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N. 16 - Aprile 2009 (XLVII)

ANALOGICO & DIGITALE
DUE modi PER GUARDARE iL MONDO

di Matteo Liberti

 

Nel 1948 il pittore belga René Magritte dipinse un quadro raffigurante una pipa e, sotto di questa, una scritta: “Ceci n’est pas une pipe”. Traduzione: “Questa non è una pipa”. Per comprendere il significato di quell’apparente provocazione è utile fare ricorso a due “concetti” (oggi diffusissimi in ambito elettronico) che condizionano quotidianamente il nostro rapporto col mondo: Analogico e Digitale.

 

 

Ne chiediamo il significato a Franco Fileni, docente di “Teorie e tecniche dei nuovi media” presso l’Università di Trieste, nonché autore del libro Analogico e digitale. La cultura e la comunicazione. “Si tratta di due modi differenti di rappresentare la realtà: uno procede per analogie e processi continui, l’altro in maniera discontinua e attraverso dei segni (che vanno interpretati con un codice).

 

Un esempio? Negli orologi analogici, quelli in cui c’è una lancetta che si muove nello spazio, è l’immagine di una fetta di quadrante a dirci che ore sono, e il tempo appare come un fluire ininterrotto, continuo. Invece negli orologi digitali abbiamo solo dei numeri (segni), e se vogliamo sapere quanto tempo manca a un certo appuntamento dobbiamo compiere un’operazione algebrica (codifica). Se pensiamo alla comunicazione tra esseri umani, un esempio di analogico è costituito dalla parte non-verbale del linguaggio orale (gesti, sguardi, toni di voce), mentre la scrittura alfabetica è tipicamente digitale”.

 

In sintesi, l’analogico è legato a qualcosa di concreto, il digitale a qualcosa di astratto: uno riproduce, l’altro simbolizza. Col quadro Ceci n’est pas une pipe Magritte sembra però dirci che ambedue le modalità nascondono dei limiti: la scritta (digitale) ci avverte infatti che il disegno della pipa (analogico) non è in fondo una vera pipa… “Ma se anche fossimo incapaci di rappresentare in maniera perfetta il mondo attorno a noi, è proprio attraverso l’analogico e il digitale che lo facciamo”, spiega Fileni. “In fondo anche il nostro cervello lavora secondo questo modello: abbiamo due emisferi, sinistro e destro, che comunicano tra loro elaborando però le informazioni in modo diverso.

 

Semplificando, l’emisfero destro elabora soprattutto l’analogico, il sinistro il digitale. Il primo è sviluppato per elaborare processi visivi come la percezione dello spazio o le immagini, il secondo è specializzato nel linguaggio, nel calcolo e nella percezione del tempo”. Cosa c’entra tutto ciò con la nostra vita quotidiana? “C’entra molto. Ad esempio possiamo ipotizzare che la cultura occidentale sia prevalentemente digitale a causa del tipo di scrittura che utilizza. L’alfabeto, soprattutto dopo l’avvento della stampa, ha determinato una comunicazione basata sui segni (lettere) e sulla loro sequenza (ordine delle parole), favorendo le attività dell’emisfero sinistro e producendo una sorta di fiducia cieca nella razionalità”.

 

Inoltre, alcuni esperimenti hanno mostrato che il nostro campo visuale sinistro è collegato all’emisfero destro (e viceversa): secondo questa logica, le grafie che procedono da destra a sinistra favorirebbero una percezione maggiormente analogica. La direzione nella quale scriviamo può dunque influenzare il nostro modo di pensare? La risposta, secondo Fileni è sì. “Le scritture che vanno da destra a sinistra mettono in funzione prerogative mentali differenti da quelle messe in atto dalla nostra, che ci abitua a una visione lineare e sequenziale del mondo, a una sua scomposizione digitale (come avviene con i pixel di un’immagine al PC)”.

 

Un esempio di ciò si ha nella forma delle nostre città. “La vista”, spiega Fileni, “è condizionata dalla cultura cui apparteniamo e dal nostro tipo di scrittura. Tra gli effetti più visibili dello sviluppo lineare del nostro alfabeto vi è l’invenzione della prospettiva (XV secolo), un modo innaturale di rappresentare lo spazio”. Ciò è facilmente riscontrabile nella tipica linearità delle città occidentali come New York, tutta fatta di strade parallele e numerate. Così come la scrittura è un insieme lineare di lettere che si susseguono una dietro l’altra, gli abitati moderni sono posti ordinatamente uno di seguito all’altro. Ecco perché molto borghi medievali, disegnati prima dell’avvento della prospettiva, ci appaiono spesso disordinati: quell’insieme intricato di stradine sfugge a una logica razionale. Si tratta di una rappresentazione analogica che appare come un retaggio del passato alla nostra vista, ormai abituata a prospettive tutte digitali. Analogico e digitale condizionano quindi anche la percezione dello spazio attorno a noi.


Può allora accadere che la comprensione di una cartina stradale, operazione per noi semplice, sia tutt’altro che facile per culture tendenzialmente analogiche. Lo stesso Fileni racconta in proposito: “tra le culture che non possiedono la scrittura, leggere informazioni su una cartina è a volte impossibile, non si comprende come poter gestire una cosa astratta dalla realtà, per quanto simile. Presso alcune comunità albanesi in provincia di Cosenza (caratterizzate da comunicazione orale) mi sono trovato spiazzato di fronte all’incapacità diffusa di leggere una semplice mappa del paese. Ma quando ho chiesto se era possibile disegnare una cartina con la dislocazione delle varie famiglie del villaggio (elemento più concreto), ogni problema si è risolto”.

 

Oltre alla prospettiva, sembra che anche l’invenzione della stampa abbia prodotto una sua rivoluzione digitale. Attraverso la diffusione dei libri, la scrittura iniziò sempre più a esser separata dalla fonte d’origine, e la trasmissione della conoscenza cominciò a diventare un fatto individuale, un rapporto tra lettore e libro. Non era più necessaria la presenza umana di un oratore, ma semmai la solitudine di una biblioteca. “Fino a quel momento il libro era invece uno strumento che suppliva solo in parte alle comunicazioni orali: durante il medioevo si svolgevano spesso delle letture ad alta voce in apposite riunioni, e la parola diventava un evento cui si era partecipi in tanti, mentre oggi alla relazione orale (analogica) si è sostituita la parola scritta. Dal gruppo si è passati a una sommatoria di singoli individui, e tutto ciò non ha fatto altro che accelerare il nostro passaggio da un mondo analogico a uno digitale”, ammonisce Fileni.


Resistendo alla tentazione di fare come Giorgio Gaber, che si divertiva a indicare cosa fosse “di destra” e cosa “di sinistra”, si possono utilizzare i due concetti di analogico e digitale anche per spiegare differenze comportamentali tra la nostra civiltà (che opera da secoli secondo modelli digitali) e altre più analogiche.

 

Uno dei casi più rilevanti al riguardo è legato all’anno 1519, data in cui i conquistadores spagnoli giunsero presso le coste messicane. Il genocidio che di lì a poco si sarebbe perpetrato ai danni delle popolazioni locali è stato spesso spiegato con la supremazia tecnologica spagnola e con la diffusione di nuove malattie, ma anche in quel caso molto fu dovuto a una diversa interpretazione del mondo. A spiegarlo è il saggista Tzvetan Todorov in La conquista dell’America. La popolazione azteca in particolare, per la sua religione legata alla collettività più che all’individuo, e per un linguaggio basato sui pittogrammi (piccolo disegni che rimandano a cose concrete), può essere considerata a buon titolo come tendenzialmente analogica. E se qualche spagnolo descrisse i nativi di quelle terre come degli ingenui, così non era: semplicemente “organizzavano” il loro pensiero in maniera diversa.

 

Un esempio? Un giorno a un indigeno venne affidato il compito di consegnare una lettera e della frutta (di cui si faceva menzione nella lettera stessa). Lungo la strada questi mangiò un frutto e restò meravigliato che il fatto venisse scoperto dal destinatario della lettera: si diffuse così la voce che gli spagnoli avessero dei fogli “parlanti”. Il linguaggio azteco si basava su delle immagini che rappresentavano direttamente la realtà, mentre quello spagnolo, basato sui segni, possedeva un grado maggiore di astrazione, prestandosi peraltro a essere meglio utilizzato per ingannare…

 

 

Gli aztechi, col loro costante bisogno di rimanere aderenti alla realtà, sembravano addirittura incapaci di dissimulare la verità, di mentire. E così, ad esempio, ogni volta che si apprestavano a una battaglia lanciavano un grido rituale il cui ascolto li faceva puntualmente scoprire dagli spagnoli. Successe anche che durante un tentativo di fuga il sovrano azteco Cuauhtémoc (successore di Moctezuma) fu scovato perché aveva riccamente addobbato la sua nave con le insegne reali. Anche concepire un attacco alle spalle non apparteneva alla loro natura analogica, e il digitale ebbe presto la meglio.

 

L’incontro tra analogico e digitale può anche causare fenomeni più innocui, ma non per questo meno curiosi e inaspettati. A spiegarcelo è la dottoressa Elena Bettinelli nel saggio La cornice analogica e lo spirito islamico, in appendice al lavoro di Fileni. Si parla in questo caso del rapporto tra mondo islamico e immagini. La cultura islamica emerge come tendenzialmente analogica rispetto a quella occidentale, e un esempio di ciò è dato dal calendario lunare, in cui la determinazione dei mesi non segue un modello predefinito (per stabilire l’inizio di un mese è necessario osservare il cielo in attesa della luna nuova). Anche in questo caso fa poi il suo gioco la scrittura, che va da destra a sinistra.

 

 

La sorpresa arriva però da internet: i siti web islamici risultano infatti ricchissimi di icone, foto e illustrazioni, cosa che contraddirebbe i dettami teologici più severi, che pongono forti limiti all’uso delle immagini. Basta entrare in una moschea, solitamente decorata con semplici motivi geometrici, per cogliere subito la differenza rispetto a una chiesa occidentale, ricchissima di dipinti e icone. Perché allora sul web questo limite sembra venire meno? È possibile spiegare questa contraddizione proprio con i concetti di analogico e digitale. L’immagine virtuale, composta da un insieme pixel e frutto di un linguaggio astratto come quello del computer, viene percepita come diversa dall’immagine analogica (da un quadro, per esempio) e in un certo senso è considerata non appartenente alla realtà. Ecco perché può essere utilizzata.

 

“Ma bisogna stare attenti a non cadere in facili forzature”, chiosa Fileni, “va infatti tenuto presente che i processi mentali avvengono attraverso un costante scambio tra la modalità analogica e quella digitale, anche se non sarà mai possibile rappresentare in maniera completa la realtà: se una poesia può evocare nel lettore gli stati d’animo e i sogni del poeta che l’ha scritta, non potrà però farli rivivere appieno”.

 

Sogni analogici e parole digitali, dunque… Che possano a volte sorgere delle incomprensioni è in fondo comprensibile, come ben sapeva René Magritte quando in un giorno del 1948 si apprestò a dipingere quella pipa che non poteva essere una pipa.

 

 

 

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