N. 6 - Giugno 2008
(XXXVII)
iL POTERE LOGORA CHI NON CE L’HA
Andreotti visto Dal cinema
di Laura Novak
Sono usciti quasi insieme due film senza precedenti, per certi aspetti. é stato chiamato Belzebù, Il Divo, Zio Giulio,
Onnipresente, Indecifrabile.
Per coloro che non hanno avuto con lui nessun tipo
di contatto, per gli italiani che lo hanno votato
per anni e anni, è Giulio Andreotti, senatore,
ministro, presidente del consiglio, senatore a vita,
ma soprattutto il mistero politico italiano per
eccellenza.
Nell’apparenza arcigna, rannicchiato nelle spalle
tese ed assorto nel ticchettio delle dita lunghe e
sottili, Giulio non dorme. Le notti di Roma,
piacevolmente profumate e miti lo assistono nella
sua veglia silenziosa, in un appartamento ombroso ed
antiquato.
Il settimo governo Andreotti si sta delineando
all’orizzonte, sulla spinta energica della sua
corrente, la cosiddetta corrente andreottiana,
farcita di individui ai margini della
rispettabilità, ma al centro della politica
italiana.
La tela delle alleanze sembra tessuta senza
sfilacciamenti. Ma la tela si strappa e da lì a poco
il governo cade.
E’ il momento dell’ombra politica, della
Tangentopoli orrendamente svelata, delle stragi
mafiose e dell’attacco alla giustizia viscidamente
dall’interno.
Eppure lui c’è, in parlamento, nel buio e nel
silenzio della chiusura dei seggi, mentre nessun
altro lo vede, attaccato alla sua poltrona di
senatore a vita, nel sogno costante di una carriera
da concludersi nelle stanze del Quirinale.
E attende la realizzazione di quel sogno, fino
all’ultimo, mentre la sua credibilità si sgretola
sotto le parole di Tommaso Buscetta, parole dalla
potenza di un accetta affilata su i suoi 40 anni di
potere.
Questo è l’Andreotti de “Il Divo”, l’ultimo faticoso
ed ambizioso film di Sorrentino, regista apprezzato
già in passato da pubblico e critica, per film come
“Le Conseguenze dell’Amore” e “L’Amico di Famiglia”.
Sorrentino, assorbito nel mistero del suo
protagonista, elabora, arrotonda ed acuisce aspetti,
tic e sensazioni del personaggio più controverso
della nostra storia recente.
Ne rende le ombre, ne esplora le luci della ribalta
sul viso, ne esamina i rapporti e non rapporti
personali, ne esalta l’incredibile acutezza di
ironia, ne ascolta i silenzi e ne percepisce i
bisbigli.
L’operazione di rappresentazione cinematografica di
un enorme enigma esistenziale individuale, era
potenzialmente buona, ma complessa.
Il soggetto, vivente più che mai, è un scrigno di
segreti mai svelati, un totem di potere e un
magnifico interprete di se stesso. La banalità, la
mancanza di approfondimento e la paura di esporsi
poteva essere lì, nell’angolo buio dell’insuccesso.
Eppure Sorrentino non sbaglia, anzi vince.
La scelta della regia, veloce e acuta, modernamente
grafica e secca, rende il film un accattivante
fenomeno. Ogni sua scelta stilistica crea un
architettura barocca di immagini sensazionalistiche
, scandite dalla colonna sonora sfrontata e
accattivante, in cui il silenzio di rispetto a morti
e stragi lascia il posto a pop music di annata.
Ed Andreotti, interpretato da un ispirato Tony
Servillo, rivive la sua trascinante vita,
moderatamente spericolata e riccamente modesta, il
suo momento d’oro e il suo momento di abbandono, il
suo destino mediatico e di cronaca nera.
I fantasmi del suo passato riecheggiano nel corso
del film con scadenza regolare, come un tortura
lunga e straziante, da Pecorelli a Moro, da Falcone
al generale Dalla Chiesa.
Tutti là, mai dimenticati nella sua mente, ma,
forse, mai realmente rimpianti.
E senza paura il regista si spinge, ricostruisce
confessioni mai avvenute, ne immagina i contorni di
tragedia ed i sensi di colpa.
Lo stragismo come strumento necessario a mantenere
la tensione, a non far cedere l’equilibrio della
bilancia del potere, di cui la Democrazia Cristiana
ne era l’ago da 30 anni. Nessun estremismo poteva
vincere, passato il tempo ambiguo e pericoloso del
compromesso storico di Moro, la Dc doveva imperare
per mantenere l’ordine e la civiltà.
E l’Andreotti, tragicamente cosciente del male,
diventa il simbolo per Sorrentino del popolo
italiano.
Quell’Italia democristiana dell’epoca (e non solo di
quegli anni), senza esposizioni od opinioni,
rassegnata alla collocazione politica, decisa da
altri dopo la seconda guerra mondiale, che ha
dimenticato la sua vena di lotta per rimanere
seppellita nella mentalità di controllo della massa.
La P2 e le scalate alla gestione dell’informazione
sono le scelte colpevoli di una pratica del governo
antica e marcia.
Andreotti, simbolo di questa ambigua politica, ne
diviene carnefice e vittima nello stesso tempo.
Nessuno potrà mai dimostrare la certezza di ogni
accusa a lui rivolta.
Potrebbe essere il più grande delinquente mai
scampato alla giustizia della storia italiana,
oppure il suo più grande perseguitato. Parole del
sensazionale Montanelli.
Ma quello che è certo è che una volta alzati da
quella poltrona di un cinema qualunque, dopo la
visione di questo piccolo gioiello di modernità
cinematografica, ti sentirai italiano, colpevolmente
fermo ed ignorante, cieco e sordo verso il tuo
passato ed il tuo futuro.
Mentre lui, lo Zio Giulio, rimarrà lì, nel suo
cerchio politico, in cui ancor oggi molti lo
venerano, lo ascoltano e lo rispettano, perché chi
deve tacere magicamente taccia al suo passare.
Aldo Moro, non sarebbe probabilmente tra questi,
ora, in questi anni, se solo potesse. Perché forse
lui, la più grande cicatrice di Andreotti, è stato
il solo a non rispettarlo, a non credergli, mai.
Ma anche lui, purtroppo, ora tace. |