maradona
e
soci.
Proprio
sull’Argentina
la
Colombia
si
era
imposta
con
un
roboante
5 a
0,
illudendo
i
più.
Purtroppo
però,
intorno
alla
nazionale
colombiana
si
era
iniziato
a
creare
da
diverso
tempo
un
giro
losco
di
criminalità
legata
alle
scommesse
e al
narcotraffico,
che
aveva
spesso
interferito
con
la
normale
attività
sportiva;
i
primi
segnali
destabilizzanti
si
erano
già
visti
parecchio
tempo
prima.
Ironia
della
sorte,
l’inizio
di
tutte
le
disgrazie
si
deve
proprio
a un
altro
Escobar,
Pablo,
che
non
ha
nulla
a
che
vedere
con
Andrés,
che
invece
in
campo
si
distingue
a
tal
punto
per
la
sua
classe
ed
eleganza
che
la
gente
gli
affibbia
il
nomignolo
di
El
Caballero
del
Futbol.
Pablo,
da
ladro
di
macchine
che
era
in
gioventù,
riuscì
a
diventare
l’unico
e
incontrastato
boss
della
cocaina,
tant’è
vero
che
agli
inizi
degli
anni
‘90
controllava
l’80%
del
traffico
di
droga
dell’intero
pianeta:
questo
fece
di
lui
uno
degli
uomini
più
facoltosi
di
sempre.
Ovviamente
però,
questo
denaro
sporco
doveva
essere
riciclato
e
ripulito
in
qualche
modo
e il
canale
scelto
fu
proprio
il
calcio,
precisamente
nell’Atlético
Nacional:
non
a
caso,
infatti,
la
squadra
di
Medellìn
iniziò
una
lenta
e
inesorabile
scalata
al
successo.
L’ascesa
fu
talmente
vertiginosa
che,
nel
1989,
l’Atlético
Nacional
vinse
la
Copa
Libertadores
e
raggiunse
la
finale
della
Coppa
Intercontinentale,
piegato
solamente
ai
rigori
dal
Milan.
Pablo
Escobar,
così
facendo,
iniziò
a
muovere
a
suo
piacimento
i
fili
della
droga
e di
conseguenza
anche
del
mondo
del
pallone:
proprio
per
questo,
infatti,
nel
calcio
colombiano
iniziarono
ad
accadere
cose
alquanto
strane.
Il
primo
evento
degno
di
nota
è
datato
1992,
quando
il
commissario
tecnico
della
Colombia
Maturana
fu
minacciato
di
morte
perché
“accusato”
di
aver
convocato
in
nazionale
alcuni
giocatori
dell’Antioquia,
l’altra
squadra
di
Medellìn.
Le
accuse
furono
ignorate
e
Maturana
proseguì
nella
sua
strada.
Nel
frattempo,
Pablo
Escobar
iniziò
a
trovare
qualche
difficoltà
nonostante
fosse
amatissimo
dal
popolo:
il
trafficante
di
droga,
infatti,
pur
essendo
un
criminale,
durante
tutta
la
sua
vita
non
dimenticò
mai
la
gente
bisognosa
alla
quale
spesso
fece
ingenti
regali,
essendo
contraccambiato
da
vari
favori,
fra
i
quali
l’essere
spesso
nascosto
e
protetto
dalle
autorità
locali.
Vedendosi
dare
la
caccia
soprattutto
dalla
polizia
statunitense,
Escobar,
per
evitare
l’estradizione,
si
consegnò
alle
autorità
e
patteggiò
una
“regale
detenzione”
in
una
villa
piena
di
ogni
comfort
costruita
da
lui
stesso,
sulle
colline
di
Medellìn:
la
meravigliosa
Catedral.
Qui,
Pablo
Escobar
avrebbe
dovuto
scontare
cinque
anni
di
prigionia
che
non
rispettò
mai.
Spesso,
infatti,
venne
fotografato
a
spasso
in
città,
in
barba
a
qualsiasi
ordinanza
proveniente
dal
governo
colombiano
che,
vista
la
sua
insolenza,
si
vide
costretto
ad
agire.
Per
evitare
una
nuova
condanna
all’estradizione,
Pablo
Escobar
tentò
la
fuga.
In
questo
contesto,
tornano
a
galla
i
legami
con
il
calcio
e
con
i
calciatori,
che
gli
sono
molto
legati.
Proprio
in
quel
periodo,
infatti,
Renè
Higuita,
l’istrionico
portiere
famoso
per
l’audace
“mossa
dello
scorpione”,
fu
arrestato
per
essersi
prestato
a
fare
da
mediatore
nel
sequestro
di
persona
della
figlia
di
Luis
Carlos
Molina
Yepes,
ex
dirigente
della
squadra
di
calcio
Nacional
Medellìn,
all’epoca
di
professione
commerciante
e
per
di
più
fuggiasco,
perché
accusato
di
narcotraffico
e
omicidio.
Una
volta
incassato
il
suo
compenso,
senza
dire
nulla
alla
polizia,
il
portiere
della
nazionale
colombiana
si
recò
dai
sequestratori
con
la
somma
pattuita
e si
fece
dire
dove
era
nascosta
la
ragazza.
Per
questo
episodio
Higuita
scontò
sei
mesi
di
carcere
e
rimase
in
libertà
vigilata
per
diverso
tempo:
dovette
perciò
dire
addio
ai
mondiali
del
1994.
Quei
soldi
servivano
a
finanziare
la
fuga
definitiva
di
Pablo
Escobar,
amico
intimo
di
Higuita.
Contemporaneamente
si
scatenò
una
vera
e
propria
caccia
all’uomo
che
si
sarebbe
conclusa
solamente
con
la
morte
del
narcotrafficante:
a
volerlo
uccidere
furono
soprattutto
i
Search
Bloc,
una
squadra
speciale
di
polizia
colombiana
e i
Los
Pepes,
un’organizzazione
criminale
molto
ostile
a
Escobar.
Il 2
dicembre
1993,
finì
la
corsa
del
narcotrafficante:
queste
due
forze
(si
dice
aiutate
e
finanziate
dagli
Stati
Uniti)
riuscirono
a
braccare
e
uccidere
il
boss.
A
questo
punto
però,
in
Colombia,
si
scatenò
il
caos.
Bande
rivali
dedite
alle
scommesse
e al
narcotraffico
nemiche
di
Escobar
tentarono
di
prendere
il
potere
e il
mondo
del
calcio,
senza
la
protezione
del
suo
ex
padrone,
si
ritrovò
in
balìa
di
una
lotta
furibonda.
Pochi
mesi
prima
del
mondiale,
infatti,
avvenne
il
rapimento
del
figlio
di
un
giocatore
dell’Atletico
Nacional
(il
club
di
cui
era
protettore
Escobar),
Luis
Fernando
Herrera,
con
conseguente
richiesta
di
un
salatissimo
riscatto:
la
vicenda
terminò
senza
gravi
conseguenze
dato
che,
dopo
l’appello
in
televisione
del
giocatore,
ci
fu
la
restituzione
del
bambino.
In
questo
clima
di
sangue
e
morte,
la
nazionale
Colombiana
partì
per
la
spedizione
mondiale,
in
direzione
Stati
Uniti.
Il
gruppo
in
cui
capitò
non
era
dei
più
irresistibili:
oltre
ai
padroni
di
casa
comprendeva
Romania
e
Svizzera,
squadre
sicuramente
meno
competitive
dal
punto
di
vista
tecnico
rispetto
alla
Colombia.
Eppure,
alla
partita
d’esordio
contro
la
Romania,
arrivò
una
sonora
sconfitta
per
tre
a
uno
con
due
reti
di
Raducioiu
e
goal
di
Hagi:
per
tutti
fu
uno
shock
terribile.
La
stampa
si
scagliò
contro
la
squadra
e in
particolar
modo
contro
il
centrocampista
Gabriel
Gomez,
accusato
di
giocare
solamente
perché
suo
fratello
era
il
vice
del
commissario
tecnico
Maturana.
La
mattina
prima
della
gara
con
gli
Stati
Uniti
la
situazione
degenerò,
e un
fax
anonimo
raggiunse
la
nazionale
colombiana:
il
fax
minacciava
di
far
saltare
in
aria
la
casa
di
Maturana
se
Gomez
avesse
giocato.
Maturana,
sconcertato
per
questa
seconda
minaccia
di
morte,
scelse
di
far
accomodare
Gomez
in
panchina.
Ed
eccoci
di
nuovo
al
22
giugno
del
1944
dell’inizio,
precisamente
al
cross
dell’americano
John
Harkes.
La
palla
volò
in
mezzo
all’area
di
rigore
colombiana
e
Andrès
Escobar,
impaurito
dal
possibile
arrivo
di
un
attaccante
statunitense
alle
sue
spalle,
entrò
in
scivolata
e,
sfortunatamente,
deviò
il
pallone
nella
propria
porta.
Autogol
e 1
a 0
per
gli
Stati
Uniti.
La
Colombia,
già
scossa
dalla
deludente
partita
d’esordio
e
dalle
minacce
di
morte,
si
sgretolò:
al
52’
ci
fu
il
raddoppio
di
Stewart
che
chiuse
virtualmente
la
partita.
Inutile
fu
il 2
a 1
di
Valencia
al
90’.
All’ultima
partita
contro
la
Svizzera,
la
situazione
era
ormai
compromessa:
Colombia
riuscì
comunque
a
vincere
per
2 a
0
con
reti
di
Gaviria
e
Lozano.
Nonostante
quest’ultima
vittoria
però,
con
soli
tre
punti
conquistati
si
classificò
ultima
nel
girone
e
dovette
dire
addio
prematuramente
al
mondiale.
E
così
la
Colombia,
la
possibile
sorpresa
del
torneo,
se
ne
tornò
mestamente
in
patria,
subissata
dalle
critiche:
in
particolar
modo
fu
preso
di
mira
Escobar,
El
Caballero
del
Futbol,
che
con
la
sua
autorete
fu
indicato
come
il
maggiore
responsabile
del
flop
mondiale.
Ma
la
vita
continua.
E
così,
Escobar,
la
sera
del
2
luglio
1994
si
recò
a un
ristorante
di
Las
Palmas,
un
quartiere
di
Medellìn,
accompagnato
da
tre
donne.
Qui,
nel
locale,
iniziò
un
diverbio
con
tre
uomini
che
lo
accusarono
di
essere
il
maggiore
responsabile
dell’eliminazione
della
Colombia,
a
causa
di
quel
maledetto
autogoal:
una
volta
terminata
la
lite
però,
Escobar
si
diresse
verso
l’auto
per
fare
rientro
a
casa
non
sospettando
nulla.
Proprio
davanti
alla
sua
macchina,
in
un
buio
parcheggio,
con
in
sottofondo
l’esclamazione
“grazie
per
l’autogoal!”
i
tre
fecero
fuoco
sul
giocatore,
uccidendolo
istantaneamente.
Una
volta
compiuto
l’omicidio,
i
tre
fuggirono
su
una
jeep
Toyota
che
fu
ritrovata
in
seguito
e
che
risultò
essere
stata
rubata.
A
quanto
pare,
da
un’inchiesta
che
partì
in
seguito
alla
morte
di
Escobar,
si
venne
a
sapere
che
alcuni
clan
di
Medellìn
scommisero
ingenti
somme
di
denaro
sul
passaggio
del
turno
della
Colombia
e
che
il
difensore,
con
il
suo
autogoal,
avrebbe
contribuito
fortemente
all’eliminazione
della
squadra,
provocando
ingenti
perdite
al
clan.
Queste
perdite
sarebbero
state
l’origine
dell’omicidio
di
Andrès
Escobar,
costretto
a
pagare
la
sua
“colpa”
con
il
sangue.
Successive
voci
non
confermate
dissero
che
i
sicari
fossero
stati
criminali
molto
vicini
ai
Los
Pepes,
il
clan
ostile
al
narcotrafficante
e
amico
dei
giocatori
colombiani,
Pablo
Escobar.
Quando
però
tutte
le
indagini
sembrarono
portare
ad
una
pista
certa,
saltò
fuori
il
nome
dell’assassino:
Humberto
Munoz
Castro,
persona
vicina
ai
Los
Pepes,
ma,
sulla
carta,
totalmente
estranea
a
qualsiasi
giro
losco
di
Medellìn.
Come
pena
Castro
fu
condannato
a
quarantatré
anni
di
carcere
e il
caso
venne
ufficialmente
chiuso
come
una
follia
dovuta
all’eccessiva
passione
calcistica.
La
cosa,
a
tutt’oggi,
risulta
essere
francamente
poco
credibile.